Intervento alla tavola rotonda che ha avuto luogo il 14 marzo 2014 intorno al libro di Marco Focchi "Sintomi senza inconscio di un'epoca senza desiderio". Oltre all'autore erano presenti Marisa Fiumanò, Federico Leoni, Roger Litten, Isabella Ramaioli. di Marco Focchi Ringrazio molto della straordinaria e ricca lettura che gli oratori presenti al tavolo hanno fatto del mio lavoro, a partire dalla chiara presentazione che ne ha fatto Isabella Ramaioli. Ci sono molte più domande di quelle a cui posso rispondere nel breve tempo che mi è dato, e le prenderò senza seguire l’ordine in cui sono venute. Mi è più facile forse partire dall’ultima, che interrogava il titolo del mio libro. La domanda si connette per un verso con i primi interventi, che riguardano il sintomo e gli aspetti clinici che ho cercato di toccare nel mio lavoro, e per altro verso con quello che diceva Federico Leoni sulla possibilità di fare dell’ostacolo una risorsa che, al di là di tutto quello che riguarda l’aspetto conoscitivo o interpretativo, è quel che sta al centro dell’operazione analitica. L’aspetto operativo dell’esperienza psicoanalitica consiste nel risvegliare le potenzialità del soggetto, nel prendere l’ostacolo non per aggirarlo, ma per utilizzarlo come propulsore. Partendo dal titolo, credo potrebbe essere utile cercare di vedere la connessione che c’è tra “sintomi senza inconscio” e “un’epoca senza desiderio”. Forse nel libro non l’ho illustrato abbastanza ma, in effetti, il titolo si dà dopo aver scritto il libro, o almeno per me è così, in modo tale che il titolo diventa più che altro un programma del lavoro che verrà poi.
L’idea che sta in “sintomi senza inconscio” è stata ben illustrato dai primi due interventi: per un verso c’è un aspetto non soppressivo del sintomo nell’operazione analitica. Sappiamo bene infatti da Freud che il sintomo è una risorsa, è una modalità che il paziente trova per tamponare le proprie falle, gli inciampi, gli aspetti traumatici che possono emergere. Il sintomo quindi è già una prima soluzione, e non possiamo nell’analisi togliere questa soluzione. Dobbiamo piuttosto fare in modo che diventi meno difficoltosa, meno onerosa, che non sia una fonte di sofferenza, dobbiamo quindi trovare piuttosto l’aspetto creativo del sintomo. E in questo mi piaceva molto l’idea di Marisa Fiumanò che ha letto nel mio lavoro una torsione. Mi sembra una lettura efficace perché in effetti bisogna arrivare a una torsione, come quella del nastro di Möbius. È una figura percorrendo la quale non si varcano delle soglie. Quando parliamo di operazione analitica, la mitologia hollywoodiana della psicoanalisi, i molti modi in cui la psicoanalisi è stata rappresentata nel cinema, fanno pensare che si arrivi a un certo momento in cui s’incontra una sorta di rivelazione, una sorta di illuminazione, forse non sulla via di Damasco, ma sulla via che ciascuno sta percorrendo, e questo porterebbe a varcare una soglia, a superare una frontiera soggettiva. Non è proprio così in realtà che le cose funzionano, anche se a volte sì, a volte può succedere. Direi però che non è la regola, non è neppure quel che accade con maggiore frequenza. Quel che si verifica piuttosto è una attraversamento silenzioso, un percorso per cui si parte da un lato del nastro di Möbius, che può essere il lato sintomatico, quello che spinge una persona a venire in analisi, quello per cui sta male, dove ci sono i problemi di cui si vorrebbe liberare. È chiaro che la richiesta della persona che viene in analisi è di essere liberata dal sintomo, ma il percorso analitico la porta a trovarsi, senza essersene accorto, senza aver varcato nessuna frontiera visibile, dall’altra faccia del nastro, dall’altro lato. E l’altro lato è quello in cui il sintomo non ostacola e in cui, per riprendere i termini che utilizzava Federico Leoni, è riportato al suo momento di evento. Il sintomo è qualcosa che può cristallizzare le dinamiche soggettive, e si tratta quindi di liberare il suo potenziale di evento, di sciogliere il cristallo. E l’immagine di un passaggio da un lato all’altro del nastro di Möbius mi