![]() Relazione presentata al Congresso AMP di Comandatuba nell'agosto 2004 di Marco Focchi La definizione del setting attraverso gli standard appartiene a una fase storica in cui gli psicoanalisti, negli anni Cinquanta, si sono sentiti costretti a precisare l’identità della psicoanalisi: hanno dovuto infatti definirne i contorni rispetto alle variazioni portate dalle forme nascenti di psicoterapia, prima tra queste la psicoterapia breve di Alexander. Possiamo considerare superato questo passaggio storico in cui l’identità della psicoanalisi è fissata attraverso la definizione degli standard. Lo dimostra, per esempio, la tolleranza istituzionale nei confronti degli orientamenti intersoggettivisti, che prendono di petto, con la loro critica, tutti i cardini classici della pratica psicoanalitica: dalla neutralità, all’anonimato dell’analista, al posto da dare alla realtà nella cura. Naturalmente la mainstream della formazione istituzionale in ambito IPA continua a funzionare in base agli standard, ma si tratta del residuo fossile di una battaglia che non ha più vera ragione d’essere. Il dibattito sul setting ha però reso evidente la concezione dell’inconscio che fondava la pratica in quegli anni: un inconscio pensato come un deposito di fantasmi regressivi da superare per avviarsi verso la soluzione della normalità. L’esperienza psicoanalitica viene così descritta con immagini come quella, dovuta a Reich ma assolutamente pertinente alla pratica della psicologia dell’io, di un nastro di registratore che si riavvolge a rovescio. E’ un’immagine che esprime l’idea di un percorso da fare a ritroso fino in fondo per mettere in grado il paziente di prendere lo slancio e fare il balzo avanti in direzione della maturità. La costruzione concettuale che sostiene quest’idea poggia sulla prospettiva evolutiva articolata nella coppia regressione-progressione. Su questa base il setting classico ha la precisa funzione di favorire la regressione per mettere l’inconscio al lavoro. Naturalmente si tratta di vedere cosa produce l’inconscio una volta messo al lavoro nella macchina taylorista del setting standardizzato così come viene formulato dalla psicologia dell’io. Credo che in questo senso vada presa sul serio la nozione di lavoro, che è ubiqua nel testo di Freud: si parla di Traumarbeit, di Witzarbeit, di Trauerarbeit, di Verarbeitung, di Bearbeitung di Durcharbeitung. Sono termini, questi, che indicano principalmente la trasformazione tra gruppi di pensieri, la sostituzione tra rappresentazioni, gli scambi tra contenuto manifesto e contenuto latente, gli spostamenti e gli intrecci tra catene di rappresentazioni. Si tratta di aspetti che riguardano per lo più il versante semantico dei processi di pensiero consci e inconsci. Bisogna però notare che Freud parla di lavoro anche in un altro senso, quando ne usa il concetto per definire la pulsione. La pulsione, dice infatti, costituisce la misura del lavoro richiesto dalla vita psichica. Qui non sono più in gioco solo le rappresentazioni e i loro contenuti semantici, quanto piuttosto il costo necessario per ottenere il soddisfacimento. Ne L’interpretazione dei sogni troviamo poi un termine particolare che Freud impiega per definire il sogno della monografia botanica: Gedankenfabrik, una fabbrica di pensieri, una fabbrica la cui attività è dipinta con l’immagine goethiana del tessitore: con un colpo muove mille fili, fa volar le spole, crea mille combinazioni. Cosa esce da questa fabbrica dove è all’opera quello che Lacan definiva il lavoratore ideale, l’inconscio, che realizzerebbe il sogno di ogni capitalista, giacché produce ininterrottamente giorno e notte? Quel che esce dalla fabbrica dipende, come sempre, dall’organizzazione del lavoro, e nel nostro caso l’organizzazione del lavoro è il tipo di setting in cui il lavoratore viene inserito. Il setting standardizzato della psicologia dell’io, come la fabbrica fordista, che separa il lavoro dalla vita e le operazioni materiali dalle decisioni, si sforza quanto più possibile di creare le condizioni in cui l’inconscio si delinei in un’atmosfera rarefatta, disgiunta dalla realtà quotidiana. La regola fondamentale in questo caso, come ha ben mostrato Graciela Brodsky nella sua conferenza di Barcellona, funziona producendo senso. Se si favorisce il lato che opera con le sostituzioni e le connessioni tra rappresentazioni, l’interpretazione semplicemente rovescia, restituendone la cifra in chiaro, il lavoro di criptazione realizzato attraverso le trasformazioni tra gruppi di