Conferenza tenuta a Madrid il 18 maggio 2018 presso la Escuela lacaniana de psicoanalisis Marco Focchi Il seminario XVII, anche se Lacan non vi fa mai riferimento è, possiamo dire, un seminario nietzscheiano. Hegel ha accompagnato le prime decadi di riflessione di Lacan, che se se ne distacca a partire dal seminario sull’angoscia. In un certo senso tutta la prima clinica di Lacan ha sullo sfondo Hegel. Basti pensare ai rovesciamenti dialettici nella lettura del caso di Dora, alle figure della Fenomenologia dello Spirito, l’anima bella, la lotta servo-padrone, la legge del cuore, ricorrenti nel Lacan degli anni Cinquanta. Nella prima fase del suo insegnamento, quando Lacan acquisisce le strutture linguistiche per chiarire il testo di Freud, lo sfondo filosofico è hegeliano. Lo è perché è una fase in cui Lacan cerca nelle risonanze del linguaggio degli effetti di verità. Quale miglior compagno di viaggio a questo scopo allora che un Hegel la cui concezione è quella di uno Spirito continuamente spinto avanti sulla strada della verità? In Hegel c’è, nei diversi momenti fenomenologici, un'inadeguatezza della verità che costituisce la spinta verso il superamento sempre in direzione di una figura superiore. C’è una costante discrepanza tra il sapere e l’oggetto, una dissonanza tra certezza e verità che obbliga la coscienza ogni volta a verificare se il concetto che si forma sia adeguato alla verità. Anche la via freudiana è una via di verità, di amore per la verità, di ricerca del nucleo di verità nel delirio, o del nucleo di verità storica nella religione. Il rapporto tra verità e religione d’altra parte è quanto mai stretto. Nel vangelo di Giovanni (8:12-30) troviamo le famose parole di Gesù “Se rimanete nella mia parola, siete realmente miei discepoli, conoscerete la verità e la verità vi renderà liberi.”
“La verità vi renderà liberi” è in fondo un’insegna anche del procedimento freudiano: il soggetto soffre di determinazioni inconsce che lo incatenano a modalità ripetitive. L’interpretazione porta in luce queste determinazioni restituendole alla coscienza e liberando il soggetto dalla schiavitù di comportamenti sintomatici dettati dai conflitti inconsci. La differenza è che Freud non dice “Se state alle mie parole conoscerete la verità”, ma piuttosto “Se attraverso me saprete ascoltarvi, allora la vostra verità potrà affiorare”. Non c’è un riferimento a un padrone della verità. Ma sicuramente la dedizione alla verità accompagna Freud ed è viva nel primo Lacan fino a questo seminario. Se la verità non viene dalla rivelazione delle parole di Cristo, viene da un insight, che è comunque una rivelazione, un’illuminazione. La verità è nascosta e si rivela, e questo è il filone che ritroviamo ancora in questo seminario, in modo critico, nella costruzione di termini come alethosfera, lathouse. Appare in modo critico perché ormai in questo seminario accanto all’orizzonte aperto in “Funzione e campo della parola e del linguaggio” troviamo delineato quel che Miller ha chiamato “Campo e istanza del godimento e dello scritto”. La verità rivela qui la sua debolezza, perché quel che l’analista deve sapere, una volta aperta questa porta, è che anche dicendo la verità, può solo mentire, perché non si può dire la verità sul godimento. Non c’è verità del godimento. In questo senso dico che questo seminario è nietzscheiano. Nietzsche, con “Il crepuscolo degli idoli” e “Al di là del bene e del male”, è stato il pensatore che per primo ha messo in questione la verità per sostituirla con quel che ha chiamato volontà di potenza. Ora, per Lacan non c’è la volontà di potenza ma, per esempio, in Kant con Sade, la volontà di godimento. Dal momento in cui nell’insegnamento di Lacan emerge il problema del godimento, la verità comincia a declinare e comincia ad apparire, anche sul piano clinico, la debolezza della verità come effetto di discorso. Questo declino della verità nella costellazione concettuale della psicoanalisi, ha delle conseguenze anche sul piano della pratica clinica perché chiama in causa un ripensamento dell’interpretazione. Nella sua concezione classica l’interpretazione rivela una verità rimasta latente. Nell’interpretazione dei sogni si passa dal piano dei pensieri manifesti a quello dei pensieri latenti, e un’aggiunta di significante fa apparire la verità del desiderio, ovvero fa entrare in gioco la dimensione