Marco Focchi Conferenza tenuta a Ravenna il 19 maggio 2023 presso la segreteria locale della Scuola lacaniana di psicoanalisi Il tema proposto per questo ciclo di conferenze, Senso e reale, religione e psicoanalisi, mi sembra decisivo per una riflessione sull’attualità della psicoanalisi, in un momento in cui la religione, – come giustificazione del braccio armato di guerre il cui solo obiettivo è l’annientamento dell’avversario – sembra riprendere forza e tentare di occupare un posto da cui l’aveva scalzata l’illuminismo, al tempo in cui il grido di Voltaire: “Écrasez l’infâme!” Si rivolgeva contro il fanatismo, il dogmatismo e l’intolleranza, invocando la critica della ragione contro la credenza cieca alle autorità istituite. iL’illusione
Il prosciugarsi della fonte d’autorità che da sempre ha irrigato le credenze religiose, d’altra parte, negli ultimi tre secoli ha lasciato un vuoto che è stato immediatamente occupato dalla scienza. Non penso qui alla scienza che si muove nel campo legittimo delle sue operazioni, ma a quella invocata come supplente delle certezze precedentemente offerte dalla religione, e quindi a una scienza che diventa una nuova divinità, una sorta di dea ragione come quella proclamata da Jacques-René Hébert quando la Rivoluzione si stava cominciando ad avvitare nel Terrore. L’appello alla scienza, quando è cercata fuori dal proprio campo di applicazione, sostituisce, in un certo senso, la funzione precedentemente assegnata alla preghiera, e alimenta illusioni a cui in realtà nessun procedimento scientifico può dare una risposta effettiva. Lo vediamo chiaramente nella psichiatria, quando avanza la pretesa di trattare ogni problema con la pallottola intelligente di un farmaco ad hoc. Questa prospettiva di un biologismo a oltranza ha incontrato, per riconoscimento anche dei responsabili di maggior spicco della psichiatria, un fallimento oramai senza possibilità di recupero. La scienza, quando è chiamata a intervenire nel campo della soggettività, cioè fuori dal proprio terreno di pertinenza, alimenta le stesse illusioni con cui Freud qualificava la pratica religiosa. Freud dà una connotazione precisa del senso in cui parla di illusione, differenziandola innanzitutto dall’errore. Non è detto infatti che l’illusione sia falsa, è piuttosto un’aspettativa che, verosimilmente, ha poche possibilità di tradursi in realtà. Può essere per esempio il pensiero del ragazzo che sogna di passare una notte d’amore con la sua diva preferita. In fondo non è impossibile, ma è semplicemente la proiezione di un desiderio che ha scarsissime possibilità di realizzarsi. Camus diceva che in un universo improvvisamente privato d’illusioni l’uomo si sentirebbe un estraneo. È senz’altro per questo che la scienza viene costretta a forzare i propri limiti e viene sospinta nelle derive dello scientismo, dove alimenta speranze da riporre in soluzioni fuori dalla sua portata. Cade in questa spirale per l’appunto la psichiatria quando, imprigionata dalla logica divulgativa dei media, promuove il farmaco della felicità: Ricordiamo tutti lo scampanio pubblicitario che ha accompagnato la nascita del Prozac. Si tratta semplicemente di creare illusioni nello stesso modo in cui fa la religione. Quel che non sappiamo, non lo sappiamo Su questo la posizione di Freud è opposta rispetto a quella assunta da Pascal nella sua scommessa. Pascal riconosce che non possiamo sapere razionalmente se Dio esiste o no, ma considera valga la pena di scommetterci, perché immensa è la sproporzione tra ciò che eventualmente si perderebbe, che è poca cosa, i piaceri della vita, e quel che si guadagnerebbe, che è l’infinito. Freud si attesa su una altro versante: quel che non sappiamo, non lo sappiamo – die Unwissenheit ist die Unwissenheit – e da ciò non deriva nessun diritto di colmare la lacuna del sapere con il tampone della fede. Freud considera dunque che il buco del sapere deve restare tale, mentre l’operazione realizzata dalla religione è proprio quella di colmare questo buco con l’illusione. Si tratta di alimentare la proiezione di un desiderio che consiste in fondo nel dare un senso a questa mancanza, di far entrare il punto d’inciampo, la frattura del sapere, in una interpretazione che ne ristabilisca