Conferenza tenuta su zoom il 22 gennaio 2022 per la Escuela lacaniana del psicoanalisi di Siviglia Marco Focchi L’Uomo dei lupi è senz’altro il caso sul quale si è scritto di più nella storia della psicoanalisi. Se consideriamo solo il piano della letteratura primaria, ovvero delle persone, analisti e non, che hanno parlato di persona con Sergei Pankejeff, oltre a Freud che lo ha tenuto in analisi per quattro anni – tempo da lui considerato eccessivo tanto da dargli a un certo punto una scadenza – c’è Ruth Mack Brunswick, che lo ha preso in seconda tranche. Poi c’è Muriel Gardiner, psicoanalista americana che non ebbe Pankejeff in analisi ma ebbe con lui una serie di incontri attraverso i quali raccolse le sue memorie, e ancora Karin Obholzer, giornalista austriaca che ha realizzato alcuni colloqui con Pankejeff, raccolti poi in un libro. Il paziente di Freud ha dunque preso parola in prima persona, non solo attraverso i suoi analisti, e di lui sappiamo, oltre a quel che hanno raccontato i suoi analisti, anche quel che è rimasto fuori dal quadro della sua analisi, il suicidio della moglie per esempio. Abbiamo dunque un ritratto con diverse sfaccettature, preso da diversi angoli visuali e in diversi momenti. Sembrerebbe possibile afferrare l’uomo nella concretezza della sua vita e della sua storia clinica. E tuttavia, più ci addentriamo nel caso, più l’Uomo dei lupi ci sfugge di tra le dita. Certamente questo è uno dei casi, se non il caso più complesso fra quelli che Freud ci ha trasmesso. La ricchezza di materiale più che una facilitazione costituisce un ostacolo nel costruire un quadro clinico chiaro, e non per nulla l’Uomo dei lupi è al centro di un grande dibattito clinico sul problema della diagnosi. Ricostruire l’invisibile
Bisogna partire da una considerazione: il punto focale del caso, il famoso sogno dei lupi, è certamente il suo aspetto più affascinante. Il paziente comunica a Freud la sensazione di un forte senso di realtà che il sogno ha lasciato in lui, e Freud parte da questa affermazione per avviare una meticolosa indagine sulla realtà che sta dietro l’immagine presentata nel sogno, fino ad arrivare a scoprire la scena primaria del coito genitoriale che il bambino avrebbe osservato all’età di un anno e mezzo. Ho già menzionato, in un’altra conferenza (16/10/17, Un buco senza storia) il riferimento allo studio in cui lo storico Carlo Ginzburg annette il lavoro di Freud a quel che definisce il paradigma indiziario, cioè una modalità di ricostruzione dei fatti che, diversamente dal paradigma galileiano – basato su osservazioni particolari per dedurre leggi universali – procede da una raccolta di indizi particolari per dedurre un evento non osservabile. Il coito genitoriale non può essere evidentemente osservato, ma solo ricostruito per via documentaria, ed è questo ad attirare l’attenzione di uno storico come Ginzburg. Freud in effetti vuole asserire la realtà storica dell’evento ricostruito, ne ha bisogno per la sua polemica in quel momento in corso con Jung, e ne ha bisogno in osservanza alla sua visione positivista, scientista, che richiede la riconoscibilità di un fattore causale della nevrosi in qualche tipo di realtà empirica. Questo è certamente l’aspetto che più ha prestato il fianco alle critiche rivolte al procedimento con cui Freud ha dedotto l’evento della scena primaria. Se vogliamo attaccarci al paradigma indiziario – è stato detto – quale giudice accetterebbe oggi delle prove come quelle portate da Freud? È persino improbabile che l’Uomo dei lupi abbia potuto assistere alla scena del coito genitoriale: famiglie nobili come la sua non facevano mai dormire i bambini nella stanza con i genitori, neppure quando erano ammalati. Il calcolo con cui Freud poi risale all’età di un anno e mezzo è estremamente artificioso, non può garantire nessuna certezza. Come possiamo sapere poi che il bambino interruppe il coito con una defecazione come viene indotto nella narrazione di Freud? La via letteraria Sulla base di queste obiezioni si cercano altre vie. Il caso viene allora riletto in chiave letteraria, o narratologica, nello stile di Roy Schafer, il quale sostiene che la psicoanalisi non deve affatto occuparsi della ricostruzione di fatti storici e opta piuttosto per una sua versione ricostruttiva, per dare una diversa versione della storia traumatica e