![]() Intervento presentato a Torino al Seminario di politica lacaniana l'8 luglio 2017 Marco Focchi A differenza di Dante, che viene mandato in esilio, Petrarca nasce in esilio. Il padre, che apparteneva alla fazione dei guelfi bianchi, deve fuggire quando Carlo di Valois scende a Firenze a sostegno dei guelfi neri, e si rifugia ad Arezzo. La condizione dell’esilio è in un certo senso connaturata a Petrarca, e fa di lui un cittadino del mondo. Nato ad Arezzo, studia a Bologna, vive la maggior parte della vita ad Avignone, alla corte papale, compiendo diversi viaggi a Parigi e nell’Europa del nord. Poi sarà al servizio dei Visconti, a Milano, risiederà a Venezia, a Padova, sempre viaggiando, e dividendosi tra un nomadismo diplomatico e il rifugio solitario della sua casa di Vaucluse. Pur considerando Firenze sua patria, a Firenze Petrarca, in tutta la sua vita, ha passato non più di due giorni, soggiornando per il resto del tempo in paesi stranieri, perché per un toscano, all’epoca, la pianura padana era all’estero tanto quanto Avignone. Questo sradicamento lascia evidentemente un segno nel rapporto di Petrarca con la lingua, giacché perde il contatto con il volgare fiorentino all’età di otto anni e, vivendo ad Avignone, capitale culturale dell’epoca, comunica in latino.
Noi consideriamo Petrarca una delle colonne fondative della lingua italiana, ma Petrarca scrive le opere da cui si aspetta la fama in latino, che è la lingua del potere e del prestigio. Di tutta la sua produzione, in italiano ci sono solo due opere, ed entrambe portano un titolo latino: Rerum vulgarium fragmenta, che noi conosciamo meglio con il titolo che ci hanno insegnato a scuola, il Canzoniere, e i Triumphi. Il latino era la lingua della corrispondenza, anche con gli amici, tutte le sue lettere sono infatti in latino. Ma era anche la lingua intima, quella con cui comunicava con se stesso. Se doveva per esempio fare delle annotazioni a margine delle sue poesie, queste erano scritte in latino. Non credo sarebbe azzardato sostenere che pensava in latino. Tutto quel che si può dire sulla sua politica pubblica infatti è che aspirava all’unità d’Italia come riedizione della grandezza di Roma, tema per noi diventato infrequentabile dopo lo sfruttamento retorico che ne è stato fatto dalla propaganda fascista nel ventennio mussoliniano. Petrarca pensando a Roma pensava a Cicerone, e i gerarchi fascisti sicuramente avevano in mente più Cesare e i suoi legionari, ma non è questa la via per cui possiamo leggere una politica di Petrarca. Politica che è stata spesso contraddittoria: ha sostenuto Cola di Rienzo al tempo della sua insurrezione per la restaurazione della repubblica romana, ma non ha esitato a rivolgersi a Carlo IV quando ha pensato che l’Imperatore potesse realizzare l’unità d’Italia. In un certo senso, la sua visione politica fattuale si riassume nell’unica canzone politica del Canzoniere, che inizia: “Italia mia, benché ‘l mio parlar sa indarno”, una perorazione, inutile, come lui stesso dice, perché i signori d’Italia smettano di litigare e scaccino lo straniero. Lo stesso Machiavelli, che pur se n’è lasciato ispirare, dice come il suo progetto politico sia fallito perché il Petrarca non andava “drieto alla verità effettuale della cosa […] ma alla immaginazione di essa.” Questa diagnosi di Machiavelli mi sembra decisiva: Petrarca non fa una politica delle cose, perché la sua politica passa per la lingua, e passa, fondamentalmente, per una divisione della lingua. Cosa porta Petrarca a scrivere in volgare, una lingua che non parla più e dalla cui fonte viva è separato, una lingua di cui un uomo come lui – ambizioso di riconoscimenti istituzionali tanto da cercare l’incoronazione come poeta laureato – non può servirsi per i suoi scopi? Per Dante il volgare è la lingua viva, mobile, in continua trasformazione, quella che si è sentita nei primi anni dalla balia, e che proprio perché naturale è superiore al latino, lingua artificiale e immobilizzata dalla grammatica. Il volgare deve perciò essere cardinale, aulico e curiale, deve cioè assumere tutti i titoli di prestigio ed essere una lingua di riferimento, illustre per la poesia e condivisa dai sapienti di corte. Per Petrarca niente di tutto questo. Il volgare è per lui una lingua, se non dimenticata, trascurata, da cui non si aspetta fama, che non è adatta alle corti dove cerca protezione, e che certamente non è all’altezza del latino di una Roma da rifondare per riportare l’Italia al suo antico valore. Non c’è nessuna china naturale che, come per Dante, lo conduca al volgare. C’è una scelta. Occorre una decisione per portarlo a esprimersi in una lingua che si allontana da tutti i canoni dell’ambizione, della reputazione, e dagli interlocutori che sono il pubblico a cui vuole rivolgersi, cioè la casta internazionale degli intellettuali, dei politici, dei funzionari, le classi dirigenti dell’Impero. L’interlocutore