del fallo. Nel sogno della Bella macellaia, per esempio, si presenta l’idea che tutto quel che è rimasto in casa è una fetta di salmone, e che se si vuol dare una cena è un po’ poco. Il salmone è però ciò che piace all’amica della Bella macellaia, e che l’amica si vieta. Lo stesso avviene per lei con il caviale. Una volta che si realizza la sostituzione tra il salmone e il caviale, una volta che il sogno crea la metafora e che l’interpretazione la decifra, appare il desiderio insoddisfatto e si presenta il valore fallico. Il caviale, possiamo dire, è la verità del salmone ma, su un altro piano, il fallo è la verità di entrambi. La verità è così collocata al posto della castrazione. L’interpretazione presuppone dunque il funzionamento minimo di una catena significante S1, S2, ha come base le operazioni di sostituzione della metafora o di combinazione della metonimia, e fa emergere la verità della castrazione. Cosa succede quando spostiamo i pesi tra verità e godimento, quando non facciamo più della verità l’obiettivo della cura psicoanalitica? Il godimento non può essere colto dal funzionamento S1, S2 perché ciò a cui giungiamo per questa via è solo la verità come castrazione, ovvero il punto in cui il godimento è perduto. Nel momento in cui l’inconscio non è più definito solo attraverso la catena significante, ed è pensato invece spostando l’accento sulla ripetizione – cioè attraverso il ritorno della marca che segna un effetto di godimento – nel momento in cui quindi il punto essenziale dell’inconscio non è più l’effetto di verità ma la produzione di godimento, è chiaro che la formalizzazione clinica dell’interpretazione in base alla concatenazione S1, S2 non è più sufficiente. Occorre allora un’altra operazione, quella che Miller ha chiamato l’interpretazione a rovescio. Questa consiste nel fatto di spezzare la catena che produce senso attraverso il meccanismo di sostituzione e di combinazione di S1 con S2. Si tratta allora di separare S1 da S2, di fermarsi a S1 facendo emergere i significanti elementari, le marche sul corpo da cui estrarre il godimento, isolando le marche che contrassegnano sul corpo il godimento. Non inseguiamo più qui il senso, ma le tracce di scrittura, e su questa via il problema della verità resta completamente sullo sfondo, perché quel che emerge è piuttosto la pulsione. Per quel che riguarda la verità, in questo seminario Lacan la riduce al suo uso formale, all’uso delle lettere V e F, vero o falso, dove la verità è qualcosa di banale: “I libri sono sul tavolo”. Se ci sono è V, se non ci sono è F. C’è tutto un piano del discorso dove questo rapporto con la verità rimane funzionale anche se sottoposto ai mutamenti determinati dallo scorrere del tempo. I libri sono sul tavolo adesso, ma tra poco li avrò spostati e non ci saranno più. Queste sono le variazioni della verità, quel che Lacan chiama la varité, con la “a”. Ma queste variazioni temporali non sono in realtà l’essenziale, perché qui si tratta di variazioni che toccano solo il contenuto della verità, e non la sua forma, il suo concetto. Per altro verso, finché la verità riguarda le essenze, tutto funziona senza problemi, poiché le essenze sono sottratte al tempo e la verità può essere definita come universale e necessaria. Quando dalle essenze si vuole passare al dominio dell’esistente, dove entra in gioco la forma del tempo, la verità come concetto va in crisi. Prendiamo l’esempio classico della questione dei futuri contingenti. Partiamo dall’enunciato: “Domani ci sarà una battaglia navale”. È vero o falso? In realtà l’affermazione non è né vera né falsa, è semplicemente possibile. Quando domani diventa oggi vedremo, e sapremo se la battaglia navale c’è stata oppure no. Se c’è stata, la negazione di questa affermazione che ieri era possibile, oggi diventa impossibile perché la battaglia c’è stata. Ma ancora: se c’è stata, l’affermazione positiva che ieri era solo possibile, oggi diventa necessaria. Diodoro Crono prende questo problema per svilupparlo nel suo “argomento vincente” e per negare il concetto di possibile. Egli formula infatti l’argomento in tre proposizioni:
