Intervento alla tavola rotonda sul tema "L'orizzonte contemporaneo della femminilità" nell'ambito del Congresso AMP "L'ordine simbolico nel XXI secolo", Buenos Aires 23-27 aprile 2012 di Marco Focchi Il mondo contemporaneo ci ha abituato a una sempre maggiore presenza femminile nei luoghi del potere. Abbiamo donne ministro, donne imprenditrici, dirigenti, giornaliste di spicco nelle posizioni chiave da cui formare l’opinione pubblica. In Italia in questo momento la presidenza della Confindustria e la segreteria di uno dei sindacati più rappresentativi sono tenute da donne, così come la presidenza della RAI, che è la più influente agenzia culturale del Paese. Nel mondo anglosassone abbiamo la presenza perentoria di figure come Arianna Huffington, Oprah Winfrey, Hillary Clinton. Stati Uniti, Francia e Cina sono le nazioni con la più alta concentrazione di donne di potere. Stiamo vedendo un uomo di colore alla presidenza degli Stati Uniti, non è difficile immaginare che vedremo presto una donna alla guida della maggiore potenza del mondo Occidentale. Da un lato possiamo dire che i media fanno oggi certamente sempre più attenzione al fenomeno delle donne di potere, mostrandocene un’immagine amplificata. Dall’altro dovremmo considerare che c’è sicuramente una crescita quantitativa del potere femminile, ma che il fenomeno non appare tipicamente moderno. La storia è costellata di figure luminose di imperatrici e regine, da Teodora, a Isabella di Castiglia, a Elisabetta I d’Inghilterra, a Caterina II di Russia, per elencare solo le prime che vengono in mente. C’è uno stile che potremmo definire femminile di gestione del potere? O il potere è semplicemente un luogo operativo di decisione, in cui da sempre sono potute entrare donne particolarmente energiche, che sapevano superare i pregiudizi e gli sbarramenti materiali della loro epoca, per investirsi di un ruolo gestito con piglio e determinazione tali da farle prevalere sui concorrenti maschili, in un terreno tipicamente segnato dalla connotazione fallica? Non è questo, a mio parere, il problema critico, e ci sono sull’argomento senz’altro diverse scuole di pensiero a cui lascio volentieri la parola. Mi sembra invece più interessante interrogare le fonti di legittimazione del potere. Quel che fa sì che un potere venga esercitato legittimamente è l’autorità che lo sostiene. Sappiamo che a partire dalla modernità le forme tradizionali dell’autorità sono in crisi. Se vogliamo prendere un’immagine rappresentativa dell’avvio di questa crisi dobbiamo andare alla dieta di Worms nel 1521, quando Lutero, di fronte a Carlo V, dichiara di poter obbedire solo alla propria coscienza. Carlo V, imperatore per diritto divino, può solo dire: mi devi obbedienza perché Dio è dietro di me, a guidare le scelte che io faccio per tutti voi. Lutero, ascoltando solo la propria coscienza risponde: Dio è dentro di me. Il primo passo per eliminare il terreno su cui poggia l’autorità è dire: Dio non è dietro o sopra di me, è dentro di me. Dopo questo primo passo la disgregazione dell’autorità tradizionale è stata inarrestabile, fino ad arrivare oggi alla sfiducia generalizzata nella politica, all’astensionismo di massa, al funzionamento routinario che delega tutte le scelte alle procedure e alle burocrazie amministrative. Non c’è un vuoto di potere nelle società occidentali, ma c’è sicuramente uno svuotamento dell‘autorità, che porta con sé un progressivo ritrarsi dalle responsabilità, una generalizzazione del vittimismo, un’incepparsi dei meccanismi di trasmissione nelle istituzioni educative. Da un lato sorgono allora le invocazioni per un ritorno salvifico alle autorità tradizionali, dall’altro la perdita di credibilità dell’autorità viene compensata aggrappandosi alle certezze della scienza, estendendone il dominio oltre misura ragionevole, in campi dove è in questione il soggetto, che non risponde ai calcoli, alle modalità di programmazione, agli esperimenti evidence based delle procedure scientifiche. I nostri dibattiti sul declino del Nome del Padre entrano in questo solco, e credo abbiamo qualcosa da dire