Testo letto al Convegno della Scuola Lacaniana di Psicoanalisi sul tema "Il transfert tra amore e godimento" tenutosi Roma il 14 e 15 giugno 2014. di Marco Focchi Nella psicoanalisi classica una direzione principale dell’attenzione si rivolge alla storia. Le domande guida sono: da dove vengono i problemi attuali? A cosa risalgono le difficoltà del presente? In quale ordine le cose si sono concatenate? Il nostro sguardo fruga allora nelle origini, cerca le prime manifestazioni, le insorgenze iniziali. Siccome la storia è poi fatta di molte storie, che si compongono d’intrecci narrativi ricchi e diversi, a volte, anche se raramente, si trovano nel materiale clinico fantasmi, o sogni che prendono uno sviluppo narrativo rigoglioso, quasi fiabesco. Una delle forme narrative più tipiche, che nella psicanalisi conosciamo da sempre, è quella del romanzo familiare. Ne esistono innumerevoli varianti. Nello schema freudiano canonico il nevrotico immagina di non essere figlio dei genitori che lo hanno allevato, e di ritrovare, dopo molte peripezie, i propri nobili natali. Si tratta di un viaggio di ritorno verso un Altro dell’Altro la cui stirpe regale costituisce un degno riconoscimento del proprio valore. Nella psicosi, dove il Nome del Padre non mette un punto d’arresto, le cose scivolano più in là, infrangono i limiti del romanzo, e il soggetto psicotico sconfina in genealogie asintotiche e divine.
Conosciamo poi a volte capovolgimenti radicali della forma nota. Un paziente presentava una peculiare variazione rovesciata dello schema canonico: temeva che un giorno potesse saltar fuori che non era nato nella famiglia in cui viveva. Nella sua fantasia temeva d’essere figlio di zingari, e questi sarebbero prima o poi tornati a rivendicare le loro prerogative su di lui, strappandolo dalle braccia dei suoi. Per lui l’Altro dell’Altro era costituito lì dove viveva, ma evidentemente non era solido quanto avrebbe voluto. Nelle configurazioni a geometria variabile delle famiglie postmoderne l’intreccio è diversificato all’infinito, ma il tema di fondo rimane. Ci sono trame più complesse che mantengono però un identico punto di mira. Giulia per esempio, ha vissuto fino a otto anni con i suoi nella casa di un paesino alla periferia di Milano. Quando i genitori si sono separati si è trasferita con la madre in altra casa, in un altro paese, e a un certo punto in questa casa è venuto ad abitare il nuovo compagno della madre con la propria figlia, che è diventata una sua sorella acquisita. Nei giorni in cui stava con il padre invece Giulia incontrava Luisa, la nuova compagna del padre. Un giorno arriva a casa particolarmente presto, quando non c’è ancora nessuno. Nell’attesa va in frigorifero a prendere qualcosa da mangiare. Quando Luisa arriva le fa notare in tono asciutto che le cose che ha preso sono state comprate con i suoi soldi, frutto del suo lavoro, e che quindi non le appartengono. Giulia rimane sconcertata non tanto per l’osservazione, quanto perché quella era la casa di suo padre, dove lei aveva vissuto fino a otto anni, era quindi la sua casa quella dove ora si sentiva trattata come un’estranea. Nei sogni di Giulia compaiono edifici in rovina, dove lei si aggira smarrita. Cerca di arrivare al piano superiore attraverso scale che non conducono da nessuna parte, e sullo sfondo c’è l’amata nonna paterna, l’antica proprietaria della casa del padre, la vera signora delle origini, autentico Altro dell’Altro a cui Giulia si rivolge per tenere insieme i pezzi sparpagliati della sua vita. Il romanzo familiare, in tutte le sue varianti, è imprigionato nella ricerca delle origini, è modulato in funzione dell’identità che costruisce inseguendo le genealogie, è incentrato sul mito come fondamento posto a sigillare l’abisso del tempo e della provenienza. Le domande eterne “Da dove vengono i bambini?” “Da dove vengo io?” “Da dove vengono tutte