Marco Focchi Intervento tenuto il 14 giugno 2020 nell'ambito del ciclo La pratica analitica organizzato via web dalla Scuola lacaniana di psicoanalisi. Il tema La presenza dell’analista, proposto per questo incontro nell’ambito del ciclo La pratica analitica, si presta particolarmente bene per affrontare gli interrogativi sorti nella fase di serrata – vissuta in questi mesi per via dell’emergenza sanitaria – che ha costretto la maggior parte di noi a proseguire i trattamenti attraverso internet o per telefono, evitando per l’appunto gli incontri in presenza. I trattamenti da remoto Sul problema dei trattamenti da remoto si è aperto ora un importante dibattito in cui si sono espresse diversi punti di vista sui social, sui blog, su tutti i nostri canali di scambio e di contatto via web. Le posizioni sono state le più diverse, spesso in contrasto tra loro anche se tutte legittime. Ritengo che per il momento si tratti di opinioni in cui si riflettono per un verso le inclinazioni soggettive di ciascuno, per altro verso le esperienze personali fatte durante il periodo di confinamento. La logica del quadro analitico in quanto tale può emergere solo dal dibattito stesso, attraverso una dialettica e un confronto che si prospetta promettente per la nostra pratica. Un punto interessante mi sembra sia stato posto dal testo di Matteo Bonazzi uscito nel n° 6 di Rete Lacan, dove Bonazzi fa una distinzione tra forma e discorso e considera che la struttura del discorso analitico può presentarsi empiricamente in diverse forme, legate a diverse contingenze, una delle quali è senz’altro quella che stiamo vivendo. Da questo punto di vista si tratta di mettere in discussione anche il termine presenza, che non può più essere dato per scontato in seguito al vaglio che ha subito nel pensiero del Novecento, dopo Husserl, Heidegger, Derrida. In absentia, in effigie
Per considerare tuttavia il problema della presenza nell’ambito della letteratura analitica il primo testo di riferimento è senz’altro quello di Freud del 1912 Dinamica della traslazione, incluso nel volume VI delle Opere nell’edizione Boringhieri. Il pensiero di Freud ha al proprio centro una prospettiva quasi eraclitea, dove Polemos pantōn men patēr esti, il conflitto genera tutte le cose, e questo porta Freud spesso a esprimersi con vivaci metafore belliche. Nel testo in esame lo scenario di lotta si svolge tra le esigenze dell’analisi di avanzare nello scoprimento e nella messa in luce del complesso inconscio da una parte, e nella resistenza che s’incontra man mano che ci si avvicina al nucleo patogeno del complesso. Quando la catena associativa è a un passo dal nucleo rimosso, un passo facendo il quale la rimozione sarebbe messa allo scoperto, si verifica allora una salto, e un elemento del complesso rimosso viene traslato sull’analista annunciandosi come resistenza. In pratica quindi c’è prima un progressivo avanzamento, continuo, lungo la catena di rappresentazioni o di significanti, poi uno strappo, una lacerazione, una discontinuità. Dovrei, per esempio, riconoscere di aver avuto avversione per un padre autoritario e repressivo, ma non posso perché, al tempo stesso in cui lo temevo, lo amavo e trovavo in lui un forte sostegno. Per non cadere allora in una divisione soggettiva che mi mette in contrasto con me stesso, separo i due elementi dell’amore e dell’avversione traslando, differendo, trasponendo l’avversione sull’analista e boccando il flusso associativo. Comincio così a trattare l’analista come un prepotente che vuole forzarmi la mano. In questo modo la lotta tra esigenze di avanzamento e resistenza si sposta sul terreno della traslazione. Si spiega così perché la traslazione, che è il motore principale dell’analisi, appaia in primo luogo come resistenza. Si chiarisce anche la questione su cui Freud conclude questo articolo, affermando che proprio per questo i fenomeni