Conferenza tenuta a Firenze il 29 settembre 2017 in occasione del Piccolo festival dei casi di Freud, organizzato da Fairitaly Associazione Onlus Marco Focchi Il caso dell’Uomo dei lupi non è uno dei casi di Freud, è il caso, il caso per eccellenza. La storia di questo aristocratico russo − sedotto dalla sorella, eccitato dalle servette, andato in rovina per via della Rivoluzione di ottobre, mantenuto con un vitalizio raccolto a colletta dal gruppo viennese degli psicoanalisti, andato in seconda analisi con Ruth Mack Brunswick, coinvolto da Muriel Gardiner in un’autobiografia che ne ha fatto il monumento vivente della psicoanalisi – è già ricca di per sé e contiene abbastanza materiale da nutrire riccamente uno di quei roman-à-clef che erano i casi freudiani. Se fosse finito in mano a Dostoëvskij questo materiale sarebbe probabilmente diventato un romanzo dell’estensione de I fratelli Karamazov. L’Uomo dei lupi ha in effetti attirato anche l’attenzione di studiosi al di là del campo psicoanalitico. Primo tra questi, e il più noto, è Carlo Ginzburg, che ha dedicato all’Uomo dei lupi un saggio compreso nel suo libro “Miti, emblemi, spie”. Mi sembra particolarmente significativo il fatto che Ginzburg inserisca l’analisi dell’Uomo dei lupi nel quadro concettuale di questo libro, che ha l’obiettivo di presentare in quel che definisce come modello epistemologico del paradigma che chiama indiziario, e che risale al sapere venatorio degli antichi cacciatori, dove si tratta di risalire, a partire da dati iniziali apparentemente trascurabili, a una realtà complessa e non direttamente verificabile.
Questo paradigma si è sviluppato collegandosi a diversi campi del sapere umano, come la semeiotica medica, la divinazione, il diritto. A seconda dell’orientamento temporale dello sguardo, si hanno diverse discipline: la divinazione, se lo sguardo è rivolto al futuro, la semeiotica medica, se lo sguardo è rivolto al presente, la giurisprudenza, se lo sguardo è rivolto al passato. Chiaramente tutte queste discipline indiziarie, in quanto eminentemente qualitative e basate su elementi singolari, non si integrano nel paradigma delle scienze galileiane . Consideriamo infatti che Galilei ha messo al centro dello studio della natura i corpi inerti, ovvero i corpi che non prendono decisioni, e che proprio per questo possono essere analizzati attraverso il linguaggio matematico, giacché sono calcolabili. Se il caso dell’Uomo dei lupi entra nel contesto del dibattito concettuale sul paradigma indiziario è perché per Freud questo caso è un perno fondamentale nel definire della sua visione della psicoanalisi. Mostra infatti l’esperienza psicoanalitica nella sua originalità, nel modo in cui è legata alle peculiarità di una storia singolare. Non dimentichiamo infatti che Freud scrive il caso dell’Uomo dei lupi anche in polemica con quel che sosteneva Jung, che si appoggiava all’idea di un’eredità filogenetica nell’etimologia della nevrosi. Secondo la visione di Jung, la lagnanza dell’Uomo dei lupi di sentire che spesso per lui il mondo era come avvolto in un velo, significava un fantasma di rinascita a cui attribuiva un valore causale per la genesi della nevrosi, collocandolo come una tappa lungo una linea di discendenza filologenetica. L’idea di Freud è completamente diversa: la nevrosi secondo lui non dipende da una derivazione filologica, che ha un carattere continuo. Non è da una continuità che possiamo dedurre la nevrosi, ma da una rottura di continuità che ha un carattere traumatico, e proprio perché traumatico diventa causale della nevrosi. Per questo motivo nel testo freudiano appare centrale il famoso sogno che dà il titolo al caso. È un sogno ricco di materiale fiabesco costruito con elementi provenienti delle fiabe popolari russe che al piccolo raccontava la njanja. Ginzburg riferisce questo materiale in particolare alla fiaba del “Lupo imbecille” presente nella raccolta di fiabe curata da Aleksandr Afanasjev. Nelle associazioni del paziente