di Marco Focchi L'esperienza di cui voglio riferire è iniziata più di dieci anni fa, nell'autunno del '91: è utile che dica due parole per inquadrarne lo sviluppo storico, giacché essa è fatta di diverse contingenze e si è trasformata progressivamente fino ad assumere la propria figura attuale. All'inizio mi era sta chiesta una consulenza limitatamente a due bambini autistici inseriti nella scuola con i quali, come si può immaginare, gli insegnanti si trovavano nella più grande difficoltà. Non voglio soffermarmi su questi casi, di cui ho già parlato in altre occasioni, e per i quali ci si può riportare ai testi pubblicati. Devo solo dire come la matrice della modalità d'intervento che nel seguito mi si è imposta, e che articola contesto famigliare e contesto scolastico, sia nata nel tentativo di far fronte alle difficoltà di gestione degli autistici in un ambiente, come quello scolastico, originariamente predisposto ad altri fini che non il trattamento delle psicosi infantili o dei diversi comportamenti sintomatici che i bambini possono manifestare. In un certo senso, in fondo, l'essenziale dell'intervento che cerco oggi di organizzare consiste in un uso improprio della scuola realizzato attraverso l'orientamento del discorso psicoanalitico.
Una cosa è infatti vedere bambini autistici in un'istituzione ad hoc, pensata in base ai concetti della psicoanalisi, altra cosa è vedere bambini autistici in un'istituzione che ha come finalità primaria l'apprendimento e dove gli autistici funzionano come il granello di sabbia nell'ingranaggio. Quel che succede di norma, non sempre ma il più delle volte, è che i genitori vengano a lamentare che i figli non imparano al passo con gli altri bambini. Abitualmente, infatti, i genitori dei bambini che ho visto attuano una radicale scotomizzazione della condizione dei figli. I genitori delle classi culturalmente più povere, in barba alle documentazioni diagnostiche fornite dalle ASL, che mi squadernano davanti agli occhi quando vengono ai colloqui, considerano i figli come poco più che degli ostinati, che non vogliono capire quel che spiegano loro spesso a suon di botte. Ma sono i casi meno gravi. Ho trovato maggiori difficoltà con i genitori del ceto medio, che considerano i figli come incompresi e guardano con diffidenza la scuola e i suoi rappresentanti, valutati inadeguati alle qualità del figlio. Ora non è facile insegnare a leggere e a far di conto a dei bambini autistici, e anche il personale qualificato che abbiamo a disposizione, insegnanti di sostegno che hanno seguito corsi di specializzazione, non è in grado di fare miracoli. Abbiamo attualmente in carico un bambino autistico di cui ho da poco visto la madre, che è medico: impossibile accennare a qualsivoglia idea di difficoltà del figlio. Il bambino, dice, è intelligente, solo un po' lento, ma grazie al suo insegnamento si metterà presto in pari. Lei infatti a casa integra il lavoro delle maestre con lezioni che il figlio deve sorbire praticamente a tempo pieno. Se fanno una gita al lago è l'occasione per spiegare la differenza tra l'acqua dolce dei laghi e quella salata del mare. Mentre le maestre stanno introducendo la classe ai primi rudimenti di biologia lei arriva annunciando che ha già spiegato al figlio la struttura della cellula e che lui ha capito benissimo, anche se non riesce a ripeterla per la sua flemma di linguaggio. Quando ho avuto il colloquio con lei mi ha raccontato che per sciogliere quel lieve torpore del figlio era stata indirizzata da uno psicoanalista. Dopo averlo incontrato e avergli parlato si è però resa conto che quel tipo d'intervento non faceva per lui, perché pretendeva di sanare traumi di cui non c'era traccia in suo figlio, e nessuno meglio di lei lo può sapere, perché, mi dice: "Sono medico, e sono io il miglior terapeuta di mio figlio". Non voglio, come dicevo, soffermarmi in particolare sul problema dell'autismo, che solo in una prima fase è stato il punto focale del lavoro. Porto l'esempio solo perché mi sembra emblematico del tipo di bricolage che impone il lavoro su