Conferenza tenuta a Plovdiv il 23 marzo 2019 Marco Focchi L’Istituzione in cui ho lavorato per molti anni, e di cui posso dare testimonianza, è la scuola. Si trattava di una scuola elementare, d’impronta piuttosto democratica, dove in alcune classi erano stati inseriti bambini autistici, che le insegnanti, comprensibilmente, avevano difficoltà a gestire. Quando mi fu chiesto di fare una consulenza e parlai con la direttrice di questa scuola, mi disse chiaramente cosa si aspettava da me: voleva che costituissi dei protocolli di intervento applicabili indipendentemente dalla persona che li metteva in opera. Mi chiedeva che fossero delle sequenze gestibili dalle insegnanti, fatte di alcuni passi in successione ordinata. Potremmo dire, in un certo senso, che voleva delle sequenze algoritmiche, cioè delle concatenazioni di elementi discreti eseguibili da chiunque. Il principio algoritmico
La sequenza algoritmica è il principio della scienza. Non è solo ciò che fa funzionare Google o che fa girare tutto il macchinario di internet, è qualcosa il cui principio troviamo già esposto in Cartesio nelle Regulae ad directionem ingenii, dove dice che per affrontare un problema occorre scomporlo nelle sue parti elementari, dopo di che, ridotto così ai suoi termini base, il problema può essere affrontato da chiunque. Non occorre un genio, dice Cartesio, una volta entrati nella logica del metodo e capito il modo di applicare le regole. Se consideriamo questo riferimento, questo punto di partenza, vediamo subito cosa stava sotto la richiesta della direttrice: i presupposti della sua domanda erano quelli del discorso scientifico: ridurre il problema a elementi base, gestibili indifferentemente da chiunque. C’è un grande principio democratico in questa prospettiva, un principio di eguaglianza insito nel metodo della scienza, anche se sappiamo che, per altro verso, la spinta della scienza è quella di una volontà di dominio che, attraverso la tecnica si esprime inizialmente come volontà di dominio della natura, ma che si traduce ben presto in dominio dell’uomo. Gestire una relazione umana con delle tecniche significa a priori concepirle in una logica di dominio, attraverso quello che nel nostro linguaggio chiameremo il discorso del padrone. Per questo siamo così fortemente critici nei confronti di tutto ciò che si presenta oggi come tecnologia psicologica: cognitivismo, comportamentismo, neuropsicologia: si tratta, con simili operazioni, per lo più di ridurre l’altro a oggetto di intervento, di immetterlo in una serie di procedure di condizionamento. Dobbiamo per altro verso considerare come nella modernità si sia costituita una sorta di coesione, di partecipazione, di sostegno tra l’istituzione e il discorso scientifico che ne rafforza le basi, e dove il discorso scientifico diventa uno strumento di governo che supplisce le funzioni a suo tempo svolte dall’autorità, che è andata invece man mano declinando. In fondo quel che mi chiedeva la direttrice era proprio questo: di non pormi come autorità, ma come una figura di esperto in possesso di ricette trasmissibili e utilizzabili senza ulteriori precauzioni che quelle contenute in ogni manuale d’istruzioni per l’uso. La richiesta era in ultima istanza di essere un rappresentante del discorso scientifico. La stretta alleanza tra burocrazia istituzionale e discorso scientifico D’altra parte che cos’è l’istituzione? È qualcosa che riguarda un sistema di norme, di consuetudini definite in relazione a determinate funzioni che hanno a che fare con l’interesse pubblico, per cui abbiamo le istituzioni scolastiche, quelle sanitarie, quelle giudiziarie, quelle militati, quella famigliare, e così via. La sociologia definisce però come istituzione un concetto più generale che riguarda, in senso ampio, dei modelli di comportamento nei quali è presente un elemento normativo in qualche misura vincolante. Certamente l’idea della normalità è per noi molto eloquente: rimanda al Nome-del-Padre come incarnazione dell’autorità che trasmette e fa valere la norma. Nel passaggio però dalla società tradizionale a quella moderna, con la crisi che l’autorità tradizionale ha incontrato, le istituzioni sempre più hanno avuto bisogno di qualcosa con cui surrogare l’autorità che andava via via affievolendosi, e hanno trovato nel discorso scientifico il surrogato pronto a fornire la solidità di una certezza che non aveva più bisogno di appoggiarsi alla parola d’autorità. È il motivo