le cose?” hanno solo una risposta mitica, e forse il Big Bang, di cui pare siano state trovate recentemente le tracce, ne è solo la variante scientifica. Il romanzo familiare sutura quella che Lacan chiama la beance causale, l’apertura di una causalità diversa da quella estensiva che vige nel discorso scientifico, una causalità, possiamo dire, sospesa ai bordi del vuoto. Per riaprire le sorgenti di questa diversa causalità togliere la copertura fittizia dell’Altro dell’Altro. Occorre in questo senso smentire il romanzo familiare, come ha sostenuto Antoni Vicens in una recente intervista, e la passe va in questa direzione perché non cerca l’identità, ma piuttosto l’Unheimliche, la disidentificazione da cui appare, nella caduta degli ideali, il modo di costituzione degli oggetti di desiderio e d’amore. Appare allora una possibilità diversa, di romanzi non più incentrati sulla storia, con la direttrice puntata regressivamente all’origine e con la funzione di innalzare alcuni patriarchi come quinte del tempo per coprire il vuoto. Sono i romanzi geografici, di viaggio, di orizzonti, di moltitudini, di razze, come quelli che incontriamo spesso nella letteratura americana. Allora abbiamo il grande romanzo di Melville, dove Ismaele, il protagonista, si spinge fuori da ogni frontiera, nell’oceano, verso l’incontro con l’ignoto assoluto, con Moby Dick, mostro non delle origini, ma di un mondo senza confini, pieno di attesa e di minaccia. Abbiamo Kerouac, dove i protagonisti sono incessantemente in movimento da un capo all’altro dell’America senza una meta riconoscibile, come esprime chiaramente uno dei personaggi: ”We’ve got to go someplace, find something”. Abbiamo Cormac McCarthy, che in Meridiano di sangue estende il Far West geografico a dimensioni cosmologiche. O ancora, nel romanzo europeo, abbiamo Michel Tournier con lo straordinario tema dell’isola deserta, in Vendredì ou le Limbes du Pacifique. Nella prospettiva che stiamo cercando di delineare con il nostro dibattito in questi ultimi anni nel Campo freudiano, la pratica psicoanalitica s’incentra sul carattere inventivo del sintomo e sulla funzione di orientamento che ha nella nostra clinica. Credo sia importante in questo senso far emergere e sviluppare una dimensione dell’esperienza che sente l’urgenza di uscire da quello che Joyce chiamava l’incubo della storia. Solo svegliandosi dall’incubo della storia come processo ordinato da un elemento trascendente, l’arte può, secondo Joyce, creare davvero attingendo al caos e restandone ai bordi senza farsene inghiottire. Se la storia ha un valore nell’esperienza psicoanalitica, è nella misura in cui la si traversa non per ordinarla sotto un principio guida, o riscriverla migliorata, ma per sganciarsi da essa, per cogliervi quel tempo-contrattempo che Nietzsche chiamava Unzeitgemässe, inopportuno, o intempestivo. Che non vuol dire abolire il rapporto con passato, facendo del paziente una sorta di voyageur sans bagage, ma sospendere la dipendenza dal mito individuale a cui la storia rimane fissata nella ricerca identitaria del nevrotico. Prendere la questione da questo lato ci aiuta a precisare cosa significa l’aspetto terapeutico della psicoanalisi, perché se il concetto medico di guarigione è il ritorno allo stato precedente all’insorgenza della malattia, per noi invece non c’è nessuna restitutio ad integrum. L’integrità anzi è proprio il mito che il romanzo familiare del nevrotico s’impegna a sostenere, e seguire la direttrice della storia va esattamente in questo senso, cioè va ad alimentare la nevrosi. Naturalmente la domanda del paziente cerca proprio questo: chi viene con un attacco di panico chiede di essere restituito all’apparente tranquillità che regnava prima della tempesta. Noi sappiamo però che la crisi ha semplicemente rivelato qualcosa che non può e non deve essere cancellato. Non si tratta di tornare a prima