patologie gravi in situazioni in cui non sono riconosciute tali e in un'istituzione che non ha come finalità l'obiettivo di un trattamento. L'esperienza con l'autismo mi ha suggerito però il modo di usare la scuola per supplire alle carenze che presenta il contesto famigliare. In un certo senso questa è anche una china naturale della scuola. Il passaggio dalla scuola materna a quella elementare costituisce un salto significativo per il bambino perché lo mette di fronte a esigenze e responsabilità nuove in un ambiente nuovo, ed è un fattore scatenante di tutte le problematiche latenti: l'ansia, le crisi di panico, le fobie, oltre alle classiche difficoltà di apprendimento, trovano terreno d'insorgenza nelle prime classi elementari. L'ambiente scolastico si trova così a funzionare come via di risoluzione compensativa, oppure come ulteriore blocco in cui si consolidano i sintomi. Stefano per esempio è un bambino piccolo di fisico e di età, è il più piccolo della classe e compirà i sei anni a dicembre. Ma è piccolo anche rispetto alla sua età, perché nei primi disegni che mi mostrano le maestre la figura umana è ancora rappresentata come cefalopode. Poche settimane dopo le cose sono già cambiate: disegna se stesso disteso sul letto nella sua cameretta in posizione un po' rigida, come sono i suoi movimenti, e circondato da oggetti tutti smisuratamente più grandi di lui. La figura non è più quella del cefalopode, ma quella di un bambino in un mondo un po' troppo grande per lui, che sta cominciando a domandarsi come affrontare. La semplice immersione nell'ambiente scolastico, il contatto con i nuovi compagni, la situazione più stimolante gli hanno dato una spinta di maturazione che prima gli mancava. Sonia invece è una bambina d'intelligenza normale, con tre fratelli maggiori che tutti hanno avuto problemi d'insuccesso scolastico. Le insegnanti mi chiedono di vederla perché non riesce a partire con la lettura e la scrittura. Se non si avvia subito c'è il rischio che l'impedimento iniziale porti a un accumulo di ritardo innestando una spirale negativa. La situazione non si sblocca fino a che non parlo con la madre, donna che a suo tempo aveva avuto ambizione di studiare senza averne le possibilità per la povertà della famiglia. E' bastato far emergere le aspettative paralizzanti che aveva proiettato sulla figlia, considerata l'ultima possibilità dopo il fallimento dei maggiori, per produrre di riflesso un esito sbloccante sulla bambina. Per Sonia la scuola aveva avuto l'effetto inverso che per Stefano: per lui aveva funzionato come propulsore, per lei aveva funzionato come catalizzatore delle angosce presenti nella relazione con la madre. Dopo l'iniziale richiesta di consulenza focalizzata sull'autismo, fu il caso che mi portò ad ampliare l'intervento su una cerchia di problemi sempre più ampia. Lo psicopedagogista precedentemente in servizio, infatti, lasciò l'incarico e mi fu chiesto di assumere tutta l'area dello svantaggio. Accettai non senza qualche esitazione, giacché si trattava di intervenire anche su una gamma di patologie, come per esempio la sindrome di Down, sulle quali non vedevo come far presa attraverso i concetti analitici. Ma la scuola imparò a utilizzare me e io imparai a utilizzare la scuola al di là delle richieste di servizio. Il lavoro è strutturato così: normalmente faccio all'inizio dell'anno un'osservazione in tutte le prime classi. Questo avviene verso metà ottobre, quando le insegnanti già si sono fatte un'idea dei bambini. Possono così segnalarmi i casi che presentano ai loro occhi qualche difficoltà. All'inizio veniva seguita in modo un po' rigido una prassi burocratica: dovevo occuparmi dei bambini "documentati", cioè quelli che vengono segnalati già alla scuola materna e inviati presso gli UONPIA (Unità Operativa di Neuro-Psichiatria Infantile e per Adolescenti) dove vengono presi in trattamento e forniti di documentazione clinica. Man mano le richieste delle insegnanti si sono fatte sempre più varie: c'è un bambino che non è segnalato ma sembra loro particolarmente depresso, o agitato, o