Queste tre proposizioni non possono stare insieme senza entrare in contraddizione. Se vogliamo salvare il principio di contraddizione dobbiamo negare una delle tre, ed è un esercizio di pensiero sul quale la filosofia antica ha speso il suo ingegno. Il filosofia stoico Cleante per esempio, considerava di poter negare la prima proposizione. Il passato non è necessario, diceva, è fatale, e con questa differenza tra necessario e fatale poteva salvare il possibile. Crisippo invece negava che dal possibile non derivasse l’impossibile, e per farlo ricorreva a una storia d’indovini. La profezia dice che chi è nato con l’inizio della canicola non morirà in mare. Abbiamo dunque un possibile, essere nato all’inizio della canicola, e un impossibile, non morire in mare, da un possibile segue un impossibile. Sentiamo questa argomentazione forse oggi come un po’ debole, noi che non crediamo più nella profezia, ma la possiamo perfettamente adattare alla nostra mentalità scientifica. Per esempio: chi non ha una terza copia del cromosoma 21 non si ammalerà della sindrome di Down. Anche in questa formulazione, compatibile con il pensiero moderno, abbiamo una logica identica a quella di Crisippo: da un possibile segue un impossibile. Diodoro Crono si serve invece del suo argomento per abolire il possibile: per lui il principio di contraddizione è salvo solo se viene negata la terza proposizione. Possiamo vedere come questo problema non sia solo un’esercitazione intellettuale per i filosofi ma interessi direttamente la psicoanalisi e la sua pratica. Credo sia capitato a tutti gli psicoanalisti, prima o poi, di sentirsi presentare questo argomento: “Dottore, poniamo anche che i miei disagi provengano da un trauma o da qualcosa che è successo nel passato. Ormai è accaduto e non possiamo più modificarlo, quindi a che giova tornarci su?” Riconosciamo chiaramente la prima proposizione dell’argomento vincente di Diodoro Crono. Il passato è necessariamente accaduto, e se è vero che è necessariamente accaduto non possiamo farci niente. Naturalmente noi sappiamo che non si tratta di un trauma reale ma dell’incontro con il linguaggio. Sappiamo che non è il fatto oggettivo a contare, ma la risposta del soggetto, e che questa può cambiare, ma c’è, credo, una prospettiva più profonda dalla quale possiamo considerare questo tema. Se c’è un caso dove Freud si scontra con il problema della verità è il caso dell’Uomo dei Lupi. Freud si sforza qui in tutti i modi di dimostrare la verità della scena primaria nascosta dietro al sogno di Sergej Pankëev. Ne ha bisogno per reagire alla posizione di Jung che asserisce il ruolo determinante del fantasma di rinascita nella formazione delle nevrosi, e dell’eredità filogenetica a scapito degli elementi risalenti alla vita infantile del paziente. Freud mette una cura straordinaria per stabilire quando il sogno è stato fatto (prima di Natale), poiché il paziente associa l’albero che appare nel sogno all’albero di Natale. In tal modo Freud determina anche il momento esatto a cui risale la scena primaria evocata dal sogno. Il bambino infatti doveva avere un anno e mezzo, perché a quell’età soffriva di una forma malarica. L’esistenza della malattia è confermata dalla tradizione famigliare, e permette di situare l’evento in estate. Si possono quindi attribuire al bambino n + 1/2 anni, essendo lui nato a Natale. Poteva quindi avere sei mesi o un anno e mezzo, e l’ipotesi dei sei mesi è scartata da Freud come poco sostenibile. Vediamo insomma qui che, nel suo dibattito con Jung, Freud si aggrappa a tutti gli indizi più tenui per affermare che la scena è realmente accaduta, che il bambino l’ha potuta osservare e che lì, un quella scena, si ha la genesi della nevrosi. Leggendo oggi il caso dell’Uomo dei Lupi siamo ammirati da tanta acribia nella ricostruzione, anche se ci appare la fragilità degli indizi a cui Freud si aggrappa. Sappiamo anche che Freud non tiene sempre la stessa linea sulla veridicità dei fantasmi, pensiamo per esempio ai fantasmi di seduzione. Il grande sforzo di Freud nel caso dell’Uomo dei Lupi è però di presentarci il fantasma come una narrazione veridica, cioè come una narrazione di cui sia definibile il vero o il falso. Cosa sono, in realtà, le Urphantasien di cui parla Freud? Credo che dopo Lacan lo possiamo vedere con chiarezza: non sono solo fantasmi originari, sono propriamente narrazioni sull’origine. Quando si comincia a parlare dell’origine ci si trova su un terreno scivoloso, perché l’origine è precisamente quel che non ci possiamo raccontare. Non c’è racconto veridico sull’origine, ci sono solo racconti