pensieri. Per questo occorre dilatare il tempo al fine di consentire che le associazioni seguano il loro corso accumulando senso. L’organizzazione del lavoro prevista dal setting standardizzato funziona in base a un modello secondo le linee della programmazione. Il presupposto è ci sia un inconscio già dato, costituito come un deposito di senso nascosto che si tratta di rivelare. Bisogna allora procedere lungo strati successivi, in direzione di una profondità sempre maggiore, senza saltare passaggi - è la via della regressione - per risalire poi man mano alla superficie. Il setting funziona conformemente a un modello di pianificazione che deve preservare dalle sorprese: non si incontra nulla di imprevedibile. Tutt’al più ci si trova a dover affrontare una certa resistenza: se l’analista sa già cosa c’è nei depositi di senso dell’inconscio deve solo lasciar tempo al paziente di accorgersene, di convincersene e di farsi all’idea. Incontriamo resistenza con qualcuno, di solito, quando vogliamo indurre in lui un nostro punto di vista preacquisito. L’organizzazione del lavoro prevista dal setting lacaniano (credo non dobbiamo avere paura di usare quest’espressione se ne abbiamo ben fissato il concetto) non si fonda su un modello, che per definizione si applica a una realtà ad esso esterna, né sulla programmazione, ma piuttosto sul discorso e sull’occasione. Il presupposto è che non ci siano scorte di senso a cui andare ad attingere, e che la produzione avvenga just in time. È una produzione snella, alleggerita dall’ingombro del senso. Non partiamo dall’idea di un inconscio già dato, ma da un effetto inconscio che si produce nel taglio in cui si realizza la divisione soggettiva, come dono improvviso della fugacità di un momento colto al volo. Consideriamo la differenza tra il modello e il discorso: il primo è separato dall’esperienza, e si limita a rappresentarla, il secondo costituisce il campo stesso di questa esperienza, non ne è distanziato. Il setting concepito come modello e come programmazione ha in sé stesso la necessità dello standard e implica un cammino verso la normalità, che vuol dire verso l’adattamento. Il setting concepito in base alla nozione di discorso e come luogo d’evento, spazio di un’occasione possibile anche se non necessaria, conduce il soggetto al confronto con la propria particolarità, con il modo specifico in cui ciascuno affronta e tratta l’assenza di rapporto sessuale. La posizione dell’analista, naturalmente, nei due casi è diversa. Ma possiamo repertoriare in modo più specifico le diverse posizioni in cui si è sagomata la figura dell’analista nelle correnti di pensiero psicoanalitico. Nel setting configurato dalla psicologia dell’io l’analista è in posizione distaccata, di osservatore neutrale, come un ricercatore scientifico, o in posizione di rappresentante della legge, come un padre in un racconto di Henry James. Anche nel setting kleiniano la posizione dell’analista ha il proprio calco nella figura genitoriale: si tratta della madre in funzione di contenitore delle angosce. Con il postmodernismo degli intersoggettivisti, invece, l’analista assume il ruolo democratico di un partner paritario che favorisce gli sviluppi di una dialettica. Per il setting lacaniano mi sembra certamente appropriata la descrizione dell’analista che ha dato Sérgio Laia in uno degli ultimi numeri di Ornicar? definendolo come “agente dell’imprevisto”. E’ l’unica figura che non rimandi a un’impronta edipica: paterna, materna o fraterna. Ed è anche l’unica figura a indicare una posizione che mantenga una dissimmetria pur restando intrinseca alla situazione. Come luogo d’evento e come struttura discorsiva il setting lacaniano non ha bisogno di sacrari. Lo psicoanalista come agente dell’imprevisto può circolare liberamente nella città, e questo apre le porte alla psicoanalisi applicata. La scuola, l’ospedale, la comunità possono funzionare altrettanto bene dell’assetto poltrona-divano. La frequenza delle sedute può rarefarsi o intensificarsi secondo necessità, la durata, la variabilità e la brevità sono poi i nostri cavalli di battaglia da sempre. Tutto questo riaccosta l’inconscio alla realtà, lo reimmette nella vita, questa vita di cui Lacan, negli ultimi anni, affermava che non sappiamo dire niente se non affermare la vaga espressione di “godimento della vita”, questa vita che sottratta a ogni connotazione di sapere diventa un nome che Lacan ha dato al reale su cui si orienta la nostra pratica.
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