formulare un mito più vivibile di quello che ha segnato traumaticamente il paziente. Come scrive Mario Ajazzi Mancini: “Al posto della ricostruzione ‘storica freudiana’ sono comparsi i termini di ‘azione narrativa’ e di ‘narrazione congiunta’ che sembrano essere maggiormente confacenti all’istanza terapeutica dell’analisi come progetto di trasformazione e maturazione esistenziale. Infatti, nello studio dell’analista la narrazione presente non trasforma soltanto il passato (secondo la ben nota Nachträglichkeit) ma s’incontra anche con la comprensione dell’altro, con l’interpretazione che egli dà alle enunciazioni del paziente e che, riproposta, permette un’articolazione sempre più complessa di una storia che finisce per approdare a un disegno, narrativamente compiuto, che raccoglie in sé i significati della vita trascorsa assieme a quelli della relazione attuale”. Da questo punto di vista la psicoanalisi sembra proporsi una sorta di rivisitazione letteraria in termini migliorativi, che sostituisce un racconto a un altro racconto. Il sogno angosciante dei lupi si trasforma allora nella storia freudiana del coito genitoriale. L’evento Dobbiamo considerare che le cose stiano così? In realtà c’è qualcosa di diverso e di più complesso. Riguarda quel che attraverso la sua ricostruzione Freud coglie, pur interpretandolo come fatto storico. Se ci fissiamo su questo è chiaro che o facciamo cadere tutta l’impalcatura freudiana, o la facciamo virare verso la narratologia ovvero verso il fatto letterario. Ma il punto è un altro: quel che Freud fa affiorare con la sua ricostruzione non è un fatto storico, e nemmeno un fatto, è piuttosto un evento ovvero un punto di scaturigine. Le scene primarie colgono il punto di origine soggettiva, strutturano e mettono in forma scenica un paradosso logico, una struttura di autoriferimento, la presenza di un elemento dove non può esserci: nel caso dell’Uomo dei lupi il soggetto che assiste al coito che ha dato luogo alla sua nascita. Tutto l’apparato finzionale, tutto il sistema delle parvenze gira intorno a un punto impossibile e irrappresentabile, come una macchina creatrice di senso per dare senso all’insensato, al fatto insensato che fa dire: “Ci sono, esisto”. Sullo sfondo di questo corre la domanda abissale: “Da dove vengo?” Questo è il reale che traversa ogni caso clinico, il reale di un godimento separato dal corpo, di cui il dispositivo significante della scena primaria allestisce il tentativo impossibile di appropriarsi, di mettere in forma. Tutto il resto del caso, la seduzione della sorella, il cambiamento di carattere, le recriminazioni sulla figura del Cristo, il rituale con gli storpi, i sintomi intestinali con la sensazione di un velo che lo separa dal mondo, le donne con la Njanja e la Gruša, tutto questo costituisce l’insieme di germogli narrativi cresciuti intorno all’impossibile dell’origine, costituisce l’insieme di storie e avventure che fanno la sostanza di una vita e che si formulano per rivolgersi a noi e farci testimoni di un’esistenza, prenderci come Altro a cui parlare e a partire da cui parlare. Ma il punto di scaturigine, in un certo senso, parla solo a se stesso, e per questo va snidato dal suo silenzio, dall’inesprimibile che può solo esporsi, ma non dirsi. La grande straordinaria impresa di Freud è stata di far parlare questo punto silenzioso, o meglio di portarlo in superficie, di renderlo percepibile, e questa eccezionale, formidabile impresa, di cui ancora oggi non misuriamo tutta la grandezza, è al di là di tutte le questioni sulla verità storica dei fatti, sul loro carattere più o meno narrativo, sulla correttezza o meno del metodo che Freud ha seguito. La potenza incredibile di quel che ha trovato sfida le categorie del pensiero occidentale. Per questo ha dovuto metterle sotto l’esergo bellissimo, tratto da Virgilio: Flectere si nequeo superos, Acheronta movebo. Quel che s’inquadra nel fantasma della scena primaria ricavata da Freud è l’evento pulsionale, un tempo, una scansione nativa del godimento che si circoscrive nella scena del coito genitoriale. Poiché il caso dell’Uomo dei lupi viene proposto qui a Siviglia in una serie di conferenze che riguardano le psicosi, e poiché il caso dell’Uomo dei lupi è uno di quelli la cui diagnosi è delle più controverse e delle più dibattute, è interessante metterlo a