mitici. I miti, come le fiabe, sappiamo che dicono la verità, ma una verità che è indiscernibile dal falso, una verità che per dirsi deve passare per la falsificazione. Qual’è in effetti il contenuto della scena primaria? Il coito genitoriale, certamente, ma non un coito qualsiasi, collocato in qualche coordinata spazio-temporale xy. È il coito genitoriale, quello decisivo per l’esistenza del soggetto, è il coito da cui il soggetto è nato. Nella scena primaria l’Uomo dei Lupi assiste al coito da cui è nato, è presente al coito da cui è nato. È chiaro quindi che il fantasma non può essere una narrazione veridica, perché la sua formazione implica un supplemento impossibile. Lo stesso discorso vale per i fantasmi di seduzione delle isteriche. La ragazza che accusa il padre di averla sedotta in effetti si rappresenta come partecipante al coito da cui è nata. In questo l’isterica è più attiva: mentre l’ossessivo si limita ad osservare, l’isterica partecipa di persona. Lo sguardo sull’origine implica uno sdoppiamento di posizione del soggetto. Ma appare qui subito chiara anche l’implicazione di godimento. Se per un lato il fantasma fa cadere il discorso di verità perché non può essere una narrazione veridica, per altro verso vediamo che porta in sé, che coinvolge un godimento. Attraverso il fantasma il soggetto può cogliere alcune piccole scaglie di godimento. Come dice Miller in conclusione della sua bella postfazione al seminario, ci sono solo piccoli mezzi che permettono di godere, e il fantasma è senz’altro il tramite di questi piccoli mezzi. Mantiene però sullo sfondo la distesa di un godimento sconfinato, come un oceano da cui possiamo di tanto in tanto attingere qualche secchiata. Nel corso di questa lezione Lacan declina in tutti i modi e ripetutamente l’idea che il reale è l’impossibile, e nella formula freudiana del fantasma portata fino in fondo vediamo che si tratta precisamente di una scrittura dell’impossibile. Freud si perde nei labirinti della verità cercando di dare una matrice empirica all’origine, e per questo non può portare fino in fondo, fino al punto radicale, il fantasma. Se però ne spingiamo fino in fondo la logica vediamo che non ha nessun rapporto con la verità, ma piuttosto con il godimento, cioè con il reale in quanto impossibile. Vale ora forse la pena di fare qualche riflessione sul titolo che Miller dà a questa lezione: “Il potere degli impossibili”. È una scelta curiosa, perché la lezione è intramata su diversi binari e forse il più ricorrente, che fa da filo rosso, è quello della vergogna, con cui la lezione inizia e finisce. “Il potere degli impossibili” invece ricorre come espressione solo una volta, quando Lacan riferisce gli impossibili a quelli menzionati da Freud: governare, educare, psicoanalizzare, a cui aggiunge: far desiderare, che è ciò in cui consiste il discorso dell’isterica. Con questo supplemento possiamo notare che gli impossibili così presi riguardano i quattro discorsi. Governare è in fondo il compito del padrone e educare quello dell’università, gli altri due li conosciamo. Quel che Lacan dice è che quanto più si cerca dalla parte della verità, tanto più si sostiene il potere degli impossibili. Cosa vuol dire allora sostenere il potere degli impossibili? Vuol dire, credo, restare nell’impotenza, continuare a frequentare i salotti della verità, continuare ad amoreggiare con la verità per restare nell’impotenza, per non venire ai fatti con l’impossibile, cioè con il reale. Questo vale anche, o soprattutto, per la pratica della psicoanalisi. Finché si insegue la verità, finché si tratta il fantasma come narrazione veridica, non se ne esce. Lo scacco clinico della psicologia dell’Io è stato in fondo proprio questo: pretendere una veste scientifica, farsi indagatori dell’inconscio, prendere sul serio il modo di esplorazione del fantasma che Freud fa nell’Uomo dei Lupi quando, per amore della scienza, vuol trovare una controparte fattuale alla scena primaria. Spiegare fino in fondo invece la logica del fantasma porta al confronto con l’impossibile, e non per nulla Lacan definisce il fantasma come una finestra sul reale. Il fantasma non è più allora ciò che Miller definisce come una “favola freudiana” e che io ho chiamato “narrazione veridica”, ma è un mezzo, analogo al sintomo, di estrazione del godimento. L’inconscio, che qui è preso dal lato della