per cui le burocrazie istituzionali sono così permeabili al discorso scientifico, e ci hanno portato fino allo slittamento scientista prodottosi nella nostra contemporaneità in forma di pensiero unico, il pensiero unico dell’evidence based. È la vera ragione per cui la direttrice della mia scuola mi chiedeva di formulare dei protocolli. Vediamo già, nella prospettiva che stiamo disegnando qui, l’antitesi che rispetto a questa prospettiva si produce quando parliamo di traslazione nell’istituzione. Il fatto che l’istituzione sia così interamente permeata del discorso scientifico la porta a cercare modalità operative fondate sull’universale, e quindi valide per tutti, dove nella prospettiva psicoanalitica invece, sappiamo bene, puntiamo alla più estrema singolarità, perché la spinta, la forza, l’efficacia del nostro intervento nasce proprio dal legame di traslazione, che è un legame d’amore, che elegge cioè una persona estraendola dalla moltitudine, idealizzandola. Credere in un assioma/credere a una donna Uno dei miei libri s’intitola Il glamour della psicoanalisi. Glamour è un termine molto usato oggi per esempio nella moda e in genere nella società dello spettacolo. Ha però una radice antica e nobile, all’origine è infatti una parola scozzese che indica una sorta di incantesimo attraverso il quale si è portati a vedere le cose in una luce diversa da quelle in cui appaiono nel quotidiano commercio. Le cose si manifestano allora come innalzate, più belle, come appartenessero a una diversa dimensione magicamente dischiusa davanti a noi, e che conosciamo tutti se abbiamo se ci siamo innamorati almeno una volta. La dimensione dell’amore porta a un’estrazione dal tutti, a un’elezione, ed è questa particolarizzazione che l’istituzione non è in grado d’integrare. Il glamour è quel che gli inglesi chiamano un make-belive, riguarda la credenza, e capiamo allora le difficoltà di portare questo discorso nell’istituzione: nella misura in cui l’istituzione si solidifica sempre più sulle basi del discorso scientifico, sempre più ritiene di contrastare la credenza, e di muoversi in base a procedure operanti sul reale. In realtà l’istituzione, come ogni insieme umano, ha i suoi make-belive, le sue parvenze, perché quando esportiamo dal discorso scientifico il suo metodo per applicarlo alla soggettività costruiamo una nuova serie di idoli, che sono gli idoli propri dello scientismo. Bisogna però sollevare il problema di cosa significa credere. Nel discorso scientifico e in quello istituzionale vige lo stesso tipo di credenza, che è la credenza apofantica, ovvero la credenza che un’affermazione sia vera o falsa. Nel discorso scientifico, per esempio, Niels Bohr può credere nel dualismo onda-particella nello stesso modo in cui, nell’istituzione religiosa, il fedele crede nella resurrezione della carne. Non importa chi enuncia questi dogmi, o questi assiomi, importa la loro relazione con l’oggettivazione nel vero o nel falso. La credenza, in entrambi i casi, ha la stessa struttura apofantica, ed è indifferente al soggetto dell’enunciazione. Quando Lacan invece, nel seminario del 21 gennaio 1975, analizza la struttura della credenza e dice che, nella relazione d’amore, un uomo crede a una donna, presenta una figura della credenza completamente diversa. Un uomo crede a quella donna, quella che ha una parte nella sua vita, quella che ama. Ed è la stessa questione, dice sempre Lacan, per quanto riguarda un sintomo. Chiunque ci porti un sintomo ci crede, crede che voglia dire qualcosa. È chiaro che credere al sintomo implica già trovarsi in una dimensione di traslazione, perché soltanto in essa il sintomo è decifrabile. In mancanza di questa il paziente porta un sintomo e cerca piuttosto una ricetta, un rimedio per liberarsene, non chiede certo di farlo parlare. La dimensione dell’amore, e quella della traslazione, non presuppongono un vero o un falso oggettivati con cui confrontarsi, ma proprio il fatto di credere a un sintomo rende questo sintomo analizzabile, fonte veridica, come proprio il fatto di credere a una donna fa di lei l’interlocutrice e la testimone della nostra vita. Le istituzioni in cui ci troviamo generalmente a lavorare, quelle scolastiche o sanitarie – ma bisogna considerare anche una crescente richiesta da parte del settore giuridico – sono sempre più orientate verso il discorso scientifico. L’educazione, che na volta si chiamava pedagogia, è ora definita scienza dell’educazione. La