sembra renda bene l’idea di un passaggio che non varca frontiere. Veniamo ora a questa definizione di “sintomi senza inconscio” che è, in fondo, il modo in cui sempre si presentano i sintomi, perché se fossero già sintomi interrogati, entrati in un processo di elaborazione, non ci sarebbe bisogno di chiedere l’aiuto di qualcuno per poterli sciogliere, per stemperarli, per interrogarli. Il primo compito dell’analisi è quindi di far sì che i sintomi diventino interrogabili. È vero però che nella modernità – e con questo intendo negli ultimi anni – sempre più, sempre più ci troviamo negli ultimi anni ad avere a che fare in particolare con sintomi che si presentano difficili da interrogare. Mentre i classici sintomi freudiani – le manifestazioni più eclatanti dell’isteria, i fenomeni di conversione, i grandi rituali ossessivi, come quelli dell’uomo dei topi – erano sintomi che già si offrivano dal lato per cui erano interrogabili, dal lato del loro significato inconscio, oggi non succede più così, o almeno non è il caso che si presenta con maggior frequenza. Possiamo dire che questo succede per effetto della psicoanalisi stessa, per effetto della storia della psicoanalisi, che è penetrata, si è divulgata, che è conosciuta, che ha già percorso un tratto nella coscienza delle persone, un tratto di cui dobbiamo tenere conto quando un paziente viene oggi a chiedere il nostro aiuto. Oggi conosciamo quindi quelle che abbiamo chiamato, le nuove forme del sintomo, che in effetti sono le nuove forme espressive del sintomo. Tutto cambia nella storia, il linguaggio cambia, il modo di raccontare cambia, i romanzieri non raccontano oggi come raccontavano nel ‘800. Nessuno scriverebbe oggi come Balzac, anche se Balzac lo leggiamo ancora oggi, e ci parla, ed è grandissimo. Nessuno però oggi può scrivere come Balzac, e anche il romanzo nevrotico non è più scritto nello stesso modo, intendo il famoso romanzo familiare del nevrotico. Il romanzo familiare del nevrotico, come lo raccontava Freud, aveva un carattere narrativo affine a quello del romanzo ottocentesco. Il romanzo contemporaneo non è più così. Non ha più inizio, svolgimento, conclusione. È molto più a macchie di leopardo, a tratti, con descrizioni che a volte prendono il posto dell’azione. È un po’ come la differenza che passa tra il film hollywoodiano narrativo e, per esempio, i film di Godard, che sono fatti di falsi raccordi, di scene che hanno una concatenazione lasca, di montaggi non narrativi. E oggi è un po’ così anche nella clinica, e se prendiamo i sogni, per esempio, pochi sono quelli che hanno uno sviluppo narrativo, abbiamo più sogni a spot, sogni che apparentemente rispecchiamo la quotidianità, costruzioni non tanto surrealiste, come quelle di cui parlava Lacan, ma il più delle volte iperrealiste. Tutto ciò fa parte del modo in cui i sintomi si manifestano attraverso il linguaggio contemporaneo, che non è di una narrazione unificata, ma di una dispersione. C’è quindi una trasformazione del modo espressivo dei sintomo, e anche una disgregazione, in fondo, delle forme classiche attraverso cui il sintomo conteneva le angosce, i moti pulsionali. Possiamo dire che, per certi aspetti, siamo in un momento in cui il sintomo non tiene più la propria funzione, perché l’interessante è vedere il sintomo come esercizio di una funzione, non come disfunzionamento. Nel discorso medico il sintomo è un disfunzionamento, riguarda qualcosa che non va e che è da rimettere a posto. Noi usiamo le stesse parole della medicina, perché Freud era medico e il vocabolario che ha costruito partiva dalla medicina, ma le usiamo in un contesto che ne trasforma completamente il significato. Il sintomo è quindi qualcosa che ha una funzione, e la sua funzione, in ultima istanza, è di contenere l’angoscia. Nel momento in cui, come oggi succede, il sintomo si trasforma, si trasforma quindi in modo radicale, e si perde il rapporto con la forma, e con la messa in forma dell’angoscia, emerge allora quella particolare particolare manifestazione della contemporaneità che è l’attacco di panico, un’angoscia non contenuta da