del volgare è diverso, è intimo, segreto. L’immagine di Laura è astratta, la lingua stessa di Petrarca rifugge la denominazione diretta e la designazione precisa e concreta. Cerca la perifrasi, la circonlocuzione, gira intorno alla cosa piuttosto che darne il termine preciso e puntuale. Il volgare è la lingua del desiderio, insegue un’immagine che non può mai afferrare e di cui cerca con le parole di disegnare un contorno: “colei che sola a me par donna”, “colei ch’avanza tutte l’altre meraviglie”, “colei che guardando e parlando mi distrugge”, “colei che la mia vita ebbe in mano”. Il corpo di Laura è il “suo bel carcere terreno”, la “bella prigione”, la “terrena scorza”. È una lingua che è il contrario della padronanza, che è priva del contrassegno di un significante padrone, e parla di una mancanza velata dall’immagine di Laura. È una lingua dello smarrimento. Nella canzone che tutti abbiamo studiato a memoria a scuola, “Chiare, fresche, et dolci acque” che peraltro non sono le acque dell’Arno ma di Vaucluse, questo senso dello smarrimento è pienamente trasmesso: “Così carco d’oblio / il divin portamento / e ’l volto e le parole e ’l dolce riso / m’aveano, et sì diviso /da l’imagine vera, / ch’i’ dicea sospirando: / Qui come venn’io, o quando?; / credendo esser in ciel, non là dov’era.” Questo senso di disorientamento, che è estatico in Petrarca, ma che arriva fino all’estraniazione da sé in Pirandello, questo slittamento verso la perifrasi, questa estraneità della lingua intima, traversano il rapporto degli scrittori con l’italiano portandoli a una ricerca a volte di sonorità barbariche, di fonti dialettali a cui attingere che non corrispondono al proprio dialetto nativo. Lo vediamo ancora tra i contemporanei per esempio nel milanese Gadda, che per il Pasticciaccio brutto attinge al romanesco, lo vediamo ancora in Pasolini, che in famiglia, per imposizione del padre parlava solo italiano, o tutt’al più in veneto con gli amici, e che va alla ricerca delle parlate friulane di cui trascrive meticolosamente le desinenze e le varianti locali. Lo vediamo persino nella scrittura giornalistica di oggi, che si riempie di barbarismi: endorsment per dire sostegno, rumors per dire voci, implementare per dire portare a compimento. L’esperienza per Petrarca di una divisione interna alla lingua, e la scelta di esprimersi in un volgare in cui non si sente davvero a casa propria, gli porta un pubblico diverso da quello internazionale dei potenti e delle corti, con i quali parlava in latino. Gli porta il pubblico delle donne. Molti ritratti femminili italiani del Rinascimento rappresentano una donna mentre tiene in mano un libro, e i critici concordano sull’idea che in quasi tutti i casi si tratta del Canzoniere. A volte è chiaramente riconoscibile, perché porta un’iscrizione sulla costa, a volte è contrassegnato da rinvii al Petrarca, altre volte ci sono riferimenti a versi petrarcheschi. Il più famoso ed esplicito di tutti è un ritratto di Andrea del Sarto, che s’intitola per l’appunto la Dama col Petrarchino, nel quale sono chiaramente leggibili due canzoni contenute nel Canzoniere. I versi di Petrarca arrivano alle donne perché parlano d’amore, certamente, perché sono bellissimi, beninteso, e perché sono scritti in volgare, ovvero in una lingua accessibile alle donne del tempo che, quando non erano nobili dame di corte, sapevano magari leggere ma non sapevano leggere il latino. Dante cerca una lingua naturale per parlare ai sapienti d’Europa, e scrive la sua proposta in latino per rivolgersi a loro e convincerli. Petrarca sceglie una lingua artificiale per parlare della donna e che parli alle donne, ed è una lingua intima, sottratta ai proclami. Lo sfondo di Dante è San Tommaso, che pensa la donna come un uomo mancato, un essere difettoso, carente di virtù, anche se per questo aspetto non ha influenzato la visione di Dante. Lo sfondo di Petrarca è Sant’Agostino, lo scrittore delle Confessioni, che entra nel più profondo di se stesso, che descrive minuziosamente gli sforzi e il dolore che gli sono costati staccarsi dalla sensualità, separarsi dalla donna. Per Petrarca la donna non è un essere difettoso, ma il culmine di ogni perfezione e, anche se il Canzoniere è la storia di una conversione, che passa attraverso la donna per staccarsene e salire, con lenta maturazione, ai valori di carità e di virtù, la lingua dello smarrimento ha le sue derive proprie, e parla al di là dell’intenzione narrativa del poeta. Come di Dante infatti tutti ricordiamo molto bene l’Inferno, soprattutto se da ragazzi lo abbiamo letto con le illustrazioni del Doré, e molto meno il Paradiso, di Petrarca tutti ricordiamo Laura “Humile in tanta gloria / coperta già dell’amoroso nembo”, e le donne del Rinascimento vi si sono riconosciute, e per questo, ritengo, è loro piaciuto farsi ritrarre con il Petrarchino in mano.
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