di traslazione offrono il servizio di “rendere attuali e manifesti gli impulsi amorosi occulti e dimenticati dai pazienti. Infatti, per quanto se ne possa dire, nessuno può essere battuto in absentia o in effigie.” In questa conclusione sta il punto cruciale che mette in gioco la presenza, e sembra che qui Freud metta in netto contrasto la presenza con ciò che è invece in effigie, cioè rappresentazione. Vedremo come questo punto meriti una discussione e come questa polarità vada ripensata. Riattivazione Freud, comunque sia, mette al centro l’idea che nel lavoro di analisi, attraverso la traslazione, si tratta di riattivare i conflitti del passato, di ravvivare con il sangue della vita le ombre che escono dall’Averno. Quando un eroe omerico tenta di abbracciare un amico defunto, prova tra volte invano a cingerne l’immagine, e poi l’ombra si dissolve sparendo al suo sguardo. Ulisse, avvertito da Circe, quando visita il regno dei morti sa che le ombre si nutrono del sangue dei vivi, e porta un capro che sgozza per attirarle con il suo sangue nero. Nell’analisi questo sangue è preso sul corpo dell’analista, e poiché la versione letteraria moderna delle ombre che si nutrono di sangue è il vampiro, possiamo dire che l’analista è vampirizzato dal fantasma del paziente. Il punto centrale è comunque per Freud è l’attualizzazione del conflitto, di cui l’analista è il tramite grazie alla sua presenza. Dobbiamo tuttavia vedere come nel testo freudiano la presenza dell’analista sia ancora un modo della rappresentazione. Lo psicoanalista è come un attore, offre la propria presenza, il proprio corpo per dar vita ai personaggi della vita infantile del paziente. Il rimando alla pratica dell’attore è interessante per noi perché Lacan vi fa riferimento nel suo commento all’Amleto. L’attore, dice, aggiunge qualcosa rispetto alla semplice lettura del testo, ci mette il proprio corpo. Qui dobbiamo fare attenzione, perché con questo Lacan intende che ci mette l’immaginario: il corpo è l’immaginario, ovvero l’insieme di elementi che costituiscono l’alfabeto dell’inconscio. Con questa idea, presentata nel Seminario VI, Lacan offre già un abbozzo di quel che scriverà qualche anno più tardi in Posizione dell’inconscio, affermando che gli psicoanalisti fanno parte del concetto d’inconscio, perché ne costituiscono l’indirizzo. Cosa significa? L’idea di fondo è che la presenza dell’inconscio, in ogni discorso, sia da cercare nel suo punto d’enunciazione. L’inconscio non è lì che aspetta di essere agganciato, ma si presenta quando affiora all’enunciazione attraverso l’interpretazione. Questo già ci fa riflettere sul fatto che la presenza dell’analista – che Lacan comincia a tematizzare nel Seminario VIII, che assume maggiore ampiezza nel Seminario XI, e che viene ripreso nel Seminario XVI – non possa essere intesa in senso semplicemente ontologico. Direi che anche nella formula proposta in Posizione dell’inconscio, – dove lo psicanalista è interlocutore dell’inconscio perché l’inconscio a lui si rivolge, e che in tal modo dell’inconscio si fa punto d’enunciazione – quel che ritroviamo è il concetto freudiano per cui lo psicoanalista consente, attraverso di sé, l’attualizzazione dell’inconscio. Attualizzare l’inconscio significa renderlo interpretabile, in un modo che non è semplicemente quello delle tavolette geroglifiche. La stele di Rosetta può aspettare millenni di incontrare Champollion per essere decifrata. Con l’inconscio le cose non stanno così, perché l’inconscio è dinamico. Credo tutti gli psicanalisti conoscano l’esperienza in cui se un’interpretazione non è colta dal paziente nel momento in cui è lanciata, è inutile insistere. Il momento è sfuggito. Per interpretare occorre prestare attenzione al Kairos, al momento opportuno. Altrimenti si fa come nella psicologia dell’Io, dove si ritiene che se il paziente non ha colto l’interpretazione