Intervento alla tavola rotonda che ha avuto luogo il 20 aprile 2012 a Milano presso la Casa della Cultura, in occasione della presentazione del libro di Jean-Louis Chassaing "Droga e linguaggio". di Marco Focchi Il rapporto tra droga e linguaggio è il nodo centrale da cui partire per affrontare i temi complessi relativi alle condotte limite dei fenomeni di tossicodipendenza. Chiarire ed entrare nel merito di quel che è l’esperienza limite cercata in questo rapporto è la condizione preliminare per un trattamento dei fenomeni patologici legati alla tossicodipendenza, sia sul piano terapeutico, sia su quello sociale. Ci sono due versanti lungo i quali l’articolazione tra droga e linguaggio può essere esplorata, ed è possibile ricavarne due punti di osservazione diversi. Il primo versante è relativo all’Altro sociale che cerca di identificare il problema, che classifica, che impone dei nomi. Il fatto di imporre dei nomi non è mai indifferente. Dalla critica alla nozione di totemismo, fatta da Levi-Strauss, agli studi di Ian Hacking sul modo in cui le categorie modellano le persone, sappiamo che le classificazioni sono un tramite necessario per istituire e garantire l’ordine sociale. Denominare significa dare un posto. Questa operazione è tanto più potenziata nel mondo contemporaneo, in quanto niente sembra essere più al proprio posto. All’inizio del seminario Ancòra Lacan, nella prima lezione, si rivolge ai suoi ascoltatori dicendo che sente in loro come una voce che dice: “Non ne voglio sapere”. Di cosa non ne vogliono sapere? Evidentemente dell’inconscio, e possiamo dire che, nella società contemporanea, non volerne sapere dell’inconscio è diventata una presa di posizione ideologica. Nel momento in cui il mondo in cui viviamo si sviluppa sempre più nel senso di una società del controllo, tanto meno questo mondo ne vuol sapere dell’inconscio, che è l’esatto opposto del controllo. Il rifiuto dell’inconscio ha come contraccolpo una spinta crescente verso il movimento classificatorio. Per un verso l’impresa di classificazione esprime il proprio aspetto istituzionale con il DSM e con un incontenibile bisogno di segregare attraverso le definizioni diagnostiche. Ciascuna di questa stabilisce criteri patologici che se per un verso servono l’industria farmaceutica e sono da essi sollecitati, non trovano però in questa sollecitazione la loro ragione esclusiva, né prioritaria. L’imperativo alla classificazione ha origine piuttosto nella necessità di stabilizzare, in negativo, una normalità che con l’evaporazione del Nome-del-Padre ha perso i propri agganci tradizionali. Per altro verso la risposta antistituzionale a questa ciclopica impresa segue però la stessa logica, innalzando le barriere autosegregative che derivano dalla rivendicazione identitaria. Ian Hacking ha evidenziato come non tutti gli enti classificati reagiscono allo stesso modo. Ha infatti distinto infatti due grandi categorie: le classi indifferenti e le classi interattive. Le prime riguardano enti inerti, che evidentemente non reagiscono alla classificazione in cui vengono inclusi. Le seconde riguardano le persone, le quali invece rispondono alle classificazioni, si identificano o rifiutano i nomi che vengono loro imposti. Le classificazioni in tal modo creano condotte. Questo fa del DSM – che è il maggiore dispositivo di classificazione delle persone attualmente in funzione –uno straordinario strumento di intervento sulle persone, definite attraverso il nome di una malattia, e di gestione del potere. L’etichettatura di una condotta come patologia mentale ne fa una deviazione da una norma non definita, e trasforma un modo di godimento in qualcosa che richiede una correzione. Il ritardo attuale nella pubblicazione della V° versione del DSM dice come questo strumento, screditato per tutti gli evidenti condizionamenti politici che ha dovuto incorporare, sia diventato uno strumento obsoleto, con effetti collaterali, se osserviamo i dibattiti che sono nati intorno, di una turbolenza che supera ormai il servizio di normalizzazione che dovrebbe rendere. D’altra parte le società del controllo non si regolano tanto sulla norma, che è stabile, quanto piuttosto sul pedinamento della variazione continua, e ci potremmo domandare quanto sia ancora duttile a questo scopo uno strumento nato vecchio come il DSM. La tossicomania è una categoria clinica nata nella psichiatria a partire dalla seconda metà del XIX secolo. Nel momento in cui il problema della droga comincia a essere percepito come un flagello sociale, la psichiatria se ne occupa e produce una categoria atta a inquadrarla. In questo la psichiatria svolge il ruolo, che da sempre, volente nolente ha dovuto assolvere, di polizia mediata dal discorso medico. La pertinenza della