ripetizione, non funziona allora come tramite dell’insight, ma come macchina per la produzione di godimento. Nel congresso di Rio abbiamo meno l’accento sul corpo parlante, che è stato il nostro modo di tradurre il neologismo di Lacan parlêtre. Credo che accanto a questo si tratti anche di considerare il corpo in azione, ovvero il corpo visto dal lato della pulsione. Sappiamo come comincia la storia: con il bambino che lancia il rocchetto e poi lo riprende, il Fort-Da. Freud interpreta questo movimento di andata e ritorno come un modo che il bambino si dà per controllare la situazione spiacevole dell’allontanamento della madre: non è lei che se ne va ma è lui che la lancia lontano, in effigie, con il rocchetto. Con Lacan diamo una interpretazione di questo gioco completamente diversa, ed è la prospettiva che Miller sviluppa nella postfazione. Per Lacan non si tratta di padroneggiare il dispiacere dovuto al distacco della madre, ma di marcare il tempo del dispiacere, e di valorizzare quella soddisfazione misteriosa trovata nel dispiacere che per Lacan va sotto il nome di godimento. Si pone così il problema del masochismo, che è toccato in diversi punti del seminario. Lacan lo articola per esempio, parlando dell’al di là del principio di piacere, con il godimento definito come cammino verso la morte. O ancora lo definisce come ricerca di un godimento rovinoso. In modo meno drammatizzato Miller semplicemente legge il masochismo come un modo di trarre profitto dalla sofferenza, da quel po’ di sofferenza che al soggetto serve per fargli sentire il corpo. Troviamo la stessa idea quando Lacan dice che bisogna stare molto attenti, perché si comincia con il solletico e si finisce bruciati con la benzina. Nelle pratiche masochiste la frusta, la goccia di cera bollente, le corde, raffigurano il modo in cui possono imprimersi le marche sul corpo da cui estrarre il godimento. Generalizzando vediamo come S1 sia – dice Miller – il significante che provoca e commemora un’irruzione di godimento. Queste marche sono infatti in ultima istanza il tratto unario che è come un significante isolato, senza il suo correlato, un S1 senza S2. A partire da questo S1 senza correlato credo possiamo dire qualcosa sulla vergogna, tema che intesse tutto lo sviluppo della lezione. Il punto di partenza di Lacan è l’idea che morire di vergogna sia raro. Credo che oggi purtroppo lo sia meno, perché è tornata in vigore la gogna. Non è più quella di legno che si metteva nella piazza centrale del paese, ma è quella che passa attraverso la rete. In genere è un fenomeno che tocca gli adolescenti. Si fa un video di un ragazzo o una ragazza in una festa, quando ha un po’ bevuto o ha assunto qualche sostanza, mentre è oggetto di tutti gli scherzi dei compagni, e lo si mette in rete. Oppure si mette on-line il video di una ragazza filmata mentre fa sesso, o ancora si prende un ragazzo con qualche difficoltà, qualche handicap e lo si mostra in un momento di pubblica derisione, o ancora si mette in piazza l’omosessualità di qualcuno che non ha fatto outing. Conosciamo i suicidi per disperazione che seguono all’esposizione pubblica di video di questo genere. Possiamo dire che grazie alle potenziate possibilità di esposizione consentite da internet, la vergogna è tornata a mietere vittime, e non si limita più a casi rari come a suo tempo François Vatel, il maestro di cerimonie del conte di Condé citato da Lacan e morto suicida per non aver saputo organizzare alla perfezione un ricevimento con innumerevoli ospiti in onore di Luigi XIV. Si tratta di una storia riferita da Madame de Sévigné nel carteggio con la figlia, da cui è stato tratto un film con Gerard Depardieu. Nella sua nota sulla vergogna Miller osserva che alle origini il capitalismo andava sotto il segno del puritaresimo, e implicava una condanna o una forte limitazione del godimento, considerato fonte di dissipazione, mentre era promossa l’accumulazione, come ben illustra Max Weber. Oggi il capitalismo va piuttosto sotto il segno del godimento sfrenato, e l’icona migliore viene dal film di Martin Scorsese The Wolf of Wall Street. Miller puntualizza per prima cosa, in questa nota, la differenza tra la vergogna e il senso di colpa, definendo la vergogna come un effetto primario del rapporto con l’Altro. In questo si distingue dal senso di colpa, che è l’effetto esercitato sul soggetto da un Altro