la continuità.La funzione dei sacerdoti, dei guaritori degli indovini, dei guru, è sempre stata per un verso quella di eseguire dei rituali per provocare la pioggia, far gesti magici per ottenere guarigioni, alzare le mani al cielo per ingraziarsi gli dei, ma è stata anche soprattutto quella di spiegare perché, malgrado il rituale, la pioggia non venga, perché non ci sia stata la guarigione, perché nonostante le offerte gli dei continuino a essere avversi. L’impedimento, il blocco, l’intoppo, il punto d’arresto è qualcosa a cui viene dato senso, ed è esattamente il contrario di ciò che fa la psicoanalisi. Lacan dice, per esempio: non mi fregio del fatto di dare senso. E aggiunge che Marx, da lui preso come l’inventore del sintomo, è diventato il restauratore dell’ordine proprio perché ha restituito al proletariato la dimensione del senso. Con Marx infatti il proletariato non è più descritto, come nel bellissimo libro di Jack London Il popolo dell’abisso, attraverso un’immagine di disperazione, di degrado, di corruzione, di emarginazione, ma è inquadrato nella prospettiva di una lotta, la lotta di classe che lo proietterà verso il radioso avvenire della società senza classi. Questo fa entrare il proletariato nella prospettiva di un compito, lo induce ad assumersi un ruolo e a darsi una missione. Un giacimento di senso Lacan prende l’esempio di un tema moderno, ma in ogni epoca il senso della vita, per ciascuno dei miliardi di esseri angosciati che hanno popolato la terra, passa per una storia in cui si spiega cos’è la realtà e qual è il posto di ciascuno nel grande dramma cosmico. In questo dramma ognuno partecipa di qualcosa che va al di là di se stesso, e che dà un senso alla molteplice, frammentata varietà di esperienze che incontra. Occorre che la vita non si esaurisca nei dolori, nelle gioie momentanee, nei piaceri e nelle miserie, nel ricorrere anodino della quotidianità, ma faccia parte di un grande disegno, di qualcosa che vada al di là delle nostre piccole esistenze. Dice Lacan: “La Chiesa ne ha tratto la lezione, è quel che vi ho detto il 5 gennaio”. Cosa ha detto il 5 gennaio? O meglio scritto, perché il riferimento è alla lettera con cui scioglie la sua École, dove leggiamo: “È la Chiesa, quella vera, che sostiene il marxismo dandogli sangue nuovo, un senso rinnovato. Perché non la psicoanalisi quando vira al senso? Non lo dico come vana canzonatura. La stabilità della Chiesa viene dal fatto che il senso è sempre religioso” (Ornicar? n°20-21, p. 20). “La Chiesa dunque ha imparato la lezione – dice nel seminario seguente del 18 marzo 1980 – Sappiate che il senso religioso farà un boom di cui non avete la minima idea. Perché la religione è il giacimento originale del senso […] Io tento di andare contro, perché la psicoanalisi non sia una religione, cosa a cui tende irresistibilmente quando s’immagina che l’interpretazione operi solo attraverso il senso. Io insegno che fa leva su qualcosa di diverso, nella fattispecie sul significante in quanto tale” (Ornicar? n° 20-21, p.19). Cosa significa allora che la religione è l’originario giacimento di senso? Lacan si riferisce a quel che chiama la religione vera, cioè il cristianesimo, tenendosi sul terreno della modernità, sul terreno di una religione che conosciamo nel modo più diretto, ma possiamo capire ancora meglio quel che dice se prendiamo in considerazione le religioni primitive. La soglia tra i vivi e i morti È cosa nota a tutti gli archeologi e paleontologi che le prime tracce dell’umano si hanno quando si incontra la sepoltura. A partire dal momento in cui l’uomo seppellisce, ovvero conserva le tracce del proprio simile, abbiamo l’indicazione di un distacco dell’esistenza dalla mera vita animale, dalla pura coincidenza vitale con il proprio corpo. Che il corpo deperisca, ma che si possa al tempo stesso conservare traccia di chi lo ha abitato, è l’indice determinante di una presenza soggettiva. Il soggetto è qualcosa di distinto dal corpo. Si può conservare traccia delle spoglie quando si può separare il nome dal cadavere. La religione comincia così: con il culto degli antenati, con la memoria dei dei morti. Con infinite variazioni nelle culture primitive, e in modo evidente nello sciamanesimo