categoria di tossicomania nel campo psicoanalitico è stata oggetto di un dibattito che, pur superato, è forse interessante considerare. Nella clinica psicoanalitica l’accento non è messo sulla sostanza: non è il fatto di assumere una sostanza in quanto tale che fa il tossicomane. Si cerca piuttosto una determinata struttura di personalità che predisponga all’uso, e all’abuso della sostanza. Alcuni clinici, come Jean Bergeret o Markos Zafiropoulos, sostengono che non c’è nessuna struttura della personalità corrispondente a un comportamento tossicomane. Altri, come Hugo Freda, vedono il comportamento tossicomane come la fase moderna della perversione. Altri ancora, come Claude Olievenstein, riconoscono nell’incontro tra la sostanza e un soggetto un momento di genesi di cui tenere conto strutturalmente sul piano clinico. Un altro termine con cui viene comunemente descritto il fenomeno del rapporto con le droghe ha origine nel mondo anglosassone ed è addiction, che in Italia generalmente rendiamo con il termine “ dipendenza”. Addiction, etimologicamente, deriva dal latino, dal termine addictus, termine giuridico che definiva lo schiavo per debiti. Addictus era il debitore insolvente caduto in balia della volontà del proprio creditore. L’addictus conservava libertà e cittadinanza, ma subiva limitazioni conseguenti dal suo stato di dipendenza dal creditore. Il termine addiction è stato introdotto nella clinica psicoanalitica agli inizi degli anni Settanta. È entrato nel lessico francese attraverso una psicoanalista anglofona che lavorava in Francia, Joyce McDougall, che ha cominciato inizialmente a riferirsi in senso ampio alla nozione di una économie addictive, dove quella che chiama la “solution addictive” diventa una soluzione somato-psichica allo stress mentale. Le premesse di questa idea si basano sull’idea freudiana, espressa già nel 1897 nel carteggio con Fliess dove Freud sostiene che la masturbazione è la forma primaria di dipendenza e che le altre dipendenze, alcol, morfina, tabacco, semplicemente derivano da questa matrice originaria. Il termine addiction contiene dunque il senso dello stato di schiavitù, dell’asservimento in cui il soggetto è tenuto da ciò da cui dipende, e se a questo si aggiunge l’idea della sostanza, si ha una nozione generalizzata delle forme di dipendenza. Possiamo dunque domandarci quali conseguenze ci siano, sul piano pratico, tra una clinica definita in base all’idea della velenosità della sostanza, quando parliamo di tossicomania, e una clinica definita come dipendenza, in base all’asservimento a un oggetto di soddisfacimento che non è di per sé venefico – può essere il cibo, il sesso, il gioco, il computer, e la lista si amplia progressivamente – ma il rapporto con il quale diventa patologico se è il soggetto a cadere in balia dell’oggetto, anziché servirsene come tramite di appagamento. La prima definizione, quella di tossicomania, nasce dal discorso medico, che fonda il proprio intervento sul pharmakon, cioè su una sostanza che può essere un veleno o una droga, ma che di principio è una sostanza attiva e curativa, e il paradigma è giocato in questo caso sull’antinomia tra sostanza proficua e sostanza venefica. La seconda definizione, riguardante la clinica della dipendenza, prende radici nel pensiero freudiano, e ha una matrice sessuale. Se consideriamo l’origine del termine addiction, dipendenza, un primo suggerimento viene dal fatto che il termine antinomico della dipendenza è la libertà e questo pone un interrogativo su quel che può essere la prospettiva terapeutica: da cosa ci si deve liberare? L’idea della dipendenza ha avuto infatti una fortuna e un’espansione particolari: dalla dipendenza dal gioco d’azzardo, alla dipendenza sessuale, dal cibo, e il vero quesito è: dobbiamo effettivamente liberarci dalle dipendenze, se con questo intendiamo i piaceri da cui dipendiamo, o dobbiamo semplicemente renderli meno tossici e limitarne il contraccolpo venefico? Ovviamente, posta in questi termini, si tratta di una domanda retorica, ma indica le diverse direzioni terapeutiche che si possono prendere, a seconda che consideriamo la clinica della tossicomania, dove l’obiettivo è sradicare il rapporto che il soggetto intrattiene con una sostanza venefica, o una clinica della dipendenza, dove si tratta di limitare, ma evidentemente non di sradicare, il rapporto con un piacere che, oltre una certa soglia, si rivela distruttivo. C’è infatti nel godimento un lato distruttivo non facilmente aggirabile. In fondo tutte le forme di dipendenza – compresa la dipendenza dal sintomo, per il versante in cui include un godimento – non sono altro che forme di supplenza a quell’assenza fondamentale che è l’assenza del rapporto sessuale. Per il tossicodipendente questo