nessuna configurazione sintomatica che si presenta all’improvviso, come colpo di fulmine, anche se poi quando ci si lavora si vede il lungo percorso che ha fatto prima di arrivare a scoppiare fuori. C’è, possiamo dire, una storia del sintomo. Per un periodo, fino a una decina di anni fa, il sintomo più evidente era l’anoressia-bulimia, era questo il sintomo per eccellenza. Le modelle magre facevano da riferimento identificativo per le ragazze che volevano diventarlo altrettanto, le modelle grissino facevano furore. Poi il problema maggiormente diffuso è stato l’attacco di panico, e a lungo le richieste di aiuto sono venute per lo più da persone con questo tipo di manifestazioni, che si trovavano quindi in situazioni di emergenza. Oggi c’è qualcosa di ancora diverso, e il sintomo che primeggia è forse legato piuttosto alle situazioni relazionali: crisi di coppia, partner che non funzionano, rapporti genitori-figli che deragliano. Questo è interessante perché ci mostra la difficoltà a costituire l’altro come partner-sintomo. L’altro partner-sintomo è quello che viene a supplire alla mancanza, è quello a cui posso appoggiarmi, il partner sintomatico è, in fondo, il partner che va bene, perché è complementare ai miei problemi. Si delinea oggi una difficoltà a costituire l’altro come partner-sintomo, per cui quando viene una coppia che ha dei problemi di coppia, generalmente questi vengono negati come problemi di coppia. Può essere che il marito dica che è la moglie che è da aggiustare, e la moglie dice di no, che è il marito è da rimettere a posto. E se non è un partner è un figlio. Da aggiustare è sempre l’altro. Se è sempre così è perché l’altro in questa relazione non riesce a svolgere la funzione di barriera, di ciambella di salvataggio sintomatica. Questo corrisponde in effetti all’instabilità delle situazioni relazionali contemporanee che, se vogliamo prendere un riferimento noto, è l’idea della vita liquida, dell’amore liquido, questa liquidità che è diventata un marchio di fabbrica di Bauman. La liquidità di cui parla Bauman è semplicemente l’idea che le situazioni contemporanee cambiano con una tale rapidità che gli agenti coinvolti in queste situazioni non riescono a creare procedure per trattarle prima che queste di nuovo cambino. Non si riesce a stabilizzarsi in una situazione. Questo è il nuovo orizzonte in cui si configurano le patologie dell’epoca della velocità. È chiaro che in una trasformazione così continua, così rapida, anche la politica, per prendere il tema che suggeriva Roger Litten, diventa una politica della velocità, e oggi in Italia lo vediamo chiaramente: la figura emergente si propone come un politico della velocità. È necessario che nel mondo liquido, dove le configurazioni, variano continuamente prima che possono stabilizzarsi delle procedure, ci sia qualcuno che entri in queste situazioni con una rapidità maggiore di quella della loro variazione. E questo evidentemente cambia anche le figure di riferimento d’autorità. Lo notava molto bene Ilvo Diamanti in un articolo recente su “La repubblica”. La richiesta di autorità è fatta non più alle tradizionali organizzazioni della politica, i partiti, ma alle persone. È chiaro perché. In un’epoca in cui la politica deve diventare velocità, la procedura di costruzione decisionale che c’è in un’organizzazione come un partito è molto più lenta di quella appartenente a una figura carismatica che apparentemente può decidere con uno schiocco di dita saltando gli ostacoli burocratici delle formazioni tradizionali. Questa è la configurazione in cui ci muoviamo, e questo porta anche a un diverso modo di operare della psicoanalisi. Il modo classico è l’interpretazione, e interpretare vuol dire entrare in un gioco di sostituzioni: tu parli di ombrello ma in realtà è il fallo, tu t’innamori di questa donna, ma in realtà volevi tua madre. Tutto quel che si presenta nella vita attuale è una sostituzione, la rappresentazione di qualcosa che abbiamo incontrato nella vita arcaica. C’è un passato modellizzante, la serie originaria diventa il calco dentro il quale deve forgiarsi la serie