è perché resiste, e allora si insiste, la si ribadisce, si vuole vincere la resistenza, senza percepire che quanto più si fa pressione tanto più la resistenza si cristallizza. L’inconscio, in realtà, diventa interpretabile solo al fuoco vivo del desiderio, e il desiderio dell’analista è la sua enunciazione. Il posto dell’analista come parvenza d’oggetto Su questo punto incontriamo anche la differenza che su questo aspetto separa Freud da Lacan. Sappiamo infatti che nel Seminario XI Lacan distingue la traslazione dalla ripetizione, e fa della traslazione qualcosa di diverso e di più che non la semplice riattivazione che riporta all’oggi i conflitti del passato al fine di interpretarli. Questo si coglie con maggior chiarezza nel Seminario XVI quando afferma che la presenza dell’analista è il nodo dell’ininterpretabile. Quando poi, nell’anno successivo, Lacan con i quattro discorsi scrive il discorso dell’analista, vediamo bene cosa questo significhi. L’analista infatti occupa nel quadripode del discorso dell’analista la posizione di parvenza di a, cioè dell’oggetto. Occupa il posto cioè di ciò che non passa per la griglia interpretativa. Per interpretare occorrono dei significanti, e i quattro discorsi sono costituiti da elementi significanti più un elemento eterogeneo che è appunto l’oggetto a, che non è interpretabile, piuttosto è ciò che sostiene l’interpretazione, che la rende possibile, che ne fa la cassa di risonanza. Su questo argomento c’è una precisazione di Jacques-Alain Miller che mi sembra importante ricordare: il fatto che lo psicanalista occupi il posto della parvenza dell’oggetto a non vuol dire che sia un surrogato, e che da un’altra parte stia l’oggetto vero. Non vuol dire che lo psicoanalista è una parvenza e l’oggetto no. Anche l’oggetto a è una parvenza, un’esca, una lusinga. Come nel castello di Atlante i cavalieri inseguono l’ombra di qualcosa che hanno perduto, ed entrando nel castello si trovano solo in una fuga di stanze vuote che li imprigiona nel loro labirinto. Così l’oggetto a non è altro che un vuoto, e non corrisponde a nessuna sostanza. Per questo Lacan lo coglie attraverso la topologia. L’oggetto anale non è la solidità dell’escremento, l’oggetto orale non è il caldo latte che sprizza dal seno. Gli oggetti a sono solo la traccia del vuoto lasciato all’origine dalla loro sparizione. L’oggetto perduto non è un oggetto che prima c’era e poi è svanito. L’oggetto a è un vuoto che forma il risucchio del desiderio, e questo vuoto è rivestito di parvenze che fanno da esca. Nella prefazione all’edizione inglese del Seminario XI Lacan lo scrive in una formula che mi pare molto chiara in questo senso: “La sola idea concepibile dell’oggetto è quella della causa di desiderio, ovvero di ciò che manca” (Autres écrits, p. 573). In atri termini: la causa di desiderio non è riconducibile a una causa fisica in qualunque forma, ma a un’assenza. Rappresentazione/vuoto A questo punto possiamo vedere bene la differenza tra il modo in cui Freud considera la presenza dell’analista e quello in cui la vede Lacan. Per entrambi si tratta si tratta di un’attualizzazione: per Freud è un’attualizzazione del conflitto, per Lacan un’attualizzazione del desiderio. Mentre però per Freud la presenza dello psicoanalista tiene luogo di un’immagine arcaica, e rappresenta una figura libidicamente investita dell’infanzia, cosa coerente con la logica in cui la traslazione è intesa come una ripetizione, per Lacan lo psicoanalista, occupando il posto di parvenza d’oggetto, tiene il luogo di un vuoto. Mentre per Freud quindi la presenza dello psicanalista è in una logica della sostituzione, di una rappresentazione al posto di un’altra, per Lacan non c’è sostituzione, non esiste un elemento finale che risolve l’interpretazione, e proprio per questo la presenza dello psicoanalista costituisce il nodo dell’ininterpretabile. Il