di Marco Focchi Conferenza tenuta il 15 dicembre 2018 a Malaga presso la sede della Escuela lacaniana de psicoanalisis La prima parte del seminario su La relazione d’oggetto, intitolato “Teoria della mancanza di oggetto”, potrebbe essere riassunta da un’affermazione che ricorre solo diversi anni più tardi nell’insegnamento di Lacan: “Non c’è rapporto sessuale”. La critica che Lacan sviluppa infatti nei confronti del concetto di conduzione della cura promossa dai rappresentanti della teoria della relazione di oggetto va nel senso di contrastare, di demolire, di smitizzare l’assunto centrale di questa teoria, che consiste nell’idea di un’armonia tra soggetto e oggetto, di un’adeguata correlazione che il soggetto dovrebbe raggiungere, a compimento dell’analisi, con l’oggetto del desiderio. Poiché, come Lacan dice in una delle prime lezioni del seminario, l’oggetto è la donna, la meta finale di un’analisi secondo i canoni della teoria della relazione d’oggetto sarebbe il raggiungimento di un armonico rapporto sessuale con il partner. Genitale/pregenitale
Quando si parla di rapporto sessuale in quegli anni ci si riferisce all’opposizione tra genitale e pregenitale, dove la relazione genitale rappresenterebbe il maturo compimento della sessualità, il suo pieno coronamento in contrasto con la sessualità pregenitale, segnata da un carattere infantile o perverso. Sullo sfondo della teoria della relazione oggettuale c’è infatti il lavoro di Karl Abraham sugli stadi dello sviluppo libidico, dove è prevista una sequenza che traversa le diverse fissazioni pregenitali per culminare nella fase fallica, che dà luogo alla pienezza della relazione genitale. L’opposizione genitale/pregenitale è uno dei vettori di fondo della teoria delle relazioni oggettuali, e il modello di cura a cui conduce ha come punto di mira la piena realizzazione e soddisfazione genitale. In cosa consiste questo epilogo? In pratica nella realizzazione del rapporto sessuale nel senso in cui ne parla Lacan negli ultimi anni del suo insegnamento, cioè nel dar luogo una perfetta corrispondenza simmetrica di godimento tra i due partner. L’esperienza di analisi dovrebbe così terminare, da questo punto di vista, sulla conferma e sulla verifica dell’esistenza del rapporto sessuale come armoniosa concordanza e reciprocità tra i due sessi. Un caso di Bouvet Maurice Bouvet, per esempio, in un caso riferito nel suo articolo Le moi dans la névrose obsessionnelle, considera di aver raggiunto un risultato con una delle sue pazienti che non accettava la femminilità e la quale, dopo una prima analisi, aveva un po’ ridotto la sua ripugnanza, rimanendo tuttavia semi-frigida e continuando a cercare di evitare ogni approccio sessuale. Un giorno questa paziente riferisce a Bouvet di aver avuto una esperienza straordinaria: sente di aver potuto godere della felicità di suo marito. Era rimasta commossa constatando la propria gioia, e il piacere del marito in quel momento era stato anche il suo. Bouvet commenta dicendo che una relazione genitale adulta non si potrebbe caratterizzare meglio di così. Possiamo in effetti considerare una riuscita questo esito dell’analisi se assumiamo il punto di vista dell’ideale oblativo. Ma, osserva Lacan, per quanto riguarda il sintomo di frigidità di questa donna in realtà non è cambiato nulla. Si può osservare con frequenza il fenomeno di godere del piacere del partner, ma in questo caso, dal punto di vista clinico, non vuol dire nulla poiché la paziente non ha raggiunto l’orgasmo e resta comunque semi-frigida. Vediamo allora che il punto di mira della cura per la teoria delle relazioni oggettuali non è tanto il trattamento del sintomo, ma il raggiungimento dell’armonia come esito di un’infanzia, di un’adolescenza e di una maturità normali. Cos’è l’armonia? Sullo sfondo dunque della teoria degli stadi evolutivi