si esprime in un modo particolare, attraverso il rifiuto di passare per il desiderio dell’Altro. In una comunità per tossicodipendenti in cui facevo supervisione alcuni anni fa, una volta gli educatori mi mostrano i disegni che hanno fatto gli ospiti il giorno in cui hanno proposto loro il gioco della casa ideale. Ciascuno doveva disegnare la casa in cui immaginava avrebbe potuto vivere sentendosi a proprio agio, indicando la sua collocazione nella città, gli oggetti che vi potevano essere dentro, le persone, e altri dettagli del genere. I disegni, non dovremmo sorprendercene, avevano tutti uno schema ricorrente: le case erano tutte collocate in angoli piuttosto isolati della città, le strade vi si attorcigliavano intorno senza che nessuna davvero portasse alla casa. Dentro c’erano generalmente oggetti elettronici, come computers, Hi Fi, televisori di ultimo modello, tutto quel che permette di fruire di musica, immagini, intrattenimento senza uscire di casa. In alcune, poche, case c’era una partner – gli ospiti erano solo uomini – ma relegata in qualche stanza, come in una sorta di reclusione, oggetto prigioniero di fantasie perverse che erano esplicite nei racconti. È chiara nella tossicodipendenza la spinta a raggiungere il godimento senza passare attraverso l’Altro, cortocircuitando sia la domanda sia il desiderio. In questi disegni, e nei racconti che li commentavano, era espressa l’assoluta necessità di proteggersi da quanto di minaccioso e distruttivo rappresentava per i loro autori il desiderio dell’Altro Ci sono però diversi modi d’elusione dell’Altro, e diversi modi di cercare un accesso diretto al godimento. Abbiamo menzionato l’autoerotismo, che va senz’altro in questo senso, e che costituisce un modello, un paradigma per Freud, senza tuttavia, evidentemente sovrapporsi alla modalità di soddisfacimento tossicomane. Un’altra posizione interessante da considerare dalla prospettiva del rifiuto del desiderio dell’Altro è la posizione cinica, che esprime il rifiuto degli ideali della città, che elimina tutto ciò che non è strettamente necessario, che considera ridondante tutto ciò che non è puro bisogno e che non possa essere soddisfatto con ciò che si può attingere direttamente con le proprie mani. Diogene giunge a spezzare la ciotola da cui beveva dopo aver visto un ragazzo attingere l’acqua direttamente dal cavo delle mani. Il cinismo è in fondo una variante estrema di quel che Lacan chiamava il non-dupe, colui che rifiuta di farsi ingannare dalle parvenze dell’Altro. Può essere interessante prendere le questioni per antitesi: l’opposto del non-dupe è il dupe, cioè quello che correntemente chiameremmo “gonzo”, termine che con Lacan assume una dignità teorica. Gonzo non è un termine che, in genere, useremmo come complimento, ma Lacan, nel seminario Les non-dupes errent, invita a essere dupe de l’inconscient. Cosa significa? Significa acconsentire a entrare nel gioco d’inganni del linguaggio. Chi si rifiuta ai labirinti del linguaggio è destinato ad andare alla deriva secondo quel che dice il titolo del suo seminario che – smontando il calembour dell’espressione che in francese suona come “i nomi del padre” – può essere tradotto: i non-gonzi vagano raminghi. Cosa vuol dire accettare di fare il gonzo, di entrare nel gioco dell’inganno? Non significa necessariamente credere a quel che dice l’Altro, prendere per buone le parvenze del Nome-del-Padre. Non significa entrare nel gioco dell’Altro che inganna prendendolo come Altro di verità, prendendo cioè per oro colato quel che dice. Tutti, per esempio, leggiamo i giornali per sapere cosa succede nel mondo, anche se nessuno, penso, crede a quel che scrivono i giornali. Chi non vuole entrare nel gioco dell’Altro per evitare l’inganno, pretendendo di rivolgersi solo a un Altro delle verità, è qualcuno che in fondo ha scelto di credere nelle favole. Entrare nel gioco significa entrarci con la consapevolezza della situazione in cui ci mettiamo. Possiamo trovare alcuni esempi significativi in questo senso nella storia del cinema. Le immagini più espressive in questo senso sono nei film di Orson Welles, in particolare La signora di Shangai e Rapporto confidenziale. In entrambi i film il protagonista si lascia usare da un Altro ingannevole, entra consapevolmente in un gioco truccato che porta però alla fine la distruzione dell’Altro che si pensava tirasse i fili. Ne La signora di Shangai l’autodistruzione dell’Altro che inganna avviene nella scena memorabile del labirinto di specchi nel quartiere cinese di San Francisco, dove l’avvocato Bannister e la moglie Elsa si uccidono a vicenda inseguendosi in riproduzioni innumerevoli delle loro immagini, mentre in Rapporto Confidenziale Arkadin, che assolda il protagonista con il pretesto di