aggressivo, o strano; ce n'è un altro che traversa un momento di crisi per contingenze famigliari; di un bambino sorge il sospetto che sia abusato, un altro sembra vittima di maltrattamenti; uno aveva un apprendimento normale e improvvisamente si blocca, un altro non si riesce più a contenere in classe. Senza che io abbia fatto nulla per sollecitarlo, salvo cercare di rispondere nella misura del possibile alle richieste, l'area d'intervento si è man mano allargata, e mi è anche capitato di essere chiamato perché un'intera classe non rispondeva più alla conduzione delle maestre e mostrava degli atteggiamenti di aperta rivolta: un tempo sarebbe stato considerato un problema disciplinare e si sarebbe fatto appello al direttore didattico, con i suoi normali strumenti di repressione, che vanno dal richiamo, alla predica alla sospensione; oggi viene interpellato normalmente lo psicologo e, all'occasione, dato che sono a disposizione io, lo psicoanalista applicato, che deve entrare in un terreno dove non è immediato pensare che i concetti guida possano essere l'inconscio, la ripetizione, la traslazione, la pulsione, ma dove appena s'incontrano gli intrichi e le asperità del luogo, ci si rende conto di che straordinaria bussola offra la nostra panoplia teorica. Consideriamo solo un sintomo di gran moda come il Disturbo da Deficit d'Attenzione con Iperattività (DDAI). Queste etichette fasulle hanno una tale capacità di creare entità immaginarie che un giorno alcune maestre mi hanno chiamato stupite per mostrarmi un bambino che era sì un po' distratto, ma stranamente non mostrava nessun eccesso cinetico. Il DDAI è l'esempio più evidente del processo di medicalizzazione dell'ambito disciplinare: sta avvenendo infatti una reificazione di quel che appartiene al campo della responsabilità soggettiva. In altri termini: i bambini che una volta venivano messi dietro la lavagna vengono oggi classificati DDAI e mandati dallo psichiatra. Lo psichiatra ha a disposizione uno strumento più potente della bacchetta sulle dita, perché ha il Ritalin con cui calmare le intemperanze dei più inquieti. La polemica sul Ritalin, che ha infiammato gli Stati Uniti e che si è accesa anche da noi, ci mostra le linee lungo le quali la psicoanalisi applicata, oltre alla propria peculiarità terapeutica, assume una valenza prettamente politica. La questione di fondo è: bisogna considerare l'individuo come entità a sé che può essere difettosa e sulla quale occorre intervenire correttivamente, con la farmacologia o con le tecniche di apprendimento, o bisogna considerare il soggetto nella sua relazione con l'Altro, e cioè il bambino nei molteplici intrecci in cui è implicato nella scuola e nella famiglia? Questo problema a mio parere non è solo teorico ma implica una precisa decisione politica da cui derivano conseguenze che è impossibile sottovalutare. Nella scuola la componente politica della psicoanalisi applicata prende particolare risalto se messa a confronto con tutte quelle tecnologie dell'apprendimento che si presentano con l'aura del pragmatismo e della rapidità proponendo soluzioni in un numero predefinito di passi, fatti i quali, se il bambino, come spesso succede, non si è mosso dalla sua condizione, viene considerato affetto da una forma del disturbo resistente alla terapia. E' impressionante la violenza di certi interventi che mimando le hard sciences puntano a un preciso obiettivo e si fondano su un progetto apparentemente chiaro, quando la mettiamo a confronto con il paziente bricolage della psicoanalisi applicata, che segue piuttosto la propensione delle cose. Ho visto un bambino psicotico di otto anni, con una famiglia di condizione medio-alta dove entrambi i genitori erano docenti universitari. Fin dall'inizio della scuola, poiché i genitori erano persone di cultura e tenevano particolarmente alla sua formazione intellettuale, il bambino era stato seguito con tecniche di apprendimento basate su cubetti, figurine, reticoli di lettere e di cifre. Era un bambino con comportamenti fortemente aggressivi e con una certa