di Abraham questa prospettiva proietta la cura in direzione di una maturazione delle pulsioni e del raggiungimento di una armonia sessuale. Cosa dovrebbe garantire quest’armonia? Dobbiamo innanzi tutto dire che questo concetto di armonia ha le sue origini nobili. Quando Leibniz aveva formulato la sua teoria delle monadi, ciascuna delle quali è un punto di vista sulla totalità dell’universo e contiene in sé tutto l’universo, si poneva il problema di spiegare come questi diversi punti di vista si armonizzassero tra loro, giacché ogni monade è priva di porte e finestre. Leibniz rispondeva: c’è un’armonia prestabilita. Naturalmente ci si domanda da dove venga questa armonia prestabilita, chi la orchestri, e la risposta di Leibniz poteva essere una sola: Dio è il garante dell’armonia prestabilita. Con Bouvet non abbiamo Dio ma la genitalità e, in un certo senso, possiamo dire che la genitalità ha lo stesso posto di garante dell’armonia che ha il Dio di Leibniz. Un aspetto fondamentale nel determinare gli obiettivi della direzione della cura secondo Lacan implica quindi una critica all’idea di armonia rispetto alla quale Lacan fa apparire tutte le incrinature, le discordanze, le disparità, le disconnessioni. L’oggetto empirico e l’oggetto d’angoscia Due sono i piani di riflessione che portano Lacan in questa direzione: il primo è quello clinico e riguarda la nozione che dobbiamo farci dell’oggetto. Per i teorici della relazione d’oggetto, l’oggetto è in ultima istanza reale. L’oggetto si presenta sullo sfondo della realtà comune. Lo scopo e il punto di arrivo della ricerca analitica è mostrare che non c’è motivo di averne paura. La paura è però qualcosa di diverso da angoscia, perché è per l’appunto determinata da qualche pericolo concreto, che si presenta nella realtà. L’oggetto invece, per Lacan, non ha sullo sfondo la realtà comune, ma è un oggetto allucinato su uno sfondo di angoscia. Lacan si ricollega a tutte le teorie freudiane che descrivono l’oggetto sempre fondamentalmente come un oggetto perduto che si tratta di ritrovare. Proprio per questo contrariamente all’idea di Bouvet di un oggetto pienamente soddisfacente, armonioso, che stabilisce con il soggetto un rapporto in una realtà adeguata, se seguiamo Freud l’oggetto viene inseguito invece come perduto, come l’oggetto del primo svezzamento su cui si modellano i primi soddisfacimenti del bambino. Dice Lacan “È chiaro che proprio per il fatto che esiste tale ripetizione si instaura una discordanza”. Qui si rivela il secondo piano di riflessione di Lacan, che non è clinico ma fa appello alla filosofia, alla distinzione fra reminiscenza platonica e ripetizione di Kierkegaard. La ripetizione Lacan mette bene in risalto la differenza tra la prospettiva platonica e quella kierkegaardiana. La reminiscenza platonica conduce dagli oggetti sensibili al riconoscimento degli oggetti intellettuali, alle idee. Il percorso va dal mondo fenomenico a quello iperuranio e l’apprensione all’oggetto avviene come processo di riconoscimento. Qualcosa era in noi già preformato, dobbiamo solo tirarlo fuori con il metodo maieutico, come di vede nel Menone e nel Fedro. Dalla corrispondenza platonica, su cui si fonda la teoria della verità come adeguatezza, alla ripetizione di Kierkegaard, la prospettiva cambia completamente. In Kierkegaard non c’è nessuna adeguatezza possibile. Un momento di felicità conosciuto a Berlino, che l’autore si ingegna di ricreare producendo condizioni identiche in un nuovo viaggio, si rivela un completo insuccesso. Niente può ricreare quel momento magico, mitico, destinato a rimanere unico. Nello stesso modo al soggetto sarà sempre impossibile ritrovare l’oggetto di un soddisfacimento originario che in quanto tale è mitico, e ogni ricerca di un oggetto per colmare la mancanza di quello originario, troverà sempre qualcosa