trovare le tracce dimenticate del proprio passato per cancellarle uccidendo i testimoni, non sopravvive alla vergogna di veder rivelato questo passato alla figlia, e si lascia precipitare con il suo aereo privato. A questo proposito può essere interessante mettere in risalto un altro aspetto: le differenze tra l’uso rituale della droga, descritto dagli antropologi nelle cosiddette società fredde, e l’uso della droga nella nostra società. Le descrizioni più note dell’uso rituale della droga sono senz’altro quelle di Castaneda, ma anche in Levi-Strauss ci sono riferimenti che mettono l’accento meno sulla sostanza che sul dispositivo simbolico, sul contesto contesto discorsivo in cui avviene l’assunzione della sostanza. Presa da questa angolatura la sostanza, la datura nelle descrizioni di Castaneda, diventa semplicemente un modo per accedere a una dimensione distinta da quella immediatamente tangibile, concreta. Levi-Strauss mette ben in risalto come non ci siano fenomeni naturali allo stato puro, come una sostanza possa avere un effetto in un certo contesto culturale e uno opposto in un altro, e questo dipende dal sistema rituale simbolico in cui l’assunzione delle sostanze è inserita. Nelle nostre società occidentali, dove il valore delle scienze ha assunto quotazioni stellari a scapito di ogni altra forma di pensiero, e ha preso il posto delle figure tradizionali, non può esserci un maestro Don Juan come nelle tribù amerindie descritte da Castaneda. Non c’è infatti un dispositivo simbolico che possa sostenerne la credibilità. Il credibile, nelle nostre società, non passa più per le figure d’autorità tradizionali, ma per la ratifica del protocollo scientifico. È credibile solo ciò che è sostenibile per prova scientifica, solo ciò che è evidence based. I dispositivi simbolico-rituali tradizionali da noi sono assorbiti completamente dalla tecnologia. Quel che nelle società tradizionali veniva cercato attraverso pratiche magiche, nella nostra viene cercato attraverso i dispositivi tecnologici realizzati dal discorso scientifico, e questo, in un certo senso, ci vizia. Non abbiamo più bisogno di andare al pozzo a cercare l’acqua, apriamo il rubinetto. La logica dell’interruttore – quella per cui con un clic ho la luce, oppure ho il collegamento con l’altro capo del mondo – è penetrata profondamente in noi, è diventata pervasiva, e quel che otteniamo ha perso l’aura che la magia gli dava nelle società tradizionali. Impossibile però non vedere che quando la logica dell’interruttore si applica a settori della vita dove le cose non arrivano con un clic, diventa di nuovo pura e semplice credenza nella magia. Nel campo delle problematiche mentali abbiamo innegabilmente un uso magico del farmaco per temperare l’ansia, per ovviare alla timidezza, per evitare il lutto, come se le emozioni obbedissero al clic. L’altra faccia del farmaco, che è la droga, va nello stesso senso: la droga è immaginata come serbatoio di felicità, come rubinetto del godimento. In un contesto culturalmente povero, che non è quello dei musicisti degli anni Sessanta o degli scrittori del secolo scorso, dove era assunta per sollecitare la creatività, la droga non è una via di ricerca, ma una via d’accesso per forzare la disponibilità immediata di felicità, o di sollievo dall’angoscia. Non dobbiamo però pensare che la dimensione simbolica di cui parla Levi-Strauss si possa annullare facilmente. C’è tutto un aspetto rituale di gruppo nell’assunzione o nel commercio delle droga, che rinasce in forma spoglia, depauperata. Ed è allora che le categorie stesse di diagnosi assumono nei gruppi valenze identificative. Chi comincia a identificarsi con il tossicomane, e dice “Io sono tossicomane”, chi va al SERT e si comporta come un tossicodipendente, fa le cose che si ritiene debba fare un tossicodipendente, si costruisce una vita da tossicodipendente. Il quesito è allora, credo, disidentificare, decostruire la gabbia simbolica che è la gabbia di una vita in cui il soggetto è entrato identificandosi con il tossicodipendente. L’articolazione tra droga e linguaggio passa per queste forme rituali e identificative che, per quanto residue, sono attive anche nelle nostre società, e non c’è prevenzione possibile della droga se non si passa per quel che costituisce la cultura della droga, la rete di discorso che porta un soggetto alla deriva, o la china che lo mette alle prese disperate con un desiderio dell’Altro intrattabile, spingendolo a trovare sollievo in un farmaco che non apre, in questo caso, le porte della creatività, ma quelle di un abisso che sostituisce la voracità senza limiti dell’Altro con una fame chimica altrettanto insaziabile e altrettanto generatrice d’angoscia.
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