medicina è ormai inserita in un dispositivo tecnologico sempre più perfezionato. Dobbiamo dunque ricavare il nostro spazio, i vacuoli dell’esercizio della psicoanalisi, ai margini morti dell’universalizzazione della scienza, dove si può valorizzare l’elemento relazionale, e in questo senso occorre vedere la curvatura che la traslazione introduce nel sistema. Una traslazione plurifocale La difficoltà che incontriamo nel lavoro in istituzione è che le persone vi giungono – date le premesse scientiste che abbiamo descritto, e che condizionano la domanda –portando i loro problemi non come sintomo in senso analitico, cioè come enigma da interrogare a da far parlare, ma piuttosto come lamento, come un disagio indefinibile, come effetti di ricaduta sul corpo, come disturbi di apprendimento quando si tratta di scuola, o come condotte incontenibili. L’istituzione chiede poi di risolvere questi problemi, e credo che la psicoanalisi nell’istituzione debba rispondere alle sue consegne. Il punto è come? Per quale via? L’istituzione scolastica, per esempio, a volte non lascia tempo. Un bambino bloccato nella lettura deve smuoversi nei primi mesi della prima classe, altrimenti il ritardo si cristallizza e diventa incolmabile. La traslazione prevede prevede invece una via lunga. Sappiamo che quando Franz Alexander ha formulato, tra i primi, l’idea della psicoterapia breve, una delle sue preoccupazioni era quella di ridurre la traslazione proprio per permettere la brevità e per non indugiare nel legame duraturo che la traslazione produce. Io, stando alla mia esperienza, non credo che si tratti di ridurre la traslazione. Si tratta piuttosto, nell’istituzione, di gestire una traslazione che è plurifocale, quindi senz’altro più complessa di come lo incontriamo nella relazione analitica in senso classico. Ci sono nell’istituzione diversi piani della traslazione. Per esempio a scuola c’erano movimenti il più delle volte positivi e altre volte negativi con il corpo insegnante. C’era poi un asse privilegiato con la direttrice. C’erano diverse modalità di instaurare una relazione con i genitori che passava ed era mediata però prima di tutto attraverso la relazione con gli insegnanti. E poi c’era la relazione con i bambini. La relazione con i genitori e con i bambini era la base, era il terminale per cui era richiesto l’intervento. Sarebbe però stato impossibile far funzionare una relazione con i genitori e i bambini senza tenere conto delle diverse componenti della scuola. C’è quindi una maggiore complessità di cui tenere conto: la traslazione nella relazione analitica è come una partitura per pianoforte, dove ci sono solo due chiavi, quella di violino e quella di basso, mentre nell’istituzione ci troviamo con una partitura per orchestra, dove le chiavi si moltiplicano, e bisogna tenere conto dell’insieme. Nell’istituzione sanitaria per esempio non possiamo considerare semplicemente la traslazione con il paziente che ci troviamo di fronte. Dobbiamo considerare la relazione con i medici, con gli infermieri, con il personale amministrativo. C’è una rete di persone in qualsiasi struttura che deve essere gestita, e che viene amministrata in genere con criteri politici, di politica aziendale, e per mezzo di rapporti gerarchici. Viene così governata attraverso la struttura del discorso del padrone. La nostra visione, prendendo la prospettiva psicoanalitica, rovescia questa impostazione, perché dobbiamo tenere conto dei legami cercando di staccarli dal quadro immaginario in cui entrano in gioco rivalità, aggressività erotizzata o legami privilegiati. La prospettiva psicoanalitica permette di allargare la visione, di purificarla dalla trama immaginaria in cui in genere sono impigliati questi contesti, e permette di lavorare sul lato opaco, non visibile, che è presente senza potersi dire, che riguarda l’erotismo e la morte, cioè il reale che il teatro istituzionale lascia necessariamente fuori dai propri quadri, senza con questo poterlo mai neutralizzare.
2 Comments
Stefania Grasso
6/5/2019 12:12:38 pm
La sua analisi e le sue valutazioni corrispondono esattamente ai miei punti di vista e o approcci e o teorie sviluppate attraverso la pratica.
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Marco Focchi
6/5/2019 04:49:56 pm
Grazie a lei per la sua attenzione. Fa piacere sentire i propri punti di vista condivisi e confermati da altre esperienze.
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