di insoddisfacente, l’oggetto risulterà sempre inadeguato, nel migliore dei casi potrà essere un aggiustamento, ma nulla a che vedere con la realizzazione di una armonia o il raggiungimento di una pienezza di godimento. La vita di tutti noi d’altra parte è fatta di momenti unici e irripetibili che toccano a volte il culmine in una punta di angoscia. Quando, nelle circostanze rare in cui le nostre vite escono dai binari della routine, nell’esperienza d’amore, nell’estasi, nella scoperta, sentiamo che il conosciuto e lo sconosciuto si costeggiano, il riconoscimento si riempie di straniamento. Sono questi i momenti in cui la vita prende un’altra intensità che sarebbe tuttavia difficile classificare come armonia o pienezza. La vera bussola della cura Lacan prende quindi la questione da questo lato, accentuando e mettendo in forte risalto il contrasto tra una conduzione della cura concepita a partire da un oggetto pensato sullo sfondo della realtà e una conduzione della cura considerata in base a un oggetto che deraglia dalla realtà, che destabilizza l’apparentemente solido edificio del senso comune. La posta in gioco è infatti, in questi capitoli del seminario e in base a questa differente concettualizzazione dell’oggetto, la differenza tra una cura che ha come riferimento la realtà e una che ha come orientamento la triade simbolico immaginativo reale. Lacan riprende infatti qui lo schema L che ha costruito nei seminari precedenti come guida per l’orientamento della cura, schema che prevede che la realtà sia lasciata fuori dallo studio analitico perché si lavori sulle coordinate del simbolico e dell’immaginario, dove l’idea di fondo è che l’immaginario fa da schermo al simbolico, e che si tratta di ridurne la portata per far emergere la verità del simbolico. Verità che è verità di una mancanza, e uno dei punti centrali del seminario IV è proprio quello che riguarda l’elaborazione della nozione di mancanza, l’articolazione differenziata della mancanza. La mancanza L’oggetto è compreso attraverso la mancanza. Se il punto di mira di un’analisi non è l’armonizzazione del rapporto con l’oggetto, sullo stile Primary love dei coniugi Balint, è perché l’esperienza analitica mette in gioco non l’oggetto ma la mancanza d’oggetto, e questa mancanza è articolata nei tre registri del simbolico, dell’immaginario e del reale. C’è una mancanza sul piano simbolico, il debito simbolico, quello con cui ciascuno di noi viene al mondo, e che non è riparabile, che si tratta solo di riconoscere. La nevrosi dell’Uomo dei Topi per esempio gira tutta intorno alla sua ossessione di ripagare un debito, che vuol dire colmare una mancanza. Per l’Uomo dei Topi si tratta in ultima istanza del debito del padre. Perché l’ossessivo non sopporta il debito? Perché il debito implica una dialettica intersoggettiva da cui l’ossessivo rifugge. Fare debiti, e anche lasciarli insoluti, è molto più facile per gli isterici, perché il debito è il motore della dialettica intersoggettiva. L’ossessivo si muove invece in una logica intrasoggettiva, arroccato nel proprio castello interiore. Il secondo registro della mancanza è quello della frustrazione, e riguarda un danno immaginario. Lacan la definisce molto bene (pag. 32) dicendo che non riguarda qualcosa che si desidera e che non si detiene, ma che si desidera senza nessun riferimento a qualsivoglia possibilità di soddisfazione o di acquisizione. La frustrazione – prosegue Lacan – è di per sé l’ambito dell’esigenza sfrenata e senza legge. È logico dunque che come agente della frustrazione troviamo su questo piano la madre simbolica, cioè la madre che alterna la propria presenza ed assenza a capriccio, senza nessuna regola. La madre simbolica è la madre che può dare o negare, è colei che agisce fuori dalla legge e alla quale proprio per questo si può chiedere tutto, anche