c’è infatti il riferimento a una fiaba che Freud chiama “Il lupo e il sarto” raccontata al piccolo dal nonno, e che non è altro che il finale de “Il lupo imbecille” come appare nella raccolta di Afanasjev. C’è poi inevitabilmente “Cappuccetto rosso”, c’è “Il lupo e i sette capretti”. Si trova un’impressionante convergenza fiabesca di storie e narrazioni in questo sogno, di cui sarebbe interessante ricostruire lo sfondo mitopoietico, ma Freud prende un’altra direzione e vuole scoprire la realtà che sta dietro questa densità finzionale. Si attacca infatti all’osservazione del paziente che sostiene come il sogno abbia lasciato in lui un persistente senso di realtà. Freud prende questa osservazione come indice del fatto che nel materiale latente ci deve essere qualcosa di realmente accaduto e che non tutto il materiale è meramente fittizio. Raccoglie allora una prima serie di indizi che devono aiutarlo a risalire alla realtà nascosta dietro il sogno. È la famosa serie: un avvenimento reale - che risale a un’epoca assai remota - guardare - immobilità - problemi sessuali - castrazione - il padre - qualcosa di terribile. A partire da qui Freud si lancia in un’indagine minuziosa in cui sente un particolare bisogno di esattezza, che lo porta a calcolare l’età precisa in cui l’avvenimento traumatico ha avuto luogo. E poiché l’avvenimento è un coito genitoriale a tergo, Freud si premura di stabilire che si è trattato di un coito ripetuto tre volte. Che l’avvenimento terribile dietro al sogno sia un coito genitoriale è l’aspetto ricostruito, di cui non c’è nessuna evidenza diretta, e che Freud introduce non senza qualche cautela retorica dicendo: “Eccomi giunto a un punto in cui debbo abbandonare l’appoggio fornitomi sinora dal corso dell’analisi. Temo anche sia il punto in cui il lettore mi ritirerà il suo credito”. C’è quindi tutta una prima parte fatta di raccolta di indizi, di elementi visibili che si concatenano logicamente tra loro per portare a una conclusione invisibile, di qualcosa che è sottratto alla verifica dei sensi, e per il quale Freud semplicemente chiede credito. Diversamente dal paradigma galileiano, osservativo, fondato sulle “sensate esperienze e certe dimostrazioni”, nel paradigma indiziario, che Freud espone alla sua massima potenza proprio con l’Uomo dei lupi, c’è un salto dal visibile all’invisibile, dalla concatenazione di indizi, equivalente alle “certe dimostrazioni”, a qualcosa di inosservabile per sua natura, che ha però un carattere reale non meno solido di quel che cade sotto i nostri sensi, ma la cui certezza è deducibile solo dall’articolarsi degli elementi indiziari percepibili. È quel che Lacan riprenderà dicendo che nell’esperienza psicoanalitica tocchiamo il reale attraverso una concatenazione di parvenze, di semblant. L’esempio più chiaro di questa logica che porta dal visibile all’invisibile è forse il testo sul tempo logico, dove i prigionieri, osservando le mosse dei loro compagni, devono dedurre il colore del disco che portano dietro la schiena, e quindi a loro invisibile. Questa correlazione tra visibile e invisibile è la nervatura centrale del paradigma indiziario nelle sue origini venatorie: abbiamo l’orma dell’animale – visibile – che ci fa risalire al suo passaggio – invisibile, abbiamo il fremito sensibile del fogliame che ci segnala la presenza impercettibile della preda. Questa tecnica di lettura minuziosa delle tracce è quel che potremmo chiamare il “metodo Zadig” – dal titolo del romanzo di Voltaire. Il protagonista – Zadig per l’appunto – vede correre alcuni eunuchi della regina inquieti, come cercassero disperatamente qualcosa di perduto. Gli chiedono infatti: “Ha forse visto il cane della regina?” Zadig risponde: “È una cagna, non un cane, è una spaniel ed è molto piccola, ha appena avuto dei cuccioli, zoppica sulla zampa anteriore sinistra, e ha le orecchie molto lunghe”. “L’ha vista allora?” “No – risponde Zadig – non l’ho vista, e non sapevo neppure la regina avesse una