che il panico si manifestasse, ma di partire da ciò che rivela per costruire una diversa topologia del soggetto. La fobia, per esempio, che è ciò verso cui sfocia comunemente il panico quando si stabilizza, suddivide lo spazio e disegna una complessa geografia, creando aree d’interdizione, divieti d’accesso, posti sicuri e zone pericolose. L’agorafobico si rinchiude in luoghi dove immagina che la minaccia proveniente dalla pulsione non possa raggiungerlo. Il claustrofobico ha bisogno di avere sempre davanti a sé un’uscita di sicurezza per non sentirsi avvinghiato nelle spire di un desiderio che non può controllare. Lo spazio si diversifica, diventa disomogeneo. In genere siamo critici, e a ragion veduta, con le modalità terapeutiche comportamentiste, che inducono il soggetto a tentativi progressivi di forzare lo sbarramento fobico, come per abituarlo un po’ alla volta, potremmo dire a dosi omeopatiche, all’oggetto che risveglia l’angoscia. Se però consultiamo la letteratura psicoanalitica degli anni cinquanta, vediamo che in molti casi gli psicoanalisti trattavano la fobia esattamente nello stesso modo. Perché? Semplicemente perché si erano resi conto che la fobia non reagisce all’interpretazione. Se prendiamo infatti il caso del piccolo Hans, vediamo che la lettura di Lacan, come nota Miller, non punta sull’interpretazione, ma prende una prospettiva logica, evidenziando l’articolazione di tutte le possibili permutazioni del fantasma, mettendo a punto il primo abbozzo di una logica di gomma, di una logica elastica. La riduzione della problematica fobica non viene dalla sostituzione interpretativa che mette il padre al posto del cavallo, ma dal fatto di ridurre la madre a un elemento mobile, equivalente ad altri, che possibile far entrare in un montaggio e in uno smontaggio. La fantasia finale, in cui Lacan individua il passaggio fondamentale che libera dalla fobia, è infatti quella in cui lo stagnaio viene e svita la vasca. L’interpretazione che sostituisce il padre al cavallo, o il pene al trivello dello stagnaio, si muove su un asse verticale, cerca la propria chiave di lettura in un elemento esterno al materiale prodotto da Hans, mentre la ricombinazione degli elementi nella fantasia in cui si tratta di sbullonare e smontare la madre procede su un asse orizzontale. Siamo abituati a considerare quel che per Freud sono le Vorstellungen, le rappresentazioni, come equivalenti al significante in Lacan, ma in realtà c’è una differenza estremamente importante, che è impossibile sottovalutare: la rappresentazione è in ogni caso rappresentazione di qualcosa, di un oggetto o di una scena, è sempre seconda rispetto a quel che rappresenta, e rimanda a ciò da cui è stata originata come a una fonte autentica. Il pensiero rappresentativo mantiene una gerarchia tra l’originale e la copia, e l’interpretazione che ne dipende, nel rimando dalla rappresentazione al rappresentato, resta necessariamente vincolata a un’interrogazione sulle origini, che si sviluppa come narrativa storica. Diverso è invece il significante, a condizione di non considerare il linguaggio solo per il versante della designazione. Se l’inconscio è strutturato come un linguaggio, non è perché debba designare contenuti a cui rimandi. Non c’è un significante che sia inconscio in quanto tale, che si tratta di scoprire e che abbia priorità rispetto ad altri. È piuttosto una questione di posizione, di topologia. Non c’è una sequenza che consideriamo originaria alla quale risalire, e l’interpretazione riguarda l’interazione di serie nessuna delle quali ha una precedenza gerarchica sull’altra, e tocca incroci, intoppi, contrattempi, rovesciamenti, spostamenti, scivolamenti, grovigli, nodi, tagli, incordonature. Nel pensiero rappresentativo è in ultima istanza impossibile uscire dal circolo della storia e dalla subordinazione all’origine, mentre il valore posizionale