punto d’arrivo dell’interpretazione per Lacan appare chiaramente nella lettura che dà, nel Seminario II, del sogno dell’iniezione di Irma. Non è un senso ultimo, o un senso legato alle vicende di rivalità tra medici o di sottaciuti rimproveri a Irma a cui si riferisce Freud. Questi, dice Lacan, sono tutti elementi preconsci, e non occorrerebbe mobilitare la potenza analitica dell’interpetazione dei sogni per giungervi. Il punto di fondo è piuttosto la costellazione insensata di lettere che costituiscono la formula della trimetilammina, che formano il bordo di un vuoto. La presenza di cui parliamo allora non è la presenza piena di cui ha parlato la metafisica da Parmenide a Hegel, dove per Platone, la parusia è la presenza dell’idea nel mondo sensibile, un’essenza che esclude ogni differenza, un’idea che è identica a sé. La presenza di cui parliamo nella psicoanalisi è la presenza di un vuoto senza identità, dove si inscrive la traccia di una differenza. Stili di analisi È interessante allora esplorare i diversi modi, gli stili variati con cui questa presenza può di fatto venire sostenuta. Si può leggere in questo senso il testo di Florencia Shanahan pubblicato nel n° 9 di Rete Lacan. Florencia mette a confronto la sua esperienza con due analisti diversi. Il primo è evidentemente un analista tradizionale. Questo primo analista non prende neppure i suoi dati, indirizzo, telefono, fa sedute fisse di quarantacinque minuti in un quadro ritualizzato in cui resta immobile e in silenzio. O meglio tace. È diverso tacere o presentificare il silenzio. Per esempio, in questa fase emergenziale che ha un po’ sovvertito i nostri modi abituali di lavoro, una paziente che esprimeva qualche esitazione nel passare dagli incontri abituali alla modalità telefonica mi diceva: “Il fatto è che in realtà mi rendo conto che mi curano più i suoi silenzi che le sue parole”. E aveva certamente ragione, ma il silenzio – non il fatto di tacere – non dipende dal canale comunicativo o dal mezzo tecnico. Perché il silenzio si presentifichi occorre si manifesti sullo sfondo di parole, e se le parole non si saturano di senso, ecco allora che il silenzio appare come indice del vuoto, ovvero della causa di desiderio. Se invece l’analista semplicemente tace, accade quel che segnala Florencia con molta precisione: “Ho imparato che il senso non si nutre solo di parole”. Il secondo analista, quello che Florencia dice le ha permesso di venire a capo dell’esperienza dell’inconscio, era completamente diverso. Si muoveva molto, si spostava continuamente nello studio, sminuzzava pezzettini di carta, batteva con rumorosa energia sulla tastiera del computer, rispondeva al telefono durante le sedute. Anche lui parlava poco, ma evidentemente non taceva, e questo fa sentire a Florencia che il silenzio non è semplicemente dell’Altro. Detto altrimenti i suoi borbottii, la sua agitazione, i suoi spostamenti, le sue telefonate fanno da punteggiatura al discorso della sua analizzante, permettendo quel che lei ha chiamato: “L’incontro giusto con il buco”. Per tirare le somme, l’aspetto interessante di quel che possiamo dire della presenza dell’analista di cui parla Lacan è proprio che, non essendo una presenza piena, identica a sé, non si presta a una modellizzazione. Non c’è un modo giusto di sostenere la presenza, anche se ce ne sono sicuramente di sbagliati. La smitizzazione degli standard portata avanti da Lacan trova nella presenza dell’analista una chiave particolare di lettura, perché permette di valorizzare la differenza degli stili, che è l’opposto della mentalità da sfinge innalzata dall’ortodossia tradizionale. Naturalmente, con questo, non è che everything goes, che tutto vada bene, e a ricordarcelo sempre c’è la pratica del controllo come indispensabile possibilità di messa alla prova della nostra clinica.
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