asiatico, incontriamo così il viaggio nell’al di là, che può prendere la forma di ascensione celeste o di discesa verso gli inferi. Mostra la capacità di viaggiare dello sciamano che è in grado di percorrere il cammino ultramondano, di aprire il passaggio dal mondo dei vivi a quello dei morti. Il viaggio sciamanico stabilisce una comunicazione tra cielo e terra, e il tramite del passaggio può essere rappresentato da un qualsiasi mezzo fisico, un ponte, una liana, una scala, l’arcobaleno: sono tutte varianti del tema centrale dell’Axis Mundi. Nella saga di Gilgamesh questo è rappresentato dall’albero della vita. Il tema dell’albero della vita si trova anche nella Bibbia: è l’albero il cui frutto Adamo ed Eva hanno perso la possibilità di mangiare, dopo aver gustato quello dell’albero della conoscenza. Aprire gli occhi sul bene e sul male, sulla sessualità, fa smarrire la prospettiva di vita eterna data dal frutto dell’albero della vita. In tutte le culture primitive ritroviamo quindi la primaria importanza attribuita al Centro, all’Albero Cosmico, e al Tempo Primordiale, quando le comunicazioni tra cielo e terra non richiedevano le particolari capacità sciamaniche, e appartenevano alla norma del mondo. È grazie questa connessione tra terra e cielo, tra vita e morte, che la religione diventa un giacimento di senso. L’immaginario lacerato In termini moderni possiamo dire che il rapporto tra terra e cielo è l’aperto. L’uomo alza gli occhi da terra e vede il cielo. L’animale non vede il cielo. Neppure l’allodola, dice Heidegger, vede l’aperto. Vedendo il cielo l’uomo ne vede i segni, i signa, le costellazioni, e decifra, legge, interpreta. Vedere l’aperto infatti significa cadere sotto l’evento del linguaggio. Nel nostro lessico il termine “aperto”, di cui Heidegger ha fatto un concetto prendendolo da Rilke, ha una traduzione precisa: la béance. Cerchiamo di vedere cosa significa. L’animale è guidato dall’istinto e risponde a certi segnali d’innesco di un comportamento, che può essere aggressivo, appetitivo, sessuale. Sono i segnali che l’animale riconosce nel proprio ambiente, nel proprio Umwelt. L’ambiente è ciò in cui l’animale è avvolto, come in un prolungamento del proprio corpo, ed è ciò i cui segnali l’animale riconosce e a cui reagisce. Questi segnali sono le immagini che spingono all’azione, e l’animale si trova in una perfetta corrispondenza con il cerchio della propria esistenza: è avvolto come in una bolla dal proprio immaginario. Non ha quindi nessun bisogno di alzare gli occhi al cielo per interpretare il proprio destino. L’immaginario dell’uomo è invece lacerato. È il tema della prematurazione della nascita che Lacan riprende da Louis Bolk. Questa lacerazione lo fa uscire da quel che Heidegger chiama lo stordimento dell’animale, e apre l’uomo all’evento del linguaggio. In tal modo però l’uomo non funziona più seguendo un ciclo naturalmente regolato di comportamento. Il suo rapporto con la sessualità, con l’aggressività, con la fame restano essi stessi aperti. Per la sessualità non c’è una relazione nella quale sia immediatamente riconoscibile il partner sessuale. L’aggressività non è funzionale solo a stabilire confini territoriali o gerarchie all’interno del gruppo, ma sfocia nell’ hegeliana lotta di puro prestigio. La fame non è più soltanto soddisfazione dell’appetito e può spingersi all’eccesso o all’estrema privazione dello stilita e dell’anoressico. Uscendo insomma dal binario naturale dell’immaginario-bolla, tutti gli impulsi dell’uomo restano senza un definito punto di chiusura, e il desiderio non risponde più alle immagini-esca dell’istinto animale, restando sospeso all’insolubile. Non si situa così in relazione a un appoggio identificabile, a un oggetto determinato, e rimane appunto nell’apertura, nella béance. Lacan formula questa idea in modo molto preciso ne La direzione della cura, dove scrive, dopo aver posto il principio che il desiderio dell’uomo è il desiderio dell’Altro: “Questo ha di mira una funzione completamente diversa da quelle dell’identificazione primaria, perché non si tratta per il soggetto di assumere le insegne dell’altro, ma della condizione per cui il soggetto deve trovare la struttura costituente del proprio desiderio nella béance