del significante prefigura la topologia, che non solo è una geometria di gomma, ma è anche, diversamente da quella cartesiana, una geometria immanente, senza bisogno di una riferimento a coordinate esterne per determinare le posizioni. La clinica freudiana soggiace alla trascendenza del padre, l’Altro dell'Altro di cui si sente ancora l’eco nel primo Lacan, perché è pensata a partire dalla rappresentazione piuttosto che dal significante. Il sintomo, in questa prospettiva, può entrare solo nella logica della sostituzione, come l’idrofobia di Anna O., che è il nucleo germinale di tutto lo sviluppo freudiano. Nella prospettiva dell’ultimo insegnamento di Lacan il sintomo diventa una funzione dell’inconscio, cioè qualcosa che mette in relazione con l’inconscio. E per quanto geniali siano le invenzioni cliniche di Freud, l’esperienza analitica condotta puramente nel binario freudiano, dove l’inconscio è quel che è già dato e che si tratta solo di scoprire, non implica in sé nessuna potenzialità creativa. Testimone ne è il vecchio pregiudizio che sconsiglia l’esperienza d’analisi agli artisti nel timore che, sciogliendo i conflitti inconsci, l’analisi faccia perdere loro la spinta determinante della creatività. Non è questo tuttavia un pregiudizio condiviso da Freud che, in una lettera del 1934 indirizzata a una violinista, scriveva: “Non è escluso che un’analisi sfoci nell’impossibilità di continuare un’attività artistica. Ma allora non è colpa dell’analisi: sarebbe successo comunque, ed è solo un vantaggio venirlo a sapere in tempo. Quando invece l’impulso artistico è più forte delle resistenze interne, l’analisi potrà solo accrescere, e non diminuire, le possibilità di riuscita”. Le fonti della creatività artistica si estinguono in un’analisi solo se l’arte è pensata come sintomo, e solo se l’analisi è considerata come una terapia soppressiva del sintomo. La nostra prospettiva va piuttosto in direzione contraria: vediamo il sintomo come una possibilità di creazione, come un’invenzione del soggetto, e proprio per questo non consideriamo che l’esperienza analitica debba condurre alla sua abolizione. Forse proprio per questo Herbert Graf, ovvero il piccolo Hans diventato grande, una volta cresciuto seguì la via dell’arte studiando filosofia e musica. Si specializzò nella regia di opere liriche, divenne direttore del Metropolitan di New York, e allestì spettacoli in alcuni dei più prestigiosi teatri del mondo, tra cui la Scala di Milano e il Maggio musicale fiorentino. L’esito della sua analisi infatti, secondo Lacan, come ho sopra ricordato, non era dipesa dalle interpretazioni un po’ forzate del padre supervisionato da Freud, ma dall’ottenuto decadimento della posizione trascendente e verticale del morso del cavallo – sullo sfondo del quale c’è la madre divorante – ridotto a mero componente di una combinatoria orizzontale. Non si è trattato dell’immersione, guidata dal Nome del Padre, negli abissi insondabili dell’origine, ma di un’esplorazione orizzontale, un po’ nomade, geografica più che storica.
2 Comments
Anna Peirone
26/6/2014 11:11:23 am
Come non rimanere incastrati nella storia familiare?Attigendo al caos, All'abisso senza cadervi dentro. Per la clinica lei mi dà un indirizzo illuminante, che forse potrebbe essere ancora meglio messo in rilievo:la caduta del nome del Padre, e con lui la l'interpretazione edipica, di senso porta sull'altro elemento, il desiderio divorante materno non più barrato dal N. del P.
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Marco Focchi
26/6/2014 12:33:48 pm
Cara Anna, in effetti il romanzo famigliare in senso freudiano è una ricerca di completamento di senso attraverso un NdP che saturi la situazione. In questo mantiene un'orizzonte trascendente che si tratta di far consumare al paziente, perché possa davvero essere libero.
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