confronto con un altro caso la cui diagnosi è invece indubbia, come il caso Schreber. Le diverse diagnosi Dove vediamo l’evento di godimento nel caso Schreber? Lo scorgiamo precisamente in quel che Freud riconosce come un godimento omosessuale. In fondo davvero non importa che sia etero o omosessuale o trans, come ritiene poi Lacan, conta piuttosto che sia un evento di godimento manifestatosi nell’esperienza in cui Schreber esprime l’idea che sarebbe bello essere una donna che soggiace alla copula. Ora, come dicevo, il caso dell’Uomo dei lupi è stato etichettato con le diagnosi più diverse. Kraepelin formulò una diagnosi di psicosi maniaco depressiva, Jean Bergeret e André Green lo classificarono tra i casi limite nella emergente categoria del borderline. Anche Lacan ha parlato di borderline per l’Uomo dei lupi, senza privarsi poi di riferirsi all’episodio psicotico che si manifestò al tempo dell’analisi con Ruth Mack Brunswick. Freud aveva parlato invece di nevrosi ossessiva. Proprio per questa controversia sulla diagnosi l’Uomo dei lupi è stato ripreso da Miller in un importante dibattito nel corso di DEA del 1986-1987 con uno studio approfondito e dettagliato. Se vogliamo vagliare il caso attraverso i nostri concetti classici, dobbiamo seguire la traccia della preclusione della castrazione, e su questo la narrazione di Freud presenta due correnti opposte. Da un lato c’è una preclusione della castrazione, che corrisponde alla teoria del coito anale, e qui è implicata la pulsione anale. Ma la pulsione anale è coinvolta anche nell’assunzione di una posizione femminile, dove c’è invece un riconoscimento della castrazione, di fronte alla quale l’Uomo dei lupi presenta due atteggiamenti possibili: quello di resistervi e quello di cedervi. È un po’ un problema analogo a quello che si pone Schreber: resistere o assecondare la condizione in cui si trova nella posizione di essere la donna di Dio? Tra queste due sponde del problema si esercita tutta la prima parte dello studio di Miller nel suo corso. Nel dibattito viene a un certo punto presentata un’esposizione di Leo Bleger sulla nozione di borderline, che Miller non respinge, giacché il caso dell’Uomo dei lupi si presta meglio di ogni altro a esplorare gli effetti clinici di frontiera, e da qui prenderà poi il via la linea di riflessione che si sviluppa nelle conversazioni tenutesi negli anni successivi, nel ’97 e nel ’98 ad Arcachon e ad Antibes sui casi rari, sugli inclassificabili e sulla psicosi ordinaria. Vediamo dunque che l’Uomo dei lupi non è da prendere tanto come un caso sul quale definire concretamente una diagnosi quanto piuttosto un complesso dispositivo logico-clinico adatto a sollecitare riflessione. Non è possibile infatti confinarlo entro le categorie già riconosciute della psicoterapia e della psicoanalisi, perché rimane una sorta di sistema aperto, che rende incompleto, inadeguato, insufficiente il nostro sistema diagnostico, tanto da farci persino dubitare dell’utilità e dell’applicabilità ubiqua di questo sistema. All’inseguimento della diagnosi perfetta Ciò non toglie che si siano consumate battaglie e polemiche interessantissime intorno alla necessità di stabilire una diagnosi in modo certo e realistico per l’Uomo dei lupi. Nella nostra comunità è esemplare lo scontro aspro che c’è stato nel 1989-1990 tra Agnès Aflalo e Ettore Perrella, in. Cui resoconto è pubblicato sui numeri 6,7,8 della rivista La Psicoanalisi. Agnès Aflalo è convinta che l’Uomo dei lupi sia un caso di psicosi e vuole stabilire una precisa diagnosi. Consideriamo la sua strategia teorica. La prima valutazione riguarda il paradosso della castrazione da prendere in conto, e la duplice posizione dell’Uomo dei lupi di fronte a questo problema, questione, come abbiamo visto, già evidenziata da Miller. Il primo passo di Aflalo è un riferimento all’autorità. Considera che per ventiquattro anni nel corso del suo insegnamento Lacan ha indicato per l’Uomo dei lupi una diagnosi di psicosi. Le prime osservazioni di Lacan sull’Uomo dei lupi, bisogna dire, sono precedenti alla formulazione compiuta dalla sua teoria strutturale della psicosi, che si basa sull’idea di un fallimento della metafora paterna. Solo infatti nel momento in cui si definisce una relazione consequenziale tra il Nome-del-Padre e il significato fallico, ovvero la castrazione, la