apparentemente inconsapevole capacità d'ironia: sapeva sventare i tentativi di approccio dell'insegnante di sostegno con la forza o con l'elusione. Mi domando cosa altro potesse fare: la scuola era in fondo l'unico luogo in cui era al riparo dal bombardamento nozionistico organizzato dai genitori. Ai quali non va mosso nessun rimprovero: erano persone straordinariamente ansiose e a loro volta bisognose di aiuto. L'obiettivo critico qui è la politica adottata con il bambino e promossa dagli esperti di cognitivismo che hanno seguito la sua "formazione". Naturalmente, dopo anni d'insistenza martellante, qualche minima abilità cognitiva elementare l'aveva acquisita: mi domando se scrivere qualche parola incerta e fare qualche conto meccanico fossero le priorità da scegliere per un bambino che viveva in un deserto comunicativo. Quando è dipeso da me, non solo per i bambini autistici, ma anche per quelli con grave ritardo legato a situazioni famigliari complicate, ho preferito snaturare l'essenza e le finalità della scuola privilegiando l'ispirazione di farne un luogo in cui potessero trovare una risposta diversa da quella data dall'Altro famigliare. Ho cercato di seguire l'idea di fare della scuola un luogo di supplenza, costituendola come un Altro in cui il bambino possa trovare le risorse simboliche ed emotive che non ha potuto avere in famiglia. Il punto di partenza è il concetto, per noi ormai familiare, di supplenza del Nome del padre, e più in generale di supplenza all'assenza di rapporto sessuale. Nella scuola però questa nozione di supplenza prende un'estensione inevitabilmente maggiore, anche se si tratta comunque di trattare la scuola come un sintomo. Per i bambini autistici è come costruire loro una stampella fatta, il più delle volte, di relazioni con gli insegnanti più sensibili. E' una stampella che li sostiene fino al passaggio alle scuole medie e che, purtroppo, non possono portarsi con sé, perché non c'è processo interiorizzazione: la costruzione di sostegno resta solo esterna, dipendente dall'ambiente. Con i bambini autistici è infatti difficile costruire quella dialettica tra Altro famigliare e Altro scolastico che permette che i problemi individuati e affrontati in contesto scolastico vengano capiti e rielaborati di riflesso anche in ambito famigliare. E' una strategia che ho trovato invece efficace in molti altri casi. Straordinariamente istruttivo in questo senso è stato per me il caso di Stefania. Nel primo anno di lei non mi era stato segnalato nessun problema. Alla fine dell'anno la madre aveva chiesto di parlarmi per esporre una difficoltà creata da un momento di chiusura che la bambina stava traversando: appariva spaventata e si attaccava a lei morbosamente. Attribuiva questa situazione a vari disagi di salute che la stavano tormentando, rinite, placche in gola, varicella, ricoveri ospedalieri, e che a suo parere la bambina faticava a superare. Il padre nel suo discorso, appariva debole, sfocato, lontano, apprensivo. Essendo ormai gli ultimi giorni di scuola tutto venne rimandato alla stagione successiva. L'anno seguente le maestre mi chiedono un'osservazione individuale su Stefania. Hanno constatato in lei quella che chiamano una grave regressione: la bambina non parla più con gli adulti e pochissimo con i compagni, ha una chiusura quasi totale della comunicazione. Legge solo se insistentemente e persuasivamente sollecitata, e quando si lascia convincere raccoglie l'applauso d'incoraggiamento dei compagni. L'apprendimento, fino allora normale, ne sta risentendo e rischia di bloccarsi. Stefania ha una sorellina di due o tre anni che apparentemente è tutto il contrario di lei, vivace ed estroversa. A scuola ha un rapporto privilegiato con una compagna, che appare particolarmente protettiva e materna con lei. Se deve dire qualcosa alle maestre lo sussurra nell'orecchio di questa compagna perché lei lo riferisca: ne fa insomma la sua portavoce. Ha paura degli spazi aperti e cade in preda all'angoscia quando la classe viene portata in cortile. Un giorno viene organizzata una gita fuori dalla