sul modello improntato alla logica maschile, in cui funzionano le autorità tradizionali. Nelle società della sovranità l’autorità procedeva legittimando il controllo del territorio. Nelle società disciplinari tutto si è spostato sul controllo dei corpi. Nelle società in cui viviamo, dove in ogni angolo di strada c’è una telecamera, il controllo si è generalizzato e, attraverso le parole d’ordine lanciate in modo martellante dai media, gestisce quel che è credibile e quel che no. La prevenzione, uscendo dall’ambito sanitario, è diventata una parola d’ordine universale. La logica maschile dell’autorità ha sempre funzionato proibendo e consentendo, e il monopolio del credibile nelle società del controllo ne ha assunto tutte le prerogative con un pervasivo effetto di deresponsabilizzazione. Possiamo immaginare un modello di autorità diverso da quello implicito nella logica maschile del proibire e del consentire, e che abbia in sé i tratti di un volto femminile? Vorrei attingere dall’antichità un esempio che mi sembra aver tutte carte in regola per apparire ipermoderno. Nella vita di Cesare, Plutarco racconta un aneddoto divertente. Cesare, venuto in Egitto per regolare le dispute dinastiche dei Tolomei, si stabilì nel loro palazzo ad Alessandria, da dove Cleopatra era fuggita. Quando la regina egizia decise di presentarsi a Cesare, si fece portare di nascosto nel palazzo da un servo, avvolta in un tappeto. Nel memorabile film di Joseph Mankiewicz su Cleopatra, la regina ha il volto irresistibile di una Litz Taylor appena trentenne. Quando il servo viene introdotto al cospetto del generale romano con il tappeto sulle braccia, Cesare, diffidente, tenta di saggiare il tappeto con la punta della spada, ma Apollodoro, il servo, lo ferma: si tratta di un tessuto molto pregiato! Allora Cesare, spazientito tira bruscamente i lembi del tappeto per svolgerlo, e ne rotola fuori, arruffata e splendida, raggiante di bellezza e di dispetto, Cleopatra, che Cesare, scoppiando in una risata, aiuta a rialzarsi. Cesare si affretta allora a congedare Apollodoro, dandogli disposizioni di preparare una camera per la regina. Mentre Apollodoro sta per uscire Cleopatra gli intima: “Ti ho forse detto di andartene?” Poi, rivolta a Cesare: “ Questo è il mio palazzo, Cesare, tutto quel che c’è è sottoposto alla mia volontà, e io non sono tua schiava. Piuttosto, tu se mio ospite”. La scena si potrebbe leggere come un braccio di ferro tra due potenze a confronto, ma c’è una dissimmetria interessante, nella mossa con cui Cleopatra rovescia la situazione. “Non sono tua schiava, tu sei mio ospite”. L’accento è sul luogo. Cesare controlla materialmente il palazzo con le sue guardie, ma Cesare è nel luogo di Cleopatra, e solo emanando da lei le cose possono aver luogo. La declinazione femminile dell’autorità che mi sembra suggerire è che, se nella logica maschile l’autorità è quella che proibisce o consente, esercitando un controllo, nella versione femminile l’autorità è ciò che dà luogo, ciò che fa accadere. L’autorità è un modo di trattare il reale, e dal lato maschile la logica è la scienza del reale. Da questa prospettiva il reale si incontra sempre come impossibile. Nel femminile invece il reale non è il residuo che resiste alla logica, perché nel femminile il godimento non è focalizzato dal fallo, non passa per le filiere della logica, né per le torsioni della dialettica. La legittimazione non ha bisogno di bilanciarsi tra negazione e affermazione, né di tenere sotto controllo una situazione in cui prevenire le sorprese. Al contrario, tutto nasce dalla mossa a sorpresa, dal rovesciamento improvviso. Far accadere, e non prevenire l’evento, è ciò che presiede a una forma di autorità di cui dovremmo forse esplorare le risorse, piuttosto che appellarci ai tempi perduti in cui le aquile volavano alte nei cieli dell’Impero, o chiedere soccorso alle certezze di una scienza che ha potenti mezzi per trattare la materia inerte, ma che diventa truffa quando vogliamo farle stringere in una formula i segreti del godimento.
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