Intervento alla serata di presentazine del libro di Nadia Campana Verso la mente, tenutasi il 9 aprile 2015 alla Casa della poesia a Milano di Marco Focchi La premessa è che appare difficile parlare della poesia quando non si è poeti, e sono piuttosto i poeti che possono parlarne, o lasciarla parlare. Ricordo una rassegna di parecchi anni fa organizzata da Milo che s’intitolava: “Un poeta guarda un poeta”. Direi che “guarda” è qui il termine chiave. Bisogna forse guardare un poeta per lasciare parlare la sua poesia, e in questo senso mi sembra interessante che la prima parte della raccolta di saggi di Nadia abbia come titolo: “Visione e biografia”. Guardare un poeta significa, credo, andare a quel limite dove la poesia sconfina nella vita. Il che non vuol dire negli aneddoti, nei fatti, nella biografia, ma in quel nucleo d’esistenza a partire dal quale la poesia diventa necessaria, come lo è stata per Nadia. Non ho conosciuto abbastanza Nadia per sapere della sua vita, e l’incontro con me non è stato un incontro di amicizia. Nadia cercava qualcosa nella psicanalisi e ha incontrato me. Molte persone vengono all’analisi in cerca di aiuto. Non era il caso di Nadia. Non posso nemmeno dire di sapere cosa cercasse nella psicanalisi, tanto pochi sono stati gli incontri che abbiamo avuto e tanto scarsa era la sua propensione ad aprire il proprio scrigno interiore. Nella presentazione di Milo della raccolta di poesie c’è una diagnosi molto più stringente di quello che potrei fare io, quando scrive che nella famiglia dei poeti suicidi, a cui anche Nadia appartiene, la parentela più diretta sembra essere più con Marina Cvetaeva che con Cesare Pavese, con una morte per squilibrio vitale più che per antica stagnazione malinconica.
Squilibrio vitale è dove termina la letteratura come impresa di salute, dove il poeta è medico non solo di se stesso, ma dell’insieme di sintomi di quella malattia che coincide con l’uomo. Nel suo testo “Visione poetica” Nadia scrive che chi è stato partorito poeta è dotato di visione. Si sente in questo l’eco delle Lettre du voyant, del dérèglement de tous le sens, che è una prova al limite del sostenibile. Essere dotati di visione non significa possedere una forza superiore, come quella del generale la cui visione strategica gli permette di vincere le battaglie. Essere dotati di visione significa piuttosto aggiungere ciò che solo una salute cagionevole o una reale disperazione permettono di toccare, raggiungere ciò che una salute dominante non permetterebbe mai neppure di sfiorare. Ed è quel che Nadia esprime con le sue parole, che lasciano il segno: “Il suo dire [del poeta] rapito nello spargersi come ruscello che sorride avanzando con forza tra le foreste e il dolore, vive e ingrossa. Fa innamorare le città del suo incessante ricominciare la musica, veramente servo che offre il suo amore al mondo, non più parte parziale del suo io, ma centro del suo occhio ora.” Queste parole, direi, esprimono pienamente cosa significhi per Nadia la capacità poetica di visione: significa uscire dal punto di vista, non essere più monade dal cui angolo vedere l’universo, ma apertura e, in quanto tale, visione centrale, visione d’insieme. Potremmo essere tentati di dire visione del tutto, ma nel tutto c’è per l’appunto qualcosa di troppo, un eccesso, qualcosa che porta allo squilibrio. Non si può avere una visione del tutto e restare seduti sul proprio scranno a vedere passare la storia, la propria e quella del mondo, e Nadia lo dice molto bene parlando della Cvetaeva, o meglio, facendo della Cvetaeva la cassa di risonanza di se stessa. Si riferisce a come il passato divenga insopportabile, parla di un vuoto che la vita non riesce a riempire. L’eccesso della visione centrale, l’abbandono della visione periferica, del punto di vista, svuota di senso non solo il passato, ma anche l’attesa del tempo a venire. Non c’è visione al di là della visione centrale, e la conservazione di un passato svuotato del tempo a venire è come “l’inscenamento del proprio spasimo e questo è già più insopportabile della morte”. Ci sono allora i pochi che si salvano facendo delle parole un sacramento, i poeti della conversione religiosa, tra i quali Nadia enumera Bach, Dante, Eliot, Dostoevskij, e ci sono i poeti per i quali è impossibile immaginare una vecchiaia, perché l’hanno raggiunta precocemente sotto l’impulso di una parola che crea, ma che brucia e divora la vita anzitempo. Questi sono Rimbaud, Mozart, Purcell, Keats, Byron, Drieu La Rochelle. “Intenso entrare, intenso uscire. Il mezzo della vita, in questi casi, non è possibile superarlo” Ma cosa blocca l’espansione della vita quando ci si è posti al centro della visione? Parlando delle sue traduzioni di E. Dickinson, Nadia sostiene di essersi sentita obbligata a guardare nella sua modernità e di aver capito che la poesia è una voglia di esperire tutto nel linguaggio. È allora quando il linguaggio divora la vita, quando il linguaggio diventa tutto, che la potenza di salute della letteratura s’inceppa, non scorre più sui limiti in cui fa apparire le cose ignote, la vita ne resta inghiottita e la visione collassa nell’insopportabile, il silenzio non risuona nelle parole, ma le zittisce, il fuori del linguaggio diventa espulsivo. C’è una scrittura che “resiste all’isteria, che trasforma i sintomi in lucidità di chi ha ricevuto il dono di guarirsi da sola”, e c’è una scrittura che s’infrange in quell’impossibilità di invecchiare, di chi ha visto in modo troppo intenso e ne esce con gli occhi offuscati e i timpani assordati, e il volo si ridirige in caduta.
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