scuola: lei non vuole andarci, pianta un capriccio con la madre che cede e la tiene a casa. La bambina è seguita allo UONPIA. Chiedo alle insegnanti se abbiano parlato con i terapeuti che la vedono e mi rispondono che sì, li hanno incontrati ma non ne hanno tratto alcun chiarimento: sono sembrati loro piuttosto disorientati e confusi e hanno fatto qualche accenno a una possibile diagnosi di autismo. Metto queste valutazioni sul conto delle relazioni spesso stizzose che intercorrono tra le insegnanti e il personale delle strutture sanitarie e domando di vedere la bambina. Stefania appare come una bambina spaventata e assolutamente inaccessibile. Fa tutte le cose che le chiedo di fare, disegna, prende dei giochi, mi segue, ma non dice una sola parola e non risponde a nessuna domanda. Dietro la sua aria spaurita sembra però abitata da una volontà di ferro. Di solito mi viene spontaneo, anche con i bambini più difficili, di creare una certa corrente di simpatia, e c'è sempre un momento in cui si sbloccano e riesco a farli ridere, a coinvolgerli in un gioco o a far loro raccontare qualche storia. Stefania è una sfinge impenetrabile, che mi tiene testa per più di un'ora con gli occhi sgranati senza neppure inclinare un angolo delle labbra. Non è affatto autistica, e non è neppure frenata dall'inibizione: semplicemente non vuole parlare e nessuno può costringerla a farlo. La settimana successiva chiedo un colloquio con la madre e, come una filigrana che appare solo guardandola in controluce, vedo delinearsi, nell'immagine della bambina spaurita che mi ripresenta, la figura di una bambina del tutto diversa, che è in grado di portare la madre all'esasperazione, che è sempre in agitazione, che corre avanti e indietro per casa senza un'attimo di sosta, che quando vuole qualcosa dalla madre riesce sempre a ottenerlo. Un giorno ha saltato tutta la mattina su una rete cigolante del letto fino a sfondarla e a farsi male. "Perché non l'ha fermata?" le chiedo. "Le ho detto di smettere -risponde - glie l'ho urlato tutta la mattina". "E Stefania non si fermava?". "No". "E allora lei cosa ha fatto?". "E cosa potevo fare? L'ho lasciata saltare". Capisco allora che Stefania ha il pieno controllo della situazione famigliare. Del padre non ci sono segni di presenza, la madre non è in grado di darle delle regole e la bambina la gestisce a suo piacimento, e anche l'espressione delle sue paure diventa un modo per controllare la madre. Abituata a questo totale dominio della situazione, dominio che le serve per contenere l'angoscia e per sopperire alle regole e ai limiti che nessuno le dà, la scuola deve essere sembrata a Stefania un ambiente più difficile, che non poteva circoscrivere con le stesse strategie adottate in famiglia. Ha capito però il punto vulnerabile della scuola, e quel che all'inizio è stata una ritirata difensiva è diventato il suo modo di dominare la nuova situazione. Se non vuole parlare nessuno può costringerla a farlo, e il suo silenzio mette in agitazione tutti, in modo che le redini ritornano in mano a lei. Cerco allora, in alcuni colloqui con la madre, di suggerirle dei modi per dare delle regole in casa a Stefania, mentre alle maestre suggerisco di non accettare più che Stefania comunichi attraverso la sua portavoce, e di non inquietarsi troppo se per il momento resta in silenzio, perché quando avrà qualcosa da chiedere lo chiederà. L'obiettivo è di rendere inutile il sintomo prima che si cristallizzi, cercando al tempo stesso di indurre nella relazione con la madre un modo adeguato di contenimento dell'angoscia. Per un periodo ho dovuto seguire da vicino le maestre e avere dei colloqui con la madre, ma nel giro di un paio di mesi Stefania ricomincia un po' alla volta a parlare e riprende il ritmo normale di apprendimento. Vediamo in questo caso un sintomo che nasce sul terreno scolastico, ma che non potrebbe essere affrontato esclusivamente nell'ambito della scuola. L'approccio della psicologia accademica a un problema scolastico si focalizza invece sul quadro scolastico e si basa generalmente sulla