attuale. Questo implica una gerarchia, il riferimento a un codice originario, edipico, o a un codice fatto di oggetti fantasmatici buoni o cattivi. Abbiamo diversi codici nella storia della psicoanalisi, dove comunque sempre qualcosa di originario diventa modello per l’attualità, per quel che succede nel presente. Questo modo di vedere non corrisponde completamente a quel che incontriamo nella realtà della clinica. Incontriamo piuttosto serie che sono diverse, ma non gerarchizzate, e quindi non si tratta più tanto di giocare sulla funzione della rappresentazione, che è un rapporto tra originale e copia, ed anche è per questo che parlo di sintomi senza inconscio. Sintomi senza inconscio è un’espressione che ho adottato. Si è espressa così una collega argentina in una giornata di lavoro a Parigi, definendo così i sintomi della contemporaneità, come sintomi senza inconscio. Mi è sembrata un’ottima definizione perché in effetti sono sintomi che non entrano nel gioco della rappresentazione. Se il sintomo classico era pensato una metafora, qualcosa che si sostituisce qualcos’altro che si è nascosto, i sintomi contemporanei non sono così, sono piuttosto sigle di un movimento pulsionale che non entra in un gioco di sostituzioni. Il sintomo allora non sostituisce qualcos’altro, e non è un supplente che può essere tolto quando torna il titolare, come nella lettura freudiana classica. Giochiamo piuttosto su delle risonanze, o cerchiamo i tracciati che il godimento lascia nel corpo. In molte situazioni diventa meno importante l’aspetto conoscitivo interpretativo, fondato sulla storia del soggetto, che non il lavoro si queste serie parallele, non gerarchizzate, che sono tracciati pulsionali sul corpo. Accanto alla storia del soggetto dobbiamo considerare la geografia del godimento. Vorrei ora spiegare la connessione tra i “sintomi senza inconscio" e “l’epoca senza desiderio” perché in effetti il desiderio ipoattivo, come lo chiamato i manuali diagnostici, la carenza di desiderio, l’abbassamento della tensione desiderante era tradizionalmente un problema femminile. Sappiamo la storia della moglie che si sottrae ai rapporti perché non ha voglia, o perché troppo spesso ha un’”emicrania”. Oggi come oggi l’assenza di desiderio si è molto democratizzata, ed è molto più presente anche nel mondo maschile. Evidentemente questo deriva anche dalla ridefinizione in corso tra i ruoli maschile e femminile. Chiaramente è l’indice di una difficoltà del ruolo maschile, in un mondo dove la femminilità non sta più al posto che le era assegnato. Tutto allora si mette in movimento, e interferisce con le funzioni del desiderio. Per esempio, da che è stato coniata la diagnosi di desiderio ipoattivo e da quando questa etichetta è entrata nei manuali diagnostici, abbiamo visto nascere associazioni che rivendicano l’asessualità, rivendicano cioè di non provare il desiderio, il che vuol dire necessariamente che non abbiano rapporti, ma che non ne hanno il desiderio e non sentono questo come una patologia. Parlare di “epoca senza desiderio” è quindi un modo di parlare anche di questo. Cosa intendiamo nella psicoanalisi come desiderio? Intendiamo il desiderio inconscio. Ed è proprio per questo che il desiderio va insieme all’interpretazione. L’ultimo seminario uscito di Lacan, “Il desiderio e la sua interpretazione”, mette insieme questi due termini, ma perché sono termini che vanno insieme elettivamente. Se il desiderio è desiderio inconscio è perché il desiderio chiama l’interpretazione, la richiede in modo essenziale. Nell’epoca in cui i sintomi si presentano senza inconscio è chiaro che anche il desiderio cede terreno. Dove i sintomi non si prestano all’interpretazione è perché, in fondo, il desiderio di sfila dalla dimensione sintomatica, il sintomo non viene più a surrogare un desiderio rimosso, viene a siglare una sorta di godimento che a volte può essere maligno, mortale. Un altro modo di leggere l’idea di epoca senza desiderio, prendo i suggerimenti letterari che mi ha dato Federico Leoni, è quello della narrazione distopica. La narrazione distopica per eccellenza