stessa aperta dall’effetto dei significanti in coloro che vengono per lui a rappresentare l’Altro, in quanto la sua domanda è ad essi assoggettata.” Vediamo qui molto chiaramente come Lacan cominci a delineare la sua nuova concezione dell’inconscio fondato sul linguaggio, prendendo distanza rispetto a quella precedente fondata sull’imago. Inizialmente infatti Lacan prendendo l’imago come oggetto proprio della psicologia, cercava di farne l'analogo della nozione galileiana di punto materiale inerte che sta a fondamento della fisica (Ecrits p.188). A partire da questa premessa poteva attribuire all’identificazione il carattere specifico della causalità psichica. Lacan riconosce d’altra parte chiaramente di aver tratto il concetto d’imago dal mondo animale: “È chiaro – scrive – che i fenomeni psichici in loro devono manifestarsi se hanno un’esistenza indipendente e che dobbiamo incontrare la nostra imago almeno in quegli animali la cui Umwelt comporta, se non una società, quantomeno un’aggregazione con i simili che presentano nei loro caratteri specifici il tratto designato con il nome di gregarismo” (Ecrits p.189) La sequenza appare dunque chiara: Lacan prende l’etologia, quella di Von Üexkull, come riferimento in cui vediamo l’animale chiuso nella propria bolla immaginaria, dove reagisce agli stimoli che vengono riconosciuti in un ambiente specie-specifico. L’animale risponde e può riconoscere solo determinati stimoli e può realizzare solo un determinato programma. Per esempio il ragno, a cui l’etologo ha praticato un buco nella tela rendendola inutile alla cattura delle prede, non si volge indietro per ripararla, ma continua la costruzione di una tela ormai inservibile. Il riferimento all’etologia serve a Lacan per costruire un concetto di causalità psichica fondato sull’imago, dove l’imago ha la stessa funzione che lo stimolo ha per l’animale, anche se evidentemente ci troviamo in un sistema più complesso che all’impianto immaginario sovrappone le coordinate edipiche. L’imago per l’uomo è tale infatti nel contesto di un complesso famigliare. Lacan fa ben notare la differenza radicale tra l’immaginario animale e quello umano, giacché quest’ultimo, a differenza della bolla chiusa dell’animale, è una tela strappata, e questo strappo è l’evento del linguaggio, cioè l’evento antropogenetico che apre gli occhi sulla vita e sulla morte. Axis Mundi Tutto il sistema delle religioni protostoriche, con il riferimento a un Axis Mundi, all’albero della vita, alla lettura dei signa, compare nel momento in cui la lacerazione dell’immaginario fa perdere il contatto immediato con la terra e fa apparire il cielo, fa uscire dall’immersione spontanea nella vita mostrandola nel suo contrasto con la morte. Occorre infatti dare un senso proprio là dove viene meno la guida naturale, l’integrazione immersiva con l’ambiente. L’uomo ritrova un centro ponendosi nell’Axis Mundi, in relazione al cielo, un cielo che deve parlare per dire all’uomo come orientarsi, come restare in armonia con il Cosmo, e tutte le cosmologie protostoriche svolgono la loro funzione esattamente in questa direzione. Ne troviamo la traccia nella più splendida, nella più grandiosa, nella più fondamentale cosmologia che ha dato l’impronta al nostro mondo occidentale: il Timeo. È la storia del Demiurgo che trae dal Caos un ordine, una taxis, disponendo la terra e il cielo sul modello delle idee iperuranie. È la storia che inizia con il racconto di Crizia su Atlantide, riferita a un tempo primordiale, e che risale dalle origini del Cosmo per arrivare alla costituzione dell’uomo come essere corrispondente in miniatura al Cosmo, perché la sua testa è rotonda, come il Cosmo è sferico, e in essa si trova il punto di fuoco, l’occhio, come nel Cosmo c’è il sole. Il grande racconto platonico del Timeo è all’origine di tutto il pensiero che nel neoplatonismo rinascimentale ha sviluppato il tema della corrispondenza tra macrocosmo e microcosmo, cioè tra ile Cosmo e l’uomo. Finché l’uomo è in armonia con il Cosmo la sua vita scorre correttamente, la sua salute è preservata, il suo destino è rettamente guidato. Da qui la necessità di decifrare le costellazioni, di leggere i visceri degli animali, di interpellare la Pizia. Occorre essere