preclusione del Nome-del-Padre diventa fattore determinante per la definizione della psicosi. Nella prima concettualizzazione che Lacan fa della Verwerfung, questa definisce semplicemente quel che non è nato nel simbolico, e che per questo riappare nel reale. È così che spiega il fenomeno allucinatorio del dito tagliato nell’Uomo dei lupi, nel 1954. Siamo in una fase in cui Lacan non ha ancora considerato la possibilità di qualcosa che resiste irriducibilmente al simbolico, qualcosa di insimbolizzabile. La Verwerfung indica in questa fase semplicemente un non simbolizzato, non un non simbolizzabile. E dopo il 1958 Lacan non si dedica più direttamente ed estesamente al caso dell’Uomo dei lupi. Vi si riferisce nel seminario XI parlando dell’incidente tardivo della sua psicosi, evidentemente rimandando all’episodio con Ruth Mack Brunswick. Poi vi torna nel seminario XXIV dicendo che è a proposito dell’Uomo dei lupi che ha parlato di preclusione del Nome del padre. Sia Freud sia Lacan si riferiscono all’episodio acuto del 1926 – quello in cui, nella sua seconda analisi, si presenta a Ruth Mack Brunswick con il delirio del buco sul naso – definendolo psicotico. Agnès Aflalo prende però in considerazione il fatto di struttura, la concezione strutturale della psicosi, per dire: psicotici si è o non si è, sia che la psicosi sia manifesta, sia che non lo sia. Se quindi l’Uomo dei lupi era psicotico nel 1926 lo era anche nel 1914-1918 durante l’analisi con Freud, seppure la psicosi non si fosse ancora manifestata. La prima cosa da dire è che questo argomento è datato, perché proprio a partire dallo studio dell’Uomo dei lupi inizia, a cavallo tra la seconda metà degli anni Ottanta e la prima metà dei Novanta, la riflessione sugli inclassificabili che mettono in discussione la clinica strutturale a favore di una clinica sfumata. Agnès Aflalo non è tuttavia un’autrice superficiale, e non si ferma certo all’argomento d’autorità. Lo prende piuttosto come piattaforma per sviluppare il suo argomento lungo quattro linee che sono: la femminilizzazione, l’ipocondria, la vita amorosa, l’insorgenza dei disturbi psicotici. Di queste linee, quella portante è quella della femminilizzazione, ed è l’unica su cui vorrei concentrare l’attenzione. Aflalo parte dall’Edipo rovesciato, dove il soggetto occupa una posizione femminile rispetto al padre e vuole da lui essere posseduto come nella scena primitiva. Rifiuta però fobicamente questa posizione per via della conseguenza in essa implicata, cioè la castrazione. Questo punto – sostiene Aflalo – avvicina il conflitto inconscio di Sergei Pankejeff e quello di Schreber. Per i due uomini l’opposizione si situa tra il divenire una donna e il rifiuto di abbandonare la virilità. Questa identificazione femminile potrebbe essere contraddetta dall’identificazione con il Cristo ma, secondo Aflalo, l’identificazione con il Cristo nasconde di fatto un’identificazione femminile. Con il Cristo l’accento è posto infatti sul godimento anale, ed è dunque un’identificazione il cui carattere non permette di simbolizzare il fallo. Quel che colpisce nell’argomentazione di Aflalo è tuttavia una certa forzatura. Il punto di partenza è l’argomento di autorità, e poi la dimostrazione si sviluppa assumendo un modello esterno al caso, quello di Schreber, per tracciare una soluzione, per quanto atipica. Il meno che si possa dire infatti, asserisce, qualunque sia la diagnosi che si vuole attribuire all’Uomo dei lupi, è che si tratta in ogni caso di una diagnosi atipica. Prendiamo ora il testo di Perrella che procede da una critica del testo di Aflalo per dimostrare una diagnosi di nevrosi. Perrella parte dalla considerazione di quel che dobbiamo ritenere necessario per formulare una diagnosi di psicosi e in prima linea mette i disturbi del linguaggio, riferendosi a quanto dice Lacan nel Seminario III. Di fronte agli psichiatri di Saint Anne, che lo consultano per confermare una diagnosi di psicosi, Lacan sostiene infatti di essersi rifiutato di confermare la diagnosi perché il caso non presentava “nessuno di quei disturbi che quest’anno costituiscono il nostro oggetto di studio e che sono i disturbi del linguaggio. Noi dobbiamo esigere, prima di emettere una diagnosi di psicosi, la presenza di questi disturbi”. Sappiamo infatti che ci sono una varietà di fattori che possono