l’impossibile. Soprattutto l’impossibile. La frustrazione è così relativa alla definizione del desiderio insoddisfatto, che è insoddisfatto in quanto tale, non per qualche contingenza. Se diciamo poi che l’oggetto della frustrazione è reale, questo ha senso in relazione a una definizione che Lacan dà del reale: il reale – dice – è sempre necessariamente a posto, ha la proprietà anzi di portare il proprio posto attaccato alla suola delle scarpe (pag. 33). In effetti il seno, oggetto reale della frustrazione, se ne sta sempre attaccato alla madre, va e viene con la madre e, nella dialettica della frustrazione sviluppata da Lacan, l’onnipotenza è dalla parte della madre. Finché ha il potere di concedere o negare l’oggetto reale di soddisfacimento tutto fila liscio. Ma se la madre non risponde più, se non è più la madre simbolica dell’alternanza di presenza e assenza, decade allora verso la posizione di madre reale e diventa potenza in grado di concedere oggetti che non sono più semplicemente oggetti di soddisfacimento ma doni, testimonianze della potenza materna. C’è dunque un rovesciamento tra madre simbolica che diventa reale e oggetto reale che diventa simbolico. È il Lacan della clinica hegeliana che mette al lavoro la dialettica. La mancanza sul registro della privazione è il terzo punto, che completa la costruzione teorica e clinica di Lacan. Abbiamo qui una mancanza reale. Questo si può capire in relazione alla questione del fallo, a quella che Lacan chiama l’esigenza fallica. È chiaro che qui il riferimento è al femminile. In fondo si tratta di un modo per Lacan di teorizzare la castrazione femminile. Appare problematico – dice infatti – che un essere presentato come una totalità – una donna – possa sentirsi privato di qualcosa che per definizione non ha. Si tratta quindi di un oggetto simbolico, del fallo simbolico. L’esempio che fa, famoso e sempre citato, è quello del libro: il libro manca semplicemente perché non sta dove dovrebbe stare, nello scaffale della biblioteca, perché è da qualche altra parte e non dove è richiesto che sia. Il fallo è così: c’è, nella realtà, da qualche parte, dalla parte dei maschietti, ma il fatto che ci sia da una parte e non dall’altra lo rende come un oggetto che manca al suo posto, quindi un oggetto per eccellenza simbolico. Il fallo Come vediamo, la riformulazione della mancanza articolata nei tre registri fa entrare in scena una figura concettuale che comincia ad esser delineata proprio a partire dal secolo IV: il fallo. La nozione di relazione oggettuale è impossibile da capire – dice Lacan (pag. 23) – e anche da esercitare, se non ci mettiamo il fallo come elemento, non come elemento mediatore, ma come elemento terzo. Appare qui la famosa triade immaginaria: madre-bambino-fallo. La relazione madre-bambino non è semplicemente duale, perché tra la madre e il bambino c’è il fallo, cioè ciò che la madre desidera. Il fallo come indice del desiderio materno mette in gioco un’insoddisfazione fondamentale, una posizione con cui il bambino deve fare i conti entrando nella scena del mondo. La madre è la madre inappagata e in un certo senso inappagabile, come vedremo due anni dopo nella straordinaria analisi che Lacan fa della madre di Amleto, la Gertrude che non può stare una notte senza avere Claudio nel letto, e che porta Amleto allo scoramento. La madre è, come sottolinea Miller nel suo commento, una bestia affamata – quaerens quem devoret – una belva che cerca qualcosa da divorare. Evidentemente questo ci fa entrare in una prospettiva completamente diversa da quella presentata nella teoria dell’amore primario, mirata a conciliare l’egoismo e il dono in una relazione di perfetta reciprocità, dove ciò che il bambino esige dalla madre e ciò che la madre esige dal bambino costituiscono due poli complementari che si saturano a vicenda integralmente. Nella