continuamente rassicurati di trovarsi sulla pista giusta, di essere sincronizzati con le forze del Cosmo che si riflettono in noi. È questo anche il senso della preghiera, che è la formulazione di una domanda: siccome la terra dipende dal cielo, il cielo risponde, rivela l’evento divino al tempo stesso in cui l’occulta. Questo crea una comune esperienza, la sensazione che tutti gli uomini avvertono di avere un posto, per quanto piccolo, nell’immensità di ciò che è. L’idea che questo trasmette è che il cielo ci riguarda, e che il divino non è disinteressato all’uomo. I grandi pensatori spirituali, come per esempio Pascal, si ribellano all’idea di un Dio come quello di Cartesio, che una volta creato il mondo, dato il tocco d’avvio, messo in moto il meccanismo, lascia che tutto funzioni da solo, come un orologio ben caricato. Si ribella Pascal, si ribellano gli occasionalisti, si ribella Arnold Geulincx, si ribella Nicolas Malebranche, citato da Lacan come esempio di un filosofo piuttosto in sintonia con il sistema di Schreber. Si ribella un pensiero, paranoico nel caso di Schreber, dove entra in scena un Dio che s’impiccia, anche piuttosto malamente, degli affari umani, di cui non capisce niente. Il Dio di Malebranche naturalmente è più accorto. Frattura Con Cartesio però comincia a rompersi la sintonia fra cielo e terra, e si crea l’incrinatura che nella modernità si apre sempre di più. Sono Galileo e Cartesio, gli autori all’origine della scienza moderna, a pensare il movimento non come animato da uno spirito interno, ma come inerziale, senza una tendenza propria. La separazione dello spirito dal corpo, della res cogitans da quella extensa ha anche questa funzione: nelle cose materiali non c’è nessuna anima che ne influenzi il movimento, non c’è nessuna tendenza. Si tratta di prendere distanza dall’idea di Aristotele, che il fuoco tende di per sé verso l’alto e la terra di per sé verso il basso. Dopo Galileo e Cartesio, dopo che i corpi possono essere studiati semplicemente in modo geometrico, comincia ad apparire quel reale di cui la scienza fa oggetto, e a cui Lacan tante volte si riferisce. Occorre spezzare il cerchio magico del senso che si costituisce nel rapporto tra terra e cielo che si ricollega al mondo mitico, al tempo in cui le cosmologie protostoriche vedevano un momento precedente alla separazione tra terra e cielo, avendo sullo sfondo la nostalgia della vita animale che fa capolino nelle divinità ibride, quelle per esempio con corpo umano e testa i cane. La nascita della scienza lacera il filo di senso che nelle cosmologie protostoriche tiene insieme la terra e il cielo, abbatte l’albero della vita della saga di Gilgamesh e della Bibbia, per sostituirlo con l’albero della filosofia di Cartesio. E quando Nietzsche si affaccia a questi temi prende Copernico come punto di riferimento. Copernico come protagonista della rivoluzione scientifica, ha preparato la strada a Galileo e a Cartesio, e Nietzsche lo presenta come l’astronomo che ha rovesciato l’ordine del mondo facendo perdere alla terra il centro. Copernico non è più astrologo, colui che interroga gli astri per averne risposta, ma per l’appunto astronomo, misuratore, osservatore dei corpi celesti, corpi silenziosi, per capirne il movimento. Perdita del centro “Da Copernico in poi – scrive Nietzsche – l’uomo rotola dal centro verso una x. Non è forse, da Copernico in poi, un inarrestabile progresso l’autodiminuirsi dell’uomo, la sua volontà di farsi piccolo? La fede, ahimè, nella dignità, unicità, insostituibilità nella scala gerarchica degli esseri è scomparsa – è divenuto animale, animale senza metafora, detrazione o riserva, lui che nella sua fede di una volta era quasi Dio (“figlio d’Iddio”, “Uomo-Dio”). Da Copernico in poi si direbbe che l’uomo sia su un piano inclinato – oramai va rotolando sempre più rapidamente lontano dal punto centrale. Dove? Nel nulla? Nel trivellante sentimento del proprio nulla.” (Genealogia della morale, aforisma 25, pp. 336-337) “Ogni scienza […] tende oggi a rimuovere nell’uomo il senso di rispetto avuto sino a oggi per se stesso come se non fosse altro che una bizzarra vanagloria”. (ibid) Appare chiaro agli occhi di Nietzsche, ma anche ai nostri, come lo scardinamento