Intervento alla serata Zadig del 30 novembre 2019 a Milano, presso l'Istituto freudiano
Marco Focchi Democrazia significa divisione, e convivenza nella divisione. Lo ricordava a Torino diversi anni fa J.-A Miller riecheggiando le parole di Marcel Gauchet. La politica, nei regimi democratici, ha il compito di rendere vivibile la divisione nella realtà sociale fratturata dal molteplice di cui si alimenta la democrazia. A differenza dei sistemi totalitari, costruiti intorno all’Uno, esigenti omologazione, blindati dall’uniformità e bisognosi di conformismo, la democrazia, nelle sue versioni genuine, fa spazio alla diversificazione. Le ideologie razziste che nel secolo scorso hanno sostenuto le esperienze totalitarie in Europa, con la loro spinta alla purificazione e omogeneizzazione biologica dell’umano, sono invece il mero riflesso della necessità di sostenersi sulla colonna fittizia dell’Uno, sostegno di un’identità talmente fragile da non sopportare l’heteron, e da reggersi solo sul collante della forza di un consenso senza eccezioni.
Il nomos, su cui imposta le proprie analisi Carl Schmitt, è un altro nome della divisione o, per meglio dire, della suddivisione. Quello di Schmitt non è un nome che si possa esemplarmente invocare a patrocinio dell’idea democratica, ma il nomos della terra risponde, come la democrazia, a un principio di ripartizione in cui si congiungono ordinamento e localizzazione spaziale.
La globalizzazione, mettendo in gioco un dominio che non è più quello della terra, non si fondandosi più sulla ripartizione di confini, ponendo in discussione la sovranità degli stati, ci fa entrare in un’epoca in cui la democrazia va ripensata in tutti i suoi termini. Si è evidenziato negli ultimi decenni, e i sociologi lo hanno ben illustrato, il rovesciamento verificatosi tra economia e politica. Nel mondo globalizzato sono i flussi – di denaro, nelle transazioni finanziarie, di uomini, nelle migrazioni che in Italia ben conosciamo – a determinare le trasformazioni del nostro modo di vivere, a far sentire le urgenze, il bisogno di sicurezza che la politica non è in grado di garantire non perché scaduta, ma perché non ha più la posizione per farlo. La crisi catalana ci mostra in primo piano l’esempio di una pessima gestione politica, che ha infilato la Spagna e l’Europa in un vicolo cieco da cui nessuno sa dire come potremo uscire. Ci mostra però anche una politica che s’impenna come in un estremo tentativo di forzare, da un lato come dall’altro, una situazione che la politica di per sé non è in grado di governare. Se c’è poi un esempio più che deteriore di cattivo uso della democrazia è quello dei referendum italiani in Lombardia e in Veneto. Con il pretesto di dare la parola al popolo si convoca la cittadinanza a porre la propria croce su domande banalmente schematizzate. Si fa leva sulle pulsioni più elementari per proporre in modo trionfale possibilità già costituzionalmente previste, che non necessitano di nessun pronunciamento popolare, e per le quali è sufficiente avviare una normale trattativa tra le parti, in questo caso Stato e Regioni. E il giorno dopo cosa vediamo? Che uno dei due governatori, facendo leva sul forte consenso ottenuto, avanza provocatoriamente richieste che non erano state formulate nel quadro della consultazione referendaria. In pratica mostra apertamente l’abuso che fa del pronunciamento popolare per sostenere una campagna di bandiera. Quello che ha portato alla Brexit è poi un referendum in cui gli irresponsabili promotori hanno lanciato, senza nessun calcolo delle conseguenze, la Gran Bretagna in un’avventura che si rivela, nel suo procedere, non solo complessa ma fomite di disfatta. Cosa può dire la psicoanalisi su quello che deve essere, e che sarà necessariamente nei prossimi anni, il compito di un ripensamento della democrazia che aggiorni il patrimonio della sua tradizione alle necessità di una vita che non è più quella di Atene, della città rinascimentale o degli Stati nati dopo la Rivoluzione francese? L’insegnamento dell’esperienza psicoanalitica è che il desiderio trova le proprie vie nell’immanenza. Lacan negli anni Cinquanta ha messo in luce l’articolazione tra Legge e desiderio, ha sottolineato la funzione che il Nome del Padre ha nel legittimare il desiderio, ma negli ultimi anni la funzione del padre diventa molto meno normativa e il padre, più che essere l’autore di divieti, è la punta esemplare – non ideale – che apre la via del desiderio, che consente al soggetto di trovare la propria inclinazione. Dobbiamo ripensare quel che significa Legge alla luce dell’esperienza psicoanalitica. Il termine Legge, anche quando si parla di leggi di natura, è gravato da un forte senso teologico. Le leggi di natura sono il rispecchiamento dei decreti divini, e la natura segue le proprie leggi che sono la forma visibile di una volontà trascendente. Da questo retaggio teologico la psicoanalisi ci ha liberato. Il desiderio deriva non dalle leggi, ma dalle inclinazioni, come un corso d’acqua segue determinate pendenze. Bisognerebbe partire da questo in Europa, in un continente spaventato dalla diversità del migrante, dalla concorrenza del vicino (a suo tempo era l’idraulico polacco), da un terrorista che immagina provenire da un fuori miticamente lontano (come può essere la Siria) e che invece alleva nel proprio seno, e che fa parte del proprio tessuto costitutivo. Per quanto spinto ai margini, e proprio perché spinto ai margini, il terrorista è un heteron che invece di diventare frutto fecondo della molteplicità democratica si incista in una reazione controfobica, si arma in una vocazione autodistruttiva come solo modo di affermare un’identità senza terra, una rivendicazione talmente primaria da poter rinunciare alla vita per farla valere. Che il terrorismo non abbia giustificazioni non vuol dire che possiamo batterlo senza fare lo sforzo di capirlo, e questo fa parte del necessario ripensamento di quel che dovrà essere la democrazia in un mondo in cui non sono più i confini a determinare le suddivisioni, ma intrecci complessi di tradizioni, fedi, rivendicazioni, interessi, paure, rancori, muri interiori, prima ancora di quelli esterni promessi da Trump per allontanare dall’America i messicani a spese, vorrebbe, del governo messicano.
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