rieducazione percettiva o psicomotoria: si tratta di esercitare le abilità visuospaziali deficitarie. La nuova alleanza tra cognitivismo e neuroscienze poi vede quasi sempre a monte un danno neurologico. Il difetto è nel bambino, o nelle sue complessità neuronali, quindi bisogna insegnargli a riconoscere le situazioni in cui incontra la sua specifica difficoltà. Poi bisogna abituarlo a servirsi agilmente di sussidi che gli semplificano il compito e indirizzarlo a strategie diverse per affrontarlo. Infine occorre mostrargli come aggirare il problema e come far leva sui propri punti di forza. Immaginiamo per esempio Stefania immessa in un algoritmo simile: non parla quindi bisogna darle dei sussidi. Ma se li era trovati da sé i sussidi, eleggendo una portavoce. Le strategie diverse per lei erano di non rivolgersi più direttamente agli adulti. Quanto ai punti di forza aveva ben trovato modo di farli valere con il silenzio. Vediamo bene il grandangolo che ci apre la psicoanalisi rispetto a questo programma angusto. Tutta la differenza sta nel considerare il bambino e il suo problema, come fa il cognitivismo, e il bambino nella sua soggettività in relazione con l'Altro, come facciamo noi dal punto di vista della psicoanalisi. Naturalmente l'Altro è inconsistente, è una pasta sfoglia fatta di mille strati. Se si riesce però ad articolare un minimo di dialettica tra l'Altro famigliare e l'Altro scolastico, se si riescono a gestire ragionevolmente i conflitti maggiori presenti in ciascun contesto si vedono subito le cose andare meglio. La classe in aperta rivolta, per esempio, che menzionavo sopra, non rispondeva più alla guida delle maestre semplicemente perché le due insegnanti erano in conflitto tra loro. A questo si aggiungeva che il contrasto che le divideva si era trasmesso ai genitori, a loro volta divisi in fazioni rivali. Si produceva così un clima di reciproca squalifica che gettava il discredito ora sull'una ora sull'altra parte, ora su una maestra ora sull'altra, con baruffe imbarazzanti svoltesi davanti agli occhi dei bambini. Non si può trovare sistema migliore, per destituire la parvenza d'autorità istituzionale, che mettere i bambini in un conflitto di lealtà dove non sanno più a chi credere. Nessun intervento disciplinare avrebbe potuto riportare ordine se non mi fossi messo a sgarbugliare questo complesso nodo si bambini e di adulti infantilizzati. Anche qui si può apprezzare la sicura guida che la psicoanalisi applicata può offrire, per esempio semplicemente con il concetto di affrontamento immaginario, che non ha equivalenti nei concetti di gestione dei gruppi proposti dai teorici sistemici. Vorrei concludere dicendo come in fondo una teoria complessa come quella analitica, per via della quale, in particolare noi lacaniani, siamo stati spesso accusati di eccessiva intellettualizzazione e di scarsa praticità, offre una scatola di utensili assolutamente maneggevoli e ricca di risorse. Bisogna soltanto sapersene servire in modo non dogmatico. In questo senso abbiamo dei grandi vantaggi rispetto a una certa rigidezza applicativa che ho potuto vedere in altri quadri di riferimento. Il dibattito sugli standard nel nostro campo, appartiene gli anni Cinquanta, il che vuol dire a un passato remoto. Oggi, non solo nel Campo Freudiano, ma nelle punte più avanzate anche della psicoanalisi nordamericana, come sono per esempio le tendenze intersoggettiviste del postkohutismo, vige la parola d'ordine della sdogmatizzazione, con la mira di liberarsi dal macchinario rigido delle regole, del setting, della tecnica. Anche là, negli Stati Uniti che tanto erano in sospetto a Freud, si sta cercando di far leva sui principi. Sono principi un po' diversi dai nostri, ma sui quali è possibile dialogare, e mi sembra questo un segno di vitalità della psicoanalisi rispetto a tutte le altre tendenze nate con la vocazione di aggiornarla.
1 Comment
Maria Cecilia Monge Roffarello
1/9/2021 11:12:17 am
Interessantissimo articolo, condivido le sue argomentazioni. La ringrazio.
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