cagna.” Viene allora arrestato con l’accusa di aver rubato la cagna della regina, e per scagionarsi deve spiegare come ha potuto fare la descrizione così minuziosa di un animale che non ha mai visto. “Ho scorto sulla sabbia le tracce di un animale e ho facilmente potuto valutare che erano di un cane di piccole dimensioni. Dei solchi leggeri e lunghi tra le tracce delle zampe, mi hanno fatto capire che si trattava di una cagna le cui mammelle pendevano e che dunque doveva aver avuto dei cuccioli da pochi giorni. Altre tracce sulla sabbia, a lato delle zampe, mi hanno fatto dedurre che avesse le orecchie molto lunghe, e poiché ho visto che l’orma di una zampa era meno profonda delle altre tre, ho capito che la cagna della nostra augusta regina zoppicava leggermente”. Vediamo che il metodo di Freud è perfettamente analogo. A partire dalle tracce mnestiche e dalle impressioni rimaste in mente all’Uomo dei lupi, Freud si mette sulla pista di qualcosa che non potremo mai vedere, e che se l’Uomo dei lupi ha visto a suo tempo, lo ha visto a un’età nella quale non può averne conservato memoria, o non può averne colto il significato. La critica che Lacan fa a Freud sul caso dell’Uomo dei lupi parte proprio da questo, dal fatto che Freud non ha mai potuto potuto giungere alla restituzione del ricordo traumatico della scena del coito a tergo. La Urszene, la scena primaria, che nei primi testi di Freud era la scena di seduzione infantile, diventa qui per la prima volta la scena del coito genitoriale. La Urszene, che è descritta da Freud per l’appunto come una scena fantasmatica, viene ripresa in altri testi come ciò che forma il materiale dei fantasmi originari presenti in tutte le nevrosi. Le scene dei fantasmi originari possono comporre le varietà più diverse di storie, ma i temi che stanno alla base sono fondamentalmente di due tipi: riguardano scene di seduzione, o scene in cui il soggetto assiste al coito genitoriale. Nel primo tipo di scene il soggetto è presente come oggetto di seduzione, generalmente è la figlia che viene sedotta dal padre. Nel secondo tipo il soggetto è presente solo come osservatore. Prendendo ora il sogno dei lupi come insieme di tracce per giungere a una realtà nascosta, invisibile, come abbiamo detto Freud fa suo il paradigma indiziario, ma lo radicalizza in un modo che non è mai stato raggiunto dai precedenti campioni di questo tipo di procedimento. Ginzburg, come ho detto, attribuisce l’origine di questo paradigma all’epoca della caccia precedente alla sedentarizzazione. Nel contesto venatorio l’orma visibile riconduce alla preda nascosta. Quando il paradigma indiziario viene usato invece per riconoscere l’autenticità di un quadro, si tratta di andare dalla copia all’originale. Nella semeiotica medica i segni sintomatici riportano al male e alla sua natura. Sempre si tratta di andare dal visibile all’invisibile, ma dove l’invisibile è tale solo in quanto nascosto allo sguardo. La sostituzione è sempre tra una cosa visibile e una cosa invisibile, ma sempre si tratta di una cosa, l’indizio, e di un’altra cosa, l’oggetto nascosto. Cosa vediamo invece nella prospettiva freudiana? Proviamo a radicalizzare l’idea dei fantasmi originari. Che logica di fondo mostrano il fantasma di seduzione e quello di coito genitoriale, al di là delle immagini che presentano? Si tratta di una relazione impossibile, e purtuttavia essenziale nella genesi del soggetto. Nel fantasma di seduzione la figlia, con il padre, non solo è sedotta, ma proprio per questo partecipa al coito da cui è nata. Nel fantasma di coito genitoriale il soggetto invece, in posizione di osservatore, nascosto, assiste al coito da cui è nato. I fantasmi originari sono in realtà fantasmi sull’origine: mettono in scena il momento in cui è stato posto il seme che ha dato vita al soggetto. L’isterica, con la sua caratteristica intersoggettività, partecipa attivamente; l’ossessivo, distaccato, osserva, ma in entrambi i casi il senso ultimo è che il soggetto è