dell’Axis Mundi vada insieme al sorgere della scienza, cioè della visione in cui – come si esprimeva Giordano Bruno, colui che per primo ha sfondato i limiti dell’universo chiuso – i pianeti sono pietre, né più né meno che la terra, in un universo infinito, che proprio perché infinito non ha nessun centro. In questo senso, come ha ben visto Lacan, la scienza è la condizione della psicoanalisi. Perché scardina l’Axis Mundi con cui le cosmologie protostoriche tenevano agganciato l’uomo al fondamento mitico animale, supplendo la lacerazione dell’immaginario portata dal linguaggio con il senso che viene da un mondo dietro il mondo, da un cielo che con i suoi segni parla dell’uomo e che la scienza ha silenziato nel calcolo. Un residuo del cielo che parla è rimasto forse in quei messaggi che vengono lanciati nello spazio perché siano decifrati da possibili esistenze aliene supposte parlanti e in grado di rispondere. L’attesa improbabile di queste risposte da un cielo lontano distanze che non possiamo neppure misurare è l’ombra, nella scienza, dell’attesa di responsi provenienti da un cielo pieno di segni, dal tuono di Giove all’eclissi di luna, alle grandinate improvvise portatrici di annunci da decifrare. Si capisce dunque la preoccupazione di Lacan di non tornare al senso, di far sì che la psicoanalisi non sia un modo di restituire quel che la scienza ci ha fatto perdere. È quel che, d’altra parte, si sente dire: la psicoanalisi ha portato dentro l’uomo tutto quel che prima era fuori. Quel che leggeva nei segni degli astri ora lo legge dentro di sé. Su questa via effettivamente la psicoanalisi può diventare il sostituto laico delle religioni, e se si incammina verso un’ermeneutica interiore, ha tutta la possibilità di farlo. Non è evidentemente su questa via che si era incamminato Freud, e che aveva invece imboccato Jung, e non è su questa via che voleva andare Lacan. Corpi inerti e corpi pulsionali Porre la scienza come condizione della psicoanalisi significa tenere il filo di quel reale che la scienza ha fatto emergere, delineandolo quando ha diradato le nebbie del senso. Il reale della scienza viene in luce quando i pianeti smettono di essere dei, e sono pietre di cui possiamo calcolare le orbite. Che la scienza sia la condizione della psicoanalisi non vuol dire però che la psicoanalisi debba porsi sulla stessa linea epistemologica. È chiaro che la scienza è stata un tale sconvolgimento di tutte le nostre visoni millenarie che dopo Galileo e Cartesio i filosofi hanno cercato di mettersi su un drittofilo in cui il loro pensiero trovasse la stessa precisione e la stessa certezza di quello scientifico. Hobbes, che pur rifiutava Cartesio perché considerava esistessero solo cose materiali e non dava nessun posto alla res cogitans, aveva una visione meccanicista della natura. Hume voleva formulare leggi del pensiero altrettanto certe di quelle naturali, Kant voleva riformulare una filosofia in modo tale che avesse le stesse esigenze di rigore della scienza. Tutto il pensiero positivista sente questa potente mareggiata che ha investito il pensiero a partire dal XVII secolo. Questa mareggiata arriva a lambire la psicoanalisi, anche se il reale che porta verso di noi non è quello circoscrivibile dal calcolo. Si tratta, per noi, di una sfaccettatura del reale che è debitrice della scienza, ma che non obbedisce al numero e che, diversamente dalla pietra inerte del pianeta, obbligata a seguire il moto in cui lo portano le forze che lo tengono in balìa, ha una tendenza, ha un punto di mira, perché la pulsione vuole soddisfacimento. Il reale al cuore dell’umano è un reale che ha un suo movimento proprio, ha una spinta, vuole, tende verso. E quando, con il lavoro psicoanalitico, spogliamo il desiderio dall’impotenza in cui lo fanno cadere le sue illusioni, risvegliamo una potenza che ha il suo motore nell’impossibile: proprio perché il soddisfacimento del desiderio è impossibile c’è una volontà di godimento che si impone come inaggirabile, che lotta contro se stessa in un campo in cui Eros e Thanatos sono i due lati di una stessa spinta, in cui la vita si rispecchia nella morte, in cui il corpo non è più considerabile solo come natura.
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