prospettiva della triade immaginaria il desiderio della madre non è desiderio del bambino, ma desiderio del fallo, e se il bambino e il fallo non coincidono possono verificarsi dei problemi. La triade immaginaria è poi sempre pensata in rapporto a un quarto termine, il padre, che lega la triade immaginaria nella relazione simbolica. Il quarto termine permette di trascendere la relazione immaginaria di frustrazione nella relazione di castrazione che “conferisce alla mancanza la dimensione del patto, di una legge, di un divieto che è quello dell’incesto”. Le soluzioni A partire da questa formulazione della triade immaginaria e del suo rapporto con il simbolico si aprono le diverse possibilità della clinica. Il problema che si presenta infatti è cosa succede se, per via di qualche carenza simbolica, la relazione immaginaria diventa la regola e la misura del legame. Cosa succede se, per qualche incidenza storica, o qualche contingenza, viene intaccato il rapporto madre-bambino rispetto all’oggetto fallico, o se viene meno la coerenza disarticolando il legame? Qui entriamo nel capitolo delle soluzioni. Oggi siamo abituati a dire che c’è sempre una carenza sul piano simbolico, che occorre comunque trovare una soluzione particolare per ogni soggetto. Lacan mantiene tuttavia in quegli anni un riferimento all’idea di normalità. La soluzione “normale” si determinerebbe allora attraverso la rivalità con il padre. Passando per la fase della minaccia di castrazione, sul piano simbolico si stabilisce una sorta di patto che sancisce il diritto al fallo, aprendo la via all’identificazione virile, che è quella della relazione edipica normativa. La via normativa è diversa nel maschile e nel femminile, ma Lacan non articola qui il versante femminile, evidentemente più complesso. Qui, nella via normale, avremmo una soluzione attraverso la tenuta del simbolico. Cosa succede quando la via simbolica zoppica cioè, secondo la nostra visione attuale, sempre? Ci può essere in primo luogo la modalità che apre la via del feticismo. Il bambino si identifica con la madre e fa la scelta fallica in sua vece, assume cioè al suo posto il desiderio per il fallo. Vediamo qui come Lacan sviluppi e complessifichi lo schema freudiano classico della perversione. Per Freud il bambino, notando la mancanza femminile, la sconfessa, la smentisce, è il meccanismo della Verneinung. Lacan non parla qui di diniego della castrazione, ma di un'identificazione attraverso la quale il bambino assume il desiderio in cui la madre si mostra deragliante. Elegge così un oggetto con valore fallico che viene innalzato al rango di feticcio, e sappiamo che può andare dalla scarpa, alle calze a rete, al topless, alla guêpiere o a mille altri addobbi o segni del corpo femminile, non ultimo la ricerca di particolari difetti, cicatrici o ferite. Il vantaggio della posizione feticista è che il rapporto con l’oggetto elettivo è tanto più soddisfacente in quanto l’oggetto è inanimato, e questo lascia tranquilli, sicuri di non avere delusioni, lontano dalle tempeste intersoggettive della relazione di desiderio, giacché l’oggetto inanimato non ha un desiderio proprio. C’è poi il fatto che, trattandosi di una relazione immaginaria, implica la specularità per cui possiamo vedere il feticista identificarsi con l’oggetto spostandosi dall’identificazione con la madre. Nell’istante in cui il feticista si identifica con l’oggetto perde però il suo oggetto primitivo, la madre, considerandosi per lei un oggetto distruttivo (pag. 80). Questa oscillazione – dice Lacan – questa diplopia caratterizza tutta la posizione feticista. Il caso di Sandy L’altra soluzione ancora possibile è quella fobica, e Lacan la illustra attraverso il caso di una bambina di due anni o meno, Sandy, descritta da una allieva di Anna Freud, Anneliese Schnurmann, che lavorava alla