presente al momento che dà avvio alla sua nascita. In altri termini, ciò sulle cui tracce Freud si mette è qualcosa di invisibile non in modo contingente, non di un’invisibilità che può essere tolta nel momento in cui l’oggetto inseguito è rivelato, ma è invisibile di una invisibilità essenziale. Non è qualcosa di momentaneamente invisibile, l’animale nascosto, l’originale del quadro sostituito dalla copia, la malattia nelle profondità dell’organismo. Freud è sulle tracce di qualcosa che è essenzialmente invisibile perché quel che insegue non è un oggetto empirico. Il punto ombelicale dell’inconscio, quello su cui ogni indagine si inabissa, è l’abisso temporale della provenienza, è lo sprofondamento infinito dell’origine di fronte al quale ciò che incontriamo sono solo – secondo l’efficace espressione di Thomas Mann ne “Le storie di Giuseppe” – le quinte del tempo. Le Urszenen sono queste quinte del tempo, in cui il soggetto fissa l’istantanea della propria origine, e possono avere solo evidentemente un carattere paradossale, perché mostrano il momento in cui il soggetto partecipa o assiste a ciò che dà avvio alla sua esistenza. È proprio la meticolosità messa da Freud nel raccogliere le tracce di un evento traumatico appartenente alla vita vissuta del soggetto e non alla sua eredità filogenetica, a portarci su un bordo così estremo, e a svelarci che le tracce che troviamo in analisi, le tracce che partono dal sogno dei lupi, nel caso di Freud, sono tracce che formano il bordo di un vuoto, il vuoto dell’origine. Il soggetto cerca la causa della propria esistenza, e dietro lo schermo dell’Urszene si rivela l’abisso del nulla, un buco in cui il tempo affonda infinitamente in se stesso. È interessante dunque considerare l’osservazione che Lacan fa sul caso dell’Uomo dei lupi affermando che Freud non è mai riuscito a ottenere la reminiscenza del ricordo traumatico, ma solo la sua ricostruzione. In effetti non è che Freud non sia riuscito a ottenere la reviviscenza di questo ricordo, è che in realtà è possibile avere solo la ricostruzione fantasmatica del luogo di origine, giacché di esso non può esservi nessuna esperienza diretta da parte del soggetto, e quindi nessun ricordo. Ma, in un certo senso, possiamo dire che ciò a cui è arrivata l’analisi di Freud, senza poterlo riconoscere, quindi senza poterlo simbolizzare, riappare con forza, e come reale nella seconda analisi dell’Uomo dei lupi, quella svolta con Ruth Mack Brunswick. Dalla sua seconda analista, infatti, l’Uomo dei lupi si presenta lamentando un buco. Parla di lesione nasale prodotta dall’elettrolisi con cui un medico aveva cercato di curargli un’ostruzione alle ghiandole sebacee. L’interessante è che l’uomo dei lupi in questa fase è assolutamente consapevole che si tratta di un buco reale, che non è niente di interpretabile. Chiede infatti all’analisi solo di renderlo capace di sopportare il buco, di guarire non dal buco, ma dall’ossessione che il buco costituisce per lui. Freud quindi, possiamo dire, è arrivato fino in fondo a quel che poteva toccare nell’analisi dell’Uomo dei lupi. Se non gli ha fatto rivivere il ricordo è perché non c’era nessun ricordo da rivivere. Quel che è mancato è stata la possibilità di simbolizzare quel che l’analisi ha toccato, perché Freud pensava dovesse trattarsi di un fatto reale destinato a riempire quel posto vuoto. Ma l’analisi con Freud ha completamente aperto la via fino al punto critico che è toccato poi a Ruth Mack Brunswick riprendere in mano. Per questo ritengo che il caso dell’Uomo dei lupi sia il più grande, il più ricco, il più istruttivo tra i casi freudiani, perché Freud giunge con l’esperienza clinica fino ai limiti di quel che aveva potuto concettualizzare fino a quel momento. Perché ci parla di un’esperienza che si spinge in zone che la teoria non poteva ancora vedere, e ci consegna questo straordinario resoconto che ancora oggi è per noi una miniera inesauribile.
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