indurre il sospetto di psicosi, come sensazioni di estasi, passaggi all’atto immotivati, attaccamento precario a punti di riferimento immaginari, presentimento angoscioso di un enigma fondamentale. Tutti questi fattori non bastano a sciogliere il dubbio su una diagnosi di psicosi perché, dal punto di vista fenomenico, possono riscontrarsi anche in casi di nevrosi. Si corre il rischio infatti di psichiatrizzare la teoria analitica della psicosi considerando psicotici tutti i soggetti che hanno sviluppato un delirio senza disturbi del linguaggio. Non è affatto scontato quindi che si possa considerare il delirio come un fenomeno psicotico. Secondo Perrella né l’allucinazione del dito tagliato, né la certezza, presentata nella seconda analisi, che il suo naso stesse subendo una trasformazione mostruosa, sono indici sufficienti a fare dell’Uomo dei lupi uno psicotico, giacché in nessuno dei due resoconti clinici è possibile riscontrare disturbi del linguaggio. L’unico fenomeno che vi si avvicina, quello della Wespe, che in tedesco significa vespa, e che Pankejeff pronuncia troncando la W e trasformandola in Espe. Per Perrella questo ha però semplicemente valore di un lapsus commesso da qualcuno che non era neppure di madrelingua tedesca. La critica e il procedimento di Perrella partono dunque dall’idea: cosa ci vuole per fare una psicosi? Ci vogliono alcuni fattori decisivi come i disturbi del linguaggio che nell’Uomo dei lupi non riscontriamo, e quindi non possiamo definirlo psicotico. Perrella parte insomma dalla formula della diagnosi per leggere il caso. Ovvero l’idea è: sappiamo cos’è una diagnosi di psicosi, se il caso non corrisponde in qualche elemento ai criteri che la definiscono allora non è psicosi. Uscire dalla logica delle classificazioni Il punto è: sappiamo cos’è una diagnosi di psicosi? La quadrettatura clinica costruita prima dalla psichiatria e poi, nel tempo, dai casi clinici della letteratura psicoanalitica è sufficiente a definire la nostra clinica oggi? Nel suo seminario sull’Uomo dei lupi Miller risponde di no, e dice a un certo punto: lasciamo da parte il termine di Verwerfung, che pre-inquadra la nostra ricerca e opacizza l’argomento invece di aiutarci, e cerchiamo di entrare nella logica del caso. E quando ci si entra vi si smarrisce. Lo studio di Miller sull’Uomo dei lupi è uno dei suoi testi più complessi, lui che di solito è così chiaro. Ma è il materiale che impone di perdercisi, perché è un labirinto. Uscendo infatti da questo labirinto, anche grazie al suo attento studio, ci siamo portati in direzione di una clinica diversa, che siminuisce molto il problema della diagnosi. Ricordo che negli ultimi anni Ottanta le discussioni cliniche, almeno in Italia, giravano ossessivamente intorno al problema della diagnosi. Casi eclatanti di isteria venivano sminuzzati brano a brano per dimostrare se davvero si trattasse di una nevrosi o non di una psicosi latente. Ora, ovviamente non voglio dire che questo punto sia indifferente, ma mi sembra che nelle nostre valutazioni dei casi il baricentro sia spostato su un altro asse, che potremmo firmare nei termini: qual è il problema del paziente? Qualunque sia la struttura del paziente, e a volte può essere difficile definirla, l’interessante è la costruzione di una soluzione che possa far vivere il soggetto meglio di quando è venuto a consultarci. Credo che questo nuovo modo di vedere la clinica sia anche merito dello studio e delle considerazioni in cui questo caso straordinario ci ha permesso di addentrarci, una volta che abbiamo cominciato a leggerlo al di fuori della quadrettatura in cui tentava di costringerlo la considerazione diagnostica. Se si è cercato di andare a scrutare l’uomo al di là del caso, come hanno fatto Gardiner e Obholzer, è perché l’Uomo dei lupi non esiste al di là della narrazione che ne è fatta, e perché l’uomo che ha incontrato Freud non è lo stesso che ha incontrato Ruth Mack Brunswick, e non è lo stesso con hanno parlato la Gardiner e la Obholzer. L’Uomo dei lupi è una straordinaria macchina verbale che Freud ha costruito intorno a un punto che ha illuminato con il suo genio, quello di un evento non offerto alla visibilità osservativa, quello che fa tutta la differenza tra la clinica psichiatrica e la clinica psicoanalitica.
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