Hampstead Nursery, e che proprio per questo ha potuto osservare la bambina con frequenza quotidiana. Tutto comincia quando Sandy un giorno si sveglia urlando che c’è un cane nel letto e si fa fatica a calmarla: da quel momento Sandy sviluppa una fobia. Siamo durante la guerra, nel periodo in cui cadevano su Londra le V2 di Hitler. Il padre di Sandy è morto in un incidente stradale mentre prestava servizio militare. La madre lavorava inizialmente come impiegata nel consiglio comunale ma, trovando un po' noioso questo lavoro, lo aveva prima alternato con un servizio di ausiliaria alle contraeree, e poi aveva lasciato entrambe queste attività per diventare conduttrice di autoambulanze. La Schnurmann nota come alla madre di Sandy piacessero queste attività maschili, e come abitualmente indossasse l’uniforme con i pantaloni, pur essendo una madre molto dedita, che esprimeva un particolare affetto per Sandy, che era nata dopo la morte del padre. C’era tuttavia una certa aggressività nel modo che la madre aveva di trattare la bambina che aveva un riflesso nel comportamento stesso della bambina. La Schnurmann riporta poi gli eventi che ritiene possano essere correlati alla fobia, il primo dei quali è la presa di consapevolezza della differenza che passa tra lei e un maschietto. Crescendo in una nursery Sandy aveva evidentemente avuto diverse occasioni di vedere i maschietti spogliati, ma “the penny drops” quando vede un ragazzino del suo gruppo urinare nel vasino. Questa osservazione le capita per la prima volta in quell’occasione perché nel suo gruppo erano ancora tutti nella fase del pannolino. Dopo breve tempo Sandy tenta di imitare l’impresa chiedendo un vasino e mettendosi di fronte a questo. Non riesce, e ne è molto contrariata. Così si solleva la veste e dice “Bicki” che è una parola che usa di solito per indicare le cose desiderabili. Il secondo episodio significativo avviene quando, tre mesi dopo, la madre deve essere ricoverata in ospedale per un’operazione. La permanenza in ospedale dura tre settimane durante le quali la donna, che visitava la bambina quotidianamente, non può ovviamente presentarsi alla nursery. Quando riesce a tornare è molto mal messa, cammina con grande difficoltà appoggiandosi a un bastone . Visita Sandy per due sere, ma non può farle il bagnetto come di solito, poi deve di nuovo allontanarsi da Londra per la convalescenza. L’esordio della fobia di Sandy si verifica pochi giorni dopo la visita della madre. Questo caso offre un’osservazione preziosa poiché è a partire da esso che Lacan costruisce il primo nucleo teorico che svilupperà poi pienamente appoggiandosi al caso di Hans. Vediamo che qui subito Lacan mette in relazione la fobia con la problematica del fallo. La fobia – si domanda infatti – è conseguente alla scoperta dell’assenza di pene nella femmina? In un certo senso sì, anche se è stato necessario, perché si scatenasse la reazione fobica, un secondo tempo in cui la madre si assenta per via della malattia, e quando torna non è più la madre simbolica, quella dell’alternanza di presenza e assenza, ma è debole, con un bastone. C’è stata quindi primariamente la scoperta della mancanza fallica, ma ci è voluta anche la rottura del ritmo alternante di andare e venire da parte della madre. Da quando la fobia diventa necessaria come soluzione? – si domanda Lacan. A partire dal momento in cui anche alla madre manca il fallo. Perché? Perché a partire da quel momento la triade immaginaria zoppica, non è più possibile surrogare l’assenza simbolica del padre. Chi fa la legge? Dove stanno le regole? Da nessuna parte, ed è per questo che si rende necessario un oggetto simbolico – all’occasione il cane – che se ne faccia carico come surrogato. Occorre l’intervento di un elemento dotato di potenza in grado di giustificare l’assenza di ciò che è assente. Il cane svolge