è quella di Orwell in “1984”, o di Huxley con “Il mondo nuovo”, di Auden in una bellissima poesia “Il cittadino ignoto”, che è analogo al milite ignoto, perché il milite ignoto è quello che muore senza atti di eroismo, è il contrario, per esempio, di Enrico Toti al quale manca una gamba ma cerca egualmente di arruolarsi, e muore lanciando la sua stampella. Il milite ignoto muore anonimamente. Il cittadino ignoto, in modo analogo, è quello che è sempre andato in fabbrica, ha fatto il suo lavoro, ha letto i giornali, ha creduto ai giornali, ha letto la pubblicità ma non ne è stato disturbato, ha sempre avuto una famiglia regolare, una moglie sola, e poi, alla fine della poesia, Auden si domanda: ma era felice? Era libero? Queste domande sono assurde, si risponde. Se ci fosse stato qualche problema, ne saremmo stati informati. Tutto quel che si riferisce al desiderio, a un’aspirazione, è qualcosa che disturba il buon funzionamento del sistema. Il desiderio non deve essere perché disturba il funzionamento, e la narrazione distopica tante volte ci presenta proprio la situazione in cui l’amore è proibito. Pensiamo a Metropolis di Lang, pensiamo ad Alphaville di Godard, pensiamo a Quintet di Altman, film che mostrano mondi distrutti o devastati da qualche catastrofe, dove gli uomini vivono in una bolla uterina, una specie di hikikomori universale, e la vita è dominata dalla tecnica, vigono regole o di decimazione, come ne “La fuga di Logan”, di Michael Anderson, per esempio, o con regole agghiaccianti dove solo l’incombenza della morte diventa uno stimolo per una speranza nel futuro, come in Quintet. La contrapposizione è tra i sentimenti e il mondo della tecnologia, una specie di automatismo che deve funzionare senza interferenze – qualcosa che conosciamo, per altro verso, come automatismo mentale, da Clerambault, e come automatismo psicologico da Janet. Sono i funzionamenti dell’automatismo che precludono la messa in gioco del desiderio. Direi che questo è il modo in cui possiamo vedere un legame tra i sintomi senza inconscio e l’epoca senza desiderio, perché, in fondo, viviamo in un’epoca che collega questi due versanti. In un tempo che pretenderebbe di essere senza ideologie, c’è un’ideologia schiacciante che è quella dello scientismo, ed è l’ideologia di un funzionamento senza intoppi, di superperformance, di un ideale del corpo perfetto. In molti settori, in molte sfaccettature vediamo quest’aspirazione a un funzionamento senza inciampi e senza interferenze. Non è più tanto la normalità il problema, ciascuno può anche essere a modo suo, ciascuno può avere la propria via. tutto è personalizzabile. Conosciamo anzi una modulizzazione e una personalizzazione estrema degli oggetti. Potete farvi fare un’auto come volete, con tutti gli optional che rispecchino i vostri sfizi, attraverso internet individuano subito i vostri gusti, nei siti di vendita libri vi propongo tutti i libri che davvero voi volete, perché sanno trovarli davvero, con qualche algoritmo la cui magia ci sfugge. Ma il punto è che in questo funzionamento in cui tutto deve girare senza intoppi, si verifica lo schiacciamento del desiderio. L’ideologia scientista è l’ideologia che annulla il desiderio, è dove il desiderio non deve interferire con l’automatismo e dove la tecnica che ha una soluzione per tutto. La psicoanalisi cerca invece i problemi, e i problemi sono tali se non hanno soluzione. I problema che ha la soluzione è quello fatto di equazioni. L’equazione ha già di partenza la soluzione, come nei problemi che imparavamo alle elementari: l’ortolana vende le mele tanto al chilo, quanto spende e quanto ricava. La soluzione è già nei dati di partenza. I problemi veri sono quelli che non hanno una soluzione, ma che hanno un trattamento, hanno uno svolgimento, hanno uno sviluppo, hanno una torsione, ritorno su questo termine che mi piace. Bisogna trovare la torsione giusta perché il problema diventi produttivo, perché il trattamento analitico renda produttivo il problema e non lo annulli in una soluzione predeterminata.
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