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Il buon uso dell'inconscio

Conferenze, seminari, interventi e testi del dott. Marco Focchi
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Un tempo senza origini

16/6/2016

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PictureAlessandra Cristiani al festival Trasform'azioni, nel 2011 al teatro Furio Camillo di Roma
Intervento presentato a Milano il 12 giugno 2016 nella tavola rotonda del Convegno SLP sul tema "Il tempo e l'atto nella pratica della psicoanalisi"

Marco Focchi

Siamo ancora tutti ipnotizzati dalla danza di Alessandra Cristiani cui abbiamo appena assistito. Nella danza tradizionale i ballerini prendono il passo della musica, entrano nelle figure ritmiche predisposte dal brano eseguito, si fanno dare il tempo dall’orchestra. Nella danza butō che abbiamo visto ora sembra invece avvenga il contrario: il tempo emana dal corpo della danzatrice che si apre, si dispiega, si dischiude man mano, fiorisce sulla scena. Alessandra poi, nel suo intervento, ha menzionato l’insegnamento del suo maestro, che la incitava ad alimentare l’attesa, un’attesa che non deve essere eccessiva, per non smorzare l’attenzione, ma  che deve essere abbastanza prolungata da portare al giusto grado di tensione. E in effetti nell’esibizione di Alessandra vedevamo una studiata lentezza, dove il corpo prendeva tempo, nella stessa misura in cui si appropriava progressivamente dello spazio, inseguendo la luce nel buio, come facendosene scolpire, fino la momento in cui il buio è scomparso e il corpo è caduto in piena luce, mentre l’accompagnamento sonoro è taciuto, e il silenzio ha avuto l’effetto di riflettere la nudità della danzatrice sul pubblico: eravamo noi, il pubblico, a sentirci denudati dall’assenza dei suoni e dalla luminosità che invece investiva il palco, non protetti dallo schermo invisibile dei fari che, lasciando al buio la platea, solitamente separano gli attori dal pubblico.


Non so se Lacan conoscesse la danza butō. Suppongo di no, dato che, come ci ha spiegato Alessandra, la pratica del butō è nata negli anni sessanta in Giappone, e ha cominciato a diffondersi in occidente negli anni ottanta, quindi dopo la sua morte. Credo però che se l’avesse conosciuta se ne sarebbe interessato, curioso com’è sempre stato di tutto ciò che viene dall’Oriente. Lacan si riferisce tuttavia alla danza, anche se non al butō, in un passo piuttosto enigmatico dell’ultima lezione del seminario XXIII, dove afferma che dovremmo stupirci che la danza non serva di più il corpo. Si tratta di un riferimento non sviluppato, accanto ad alcune osservazioni a proposito del padre della père-version. Lacan non spiega, lancia solo l’idea.
Di che servizio si tratta? Considerando che lungo tutto il seminario parla di come Joyce si sia lasciato sfuggire il corpo, e di come l’ego abbia dovuto essere riparato da una funzione di supplenza fornita dalla scrittura, possiamo immaginare che per la danza si tratti di servire il corpo in modo analogo a quello in cui la scrittura ha servito Joyce nel riannodare a sé il proprio corpo. Un modo in cui la danza può servire al corpo, questo corpo che si possiede come un mobile  ̶ dice Lacan  ̶ è quindi di legarlo, di farlo entrare in una serie di figure ritmate dandogli una certa consistenza.
Credo però che questo riferimento alla danza con il legame, con il nodo, presente nel seminario XXIII, del 1975-1976, si possa meglio capire sullo sfondo di un testo di dieci anni precedente, che è l’”Omaggio a Marguerite Duras", dove Lacan commenta lo straordinario romanzo della Duras “Il rapimento di Lol V.Stein”.
Chi ha rapito chi, nel romanzo? Tutto lo sviluppo narrativo procede dalla scena iniziale del ballo di Michael Richardson, fidanzato di Lol, con Anne-Marie Stretter. Lol li osserva da fuori, subendo il ratto del fidanzato da parte di colei alla quale basta solo apparire per produrre un effetto di rapimento. È come l’Angelica dell’”Orlando innamorato”, alla quale basta apparire al ricevimento di Carlomagno per far innamorare repentinamente tutti i cavalieri presenti nella sala, cristiani o pagani che siano. È apparizione della bellezza pura, che disarma anche i più validi paladini.
La scena iniziale del ballo, nel romanzo della Duras, si rovescia alla fine, quando Lol attira a sé Jacques Hold nello stesso luogo del ballo di Michael Richarson con Anne-Marie Stretter. Jacques Hold è l’amante di Tatiana Karl, l’amica di Lol, e Lol lo avvicina dopo aver spiato a lungo i loro incontri.
Può sembrare una ripetizione a parti rovesciate: la scena osservata e solo subita all’inizio, viene agita alla fine, ma Lacan rifiuta l’idea della ripetizione: non si tratta di un evento che si ripete  ̶  dice  ̶  ma di un nodo che si rifà. Il nodo di Lol con il proprio corpo si scioglie quando Michael Richardson sparisce con Anne-Marie Stretter. Man mano che Michael spoglia il corpo di Anne-Marie, e man mano che il corpo di quest’ultima appare, si cancella quello di Lol. E Lol ha bisogno dell’apparizione del corpo denudato dell’altra donna per ancorarsi al proprio, perché non ha compiuto la propria identificazione narcisistica, e resta come sospesa, resta  “carente di presenza”. È interessante in questo senso notare che, all’inizio del romanzo, il legame tra Lol e Tatiana Karl è costituito dalla danza. Restavano sole, non uscivano con gli altri, una radio trasmetteva una danza fuori moda, e loro danzavano sole. La danza è qui un legame con l’immagine dell’altro, e cattura il corpo in una figura che è di ritmo. In un momento in cui Lacan non dispone ancora del concetto di nodo borromeo, la danza crea con il corpo un legame.