perfettamente questo ruolo. Da una risposta al motivo della mancanza: ciò che manca è assente perché è stato morso. In fondo capiamo qui molto bene il significato di piattaforma mobile che Lacan attribuisce alla fobia. Sappiamo infatti cosa succede se se la ricerca di un agente della mancanza incontra il vuoto, se la casella di questo agente manca nella struttura simbolica del soggetto: si scatena la catastrofe psicotica, tutto va a pezzi perché nulla tiene più insieme la relazione immaginaria. Se invece la struttura si gira verso l’isteria abbiamo la costituzione della metafora sintomatica. Negli ultimi anni Lacan non avrebbe parlato più del sintomo in termini di metafora, avrebbe piuttosto parlato di equivalenza tra sintomo e Nome del Padre, ma è una visione in diretta derivazione da quel che è posto in questo seminario. La struttura soggettiva può prendere ancora la via della nevrosi ossessiva, e in questo caso si costituisce una sorta di geografia mentale dell’evitamento. Se nel caso di Hans la geografia è quella del territorio reale, dove bisogna evitare i luoghi dove ci sono i cavalli, nella nevrosi ossessiva si crea una ritualità dello schivare, dello scansare, dell’eludere, del tenersi alla larga. L’ossessivo in questo senso è il campione del dribbling mentale. Nella perversione gli autori classici parlano della costituzione di un oggetto controfobico, che permette di trattare quel che la fobia rifugge. Nei termini di questo seminario possiamo vedere che se nella soluzione feticista il bambino si identifica con la madre per farsi carico al suo posto del desiderio del fallo, nella fobia questa soluzione è impedita, nel caso di Sandy infatti la madre è anche lei priva di fallo, e occorre chiamare in causa un agente esterno. Ma l’interesse del caso e il motivo per cui Lacan lo tratta in questo seminario è ancora in relazione alla conduzione della cura, per mettere in risalto la differenza rispetto all’orientamento realista di Anna Freud, per la quale le discordanze nella relazione si verificano nella misura in cui l’io è più o meno ben informato della realtà. Infatti è il seguito del caso che mette ben in risalto la differenza tra i due orientamenti nella conduzione della cura. La madre di Sandy infatti si risposa con un altro uomo, che è il fratello del marito morto. Quest’uomo ha un figlio maschio la cui presenza, dal punto di vista realistico annafreudiano, dovrebbe, come portatore del fallo, presentificare per contrasto la mancanza della bambina e provocare una ricaduta. Invece niente, tutto procede bene. E si capisce perché: oltre al fatto che la madre mostra di preferirla al ragazzo, è presente il padre che sostiene egregiamente la funzione simbolica per la quale era stato chiamato in causa il cane. La fobia non serve più perché non ci sono più la premesse della carenza simbolica rispetto alla triade immaginaria. Clinica ed etica Direi che questo lungo excursus dl Lacan attraverso le soluzioni possibili alla carenza simbolica mostra in modo esemplare i termini su cui si misura la clinica: prendere come metro la realtà e l’ideale armonia della relazione tra i sessi riduce la psicoanalisi a una sorta di pedagogia correttiva, accantonando la potenza delle sue risorse, la sua capacità di penetrazione nel nucleo dell’esistenza umana, la messa in questione non solo della patologia ma dei temi su cui la vita gioca le sue carte in una partita dove non c’è vittoria senza perdita, non c’è godimento che non sia intaccato nella sua pienezza, non c’è scelta senza l’infinita ricchezza di sfumature che nessun algoritmo può ricondurre a un numero determinato di passi, ed è in quesa prospettiva che la clinica della psicoanalisi si apre alla dimensione dell'etica. I riferimenti di pagina sono all'edizione italiana del seminario IV
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