La danza è però anche ciò che mette in movimento il corpo, e questo porta un rapporto con il tempo, con un tempo diverso da quello scandito dai ritmi specifici del corpo e del mondo: battiti del cuore, passo, movimento delle stelle. A queste cadenze si sovrappone un dinamismo del tempo creato dal gesto, dalla voce, dai suoni.
Si verifica quindi uno sdoppiamento del tempo, che da una parte è biologico, cosmico, originario, dall’altra è intrecciato nella trama del significante: da una parte c’è un tempo originario, dall’altra un tempo quotidiano, che trova la propria forma compiuta nel tempo misurato dagli orologi.
Questo sdoppiamento del tempo ci interessa in modo particolare perché lo ritroviamo nell’esperienza della psicoanalisi freudiana, dove c’è il tempo dell’oggi, il tempo in cui siamo, e c’è il tempo arcaico dell’infanzia. Lo sviluppo della psicoanalisi freudiana consiste infatti nel cercare nel tessuto del tempo ordinario le tracce di quello originario. Nascono così i temi freudiani classici della scena primaria e dei fantasmi originari e, per esempio, tutto il caso dell’Uomo dei lupi persegue una meticolosa ricerca di un tempo delle origini, di un fatto da cui le cose hanno inizio. Questo sdoppiamento del tempo subordina la psicoanalisi freudiana alla ricerca di una verità che appartiene a un passato incalcolabile, e che non è mai abbastanza passato, perché torna e ritorna nella nevrosi.
Ora, quel che Lacan mostra, è che quest’idea delle origini è puramente una parvenza. L’origine è una parvenza, la scena primaria è il velo su un nulla, è la quinta di un tempo che non ha inizio né fine.
Il trauma non è allora ciò da cui prende avvio la nevrosi, accidente che potrebbe essere evitato, ma è piuttosto l’incontro con il linguaggio, che riguarda e tocca ogni essere parlante. Il trauma è trou-matique, come si esprime Lacan con un neologismo, è cioè un buco non situabile come inizio, perché il buco, diversamente dalla mancanza, non ha posto in una relazione d’ordine, e costeggia il linguaggio costantemente, mentre il soggetto se ne tiene a maggiore o minore distanza.
L’aspetto interessante del tempo logico, oltre al meccanismo interno su cui tutti ci siamo esercitati, è proprio che implica un distacco dalla concezione di un tempo originario, dove l’illuminazione, o l’insight, si verificherebbe come presa su una verità preesistente, perché nel tempo logico quel che è da capire è nella tensione dell’ora, nell’urgenza, nella premura di quel che sta per accadere, non nello sguardo indietro verso quel che è già accaduto.
Bisogna considerare allora cosa rende possibile la diversa concezione del tempo implicita nel tempo logico di Lacan, occorre vederne la premessa, la condizione preliminare. Il retroscena che consente di pervenire a un’idea come quella del tempo logico è nel profondo mutamento di concezione portato dalla scienza e implicato nella linearizzazione del tempo, che avviene con Newton e con Kant, dove il tempo è composto soltanto di istanti omogenei. Prima della rivoluzione scientifica il tempo era fatto di momenti privilegiati: nel tempo della campagna c’era il momento giusto della semina, secondo le fasi della luna, nel tempo dei monasteri c’era il momento predisposto per il raccoglimento. Nel tempo lineare di Newton, absolutum, verum et mathematicum, ci sono solo istanti qualunque uno di seguito all’altro.
L’istante dello sguardo nel tempo logico è così un istante qualunque, non deve accordarsi con nessun movimento cosmico né dell’anima. Lo scenario su cui ci porta Lacan poi è completamente diverso da quello delle cosmogonie, è piuttosto burocratico: c’è il direttore di un carcere e ci sono dei prigionieri che devono dare la risposta giusta per avere la libertà. Il gioco può partire in un momento qualsiasi. Ma a differenza del tempo newtoniano  ̶ che è poi quello di Huygens e di Galilei, che è il tempo della scienza – nel tempo logico quel che fa la differenza è il momento di concludere. Questo implica un vettore di retroazione, che reintroduce un momento disomogeneo, un fattore non previsto, non allineato nella catena della cronologia. Ritroviamo dunque una disparità, ma in un modo molto diverso dagli istanti privilegiati del tempo originario. Si tratta piuttosto del tempo particolare della sorpresa, su cui fa leva l’interpretazione gettando un flash sul fantasma.
Nel 1945, quando scrive il testo sul tempo logico, il problema che Lacan si pone è di riconoscimento, e la domanda sullo sfondo è: “Chi devo essere per appartenere alla comunità in cui sono?”. È cioè un problema di identità, che nello scenario dei prigionieri si traduce in: “Sono bianco o sono nero?” Nell’esperienza psicoanalitica, come la formulerà negli anni successivi, il quesito diventa: “Che oggetto sono per il desiderio dell’Altro?”.
Si tratta quindi, per avere risposta, di forzare la cronologia lineare, di violarla, di aprirla sulla scena del fantasma, che è quella di un tempo della permanenza. Il fantasma non trascorre, non fluisce, ma traversa e inquadra il tempo della quotidianità, si intesse costantemente con esso.
Per un verso abbiamo il tempo che scorre, che è quello del soggetto, puntuale, scansione nella concatenazione dei significanti: è il soggetto che è dove pensa. Per altro verso abbiamo il fantasma, dove il soggetto è dove non pensa. Qui non c’è lo scorrimento, e troviamo piuttosto la modalità della permanenza. Il fantasma c’è sempre, nel sonno e nella veglia, e intesse i sogni della notte come le rêverie diurne. In questo mostra una modalità del tempo che è ben ben espressa nei versi di Gongora, in una poesia che s’intitola“Por las estrellas”. Se voglio sapere dalle stelle, tempo, dove sei – scrive Gongora – vedo che vai con loro, ma con loro non torni. Dove lasci le tue impronte, che nel tuo corso non vedo? Ma come mi inganno a pensare che voli, corri, giri; sei tu, tempo, che rimani, e sono io che me ne vado.

Cosa significa allora scardinare la serie cronologica per aprire sulla dimensione del fantasma? Nessuno degli istanti omogenei nella serie cronologica è un evento. Gli istanti si succedono l’un l’altro nell’indifferenza. Per fare una differenza ci vuole una decisione, e nell’esperienza psicoanalitica la decisione coincide con l’atto con cui l’interpretazione rompe una catena e fa emergere qualcosa che non era previsto nelle coordinate date. Quali sono queste coordinate? Sono quelle della successione di istanti omogenei, quelle della serie cronologica, che costituisce l’orizzonte del possibile. Forzando la catena, interrompendola, l’atto analitico fa entrare in gioco quel che non aveva luogo nella quadrettatura predisposta, fa accadere qualcosa, fa emergere l’evento, nel senso in cui fa accadere l’impossibile. L’interpretazione così costeggia sempre i bordi del buco, del trou-matisme che, in un certo senso, è anche il buco in cui spariscono le cose, è ciò che rimane mentre noi passiamo, è il tempo gongoriano.



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