che giudica. L’Altro primordiale è precedente all’Altro che giudica, o semplicemente che vede o mostra. Il senso di colpa è così messo in rapporto con il desiderio, mentre la vergogna è messa in rapporto con il godimento. In tal modo la vergogna tocca il punto più intimo del soggetto, viola quanto vi è di più riservato, riposto. Nel suo testo Miller riprende l’analisi di Lacan di una società in cui la vergogna è sparita, e l’esempio di questa situazione è il confronto di Lacan con gli studenti a Vincennes, che viene definito come osceno. L’oscenità di Vincennes è messa in contrasto con Pascal e con Kant, che mantengono invece il senso della vergogna, che lavorano per sostenerlo – e Lacan li chiama per questo valletti – che si adoperano perché lo sguardo dell’Altro conservi un senso. Perché, si domanda Miller a questo punto, la sparizione della vergogna deve mobilitare uno psicoanalista? Perché, risponde, la sparizione della vergogna cambia il senso della vita. Vatel è morto per l’onore, e ancora nella società ottocentesca l’onore manteneva un ruolo fondamentale. Se ne ha un’idea leggendo il bellissimo libro di Conrad “I duellanti”, che vede un interminabile confronto tra due ufficiali di pari grado, Armand D’Hubert e Gabriel Feraud. Per il codice d’onore il duello non può fermarsi finché non è risolto, e nel racconto di Conrad si risolve soltanto quando D’Hubert risparmia la vita a Feraud, potendone disporre dopo averlo battuto, e dichiarandolo morto senza ucciderlo. L’onore è ciò senza il quale la vita non ha più valore, e dunque è meglio perdere la vita che l’onore. La vita viene in secondo piano rispetto all’onore, e la sparizione della vergogna fa riprendere posto al primum vivere, la vita ignominiosa, la vita senza onore. Miller ritiene di poterne scrivere il matema, poiché l’onore è il significante in cui il soggetto si rappresenta, che è siglato S1. Lacan lo costruisce nel seminario come significante padrone. Questo S1 – dice Miller – è come il nostro biglietto da visita, ed è al tempo stesso come l’essere per la morte del soggetto. Quando questo biglietto da visita viene strappato ne risulta la vergogna. Quando tutti poi strappano il biglietto da visita, è la sparizione della vergogna, e questo mette in questione l’etica della psicoanalisi, perché la psicoanalisi presuppone un al di là del primum vivere. Il senso della psicoanalisi si perde senza questo riferimento all’onore, perché non è pensabile la psicoanalisi se non in funzione del suo rovescio, cioè del discorso del padrone, dove il significante padrone è insediato al proprio posto, perché per espungere attraverso il lavoro psicoanalitico questo S1 occorre che si sia innanzitutto marcato. Miller inquadra in questa luce il dibattito che Lacan ha avuto con gli studenti a Vincennes dove, di fronte a una posizione che testimonia la perdita del senso di vergogna, Lacan ha una reazione che possiamo definire aristocratica. Il dibattito si colloca così in un momento in cui il discorso dominante ingiunge di non aver vergogna del proprio godimento, in cui la civiltà abolisce la vergogna, al tempo stesso in cui vede lo sviluppo della globalizzazione insieme all’imporsi di moderne versioni dell’utilitarismo. È un’onda lunga che oggi ci sta investendo in pieno. Si potrà dire che l’idea dell’onore appare desueta a noi, nati in un mondo in cui la nobiltà – come classe sociale – è un residuo irrisorio se non ridicolo. Consideriamo per esempio che in Italia il Partito Monarchico è esistito fino al 1972, ed è poi confluito nello MSI-DN. Bisogna dire che questi sostenitori residui della nobiltà come classe non sono referenti particolarmente buoni per promuovere l’idea dell’onore. Basti pensare che si rifanno a un re fuggito a Pescara nel settembre 1943 insieme a Badoglio, lasciando l’esercito senza ordini e allo sbando. C’è però un concetto vicino a quello cavalleresco dell’onore che non possiamo considerare tramontato nella modernità, ed è la dignità – concetto rinascimentale che ha il suo conio in Pico della Mirandola con il suo Oratio de digitate hominis. La dignità si caratterizza qui proprio per il distacco consentito all’uomo dalla propria vita biologica, dal primum vivere. L’uomo può foggiare se stesso, dice Pico, nell’aspetto e nel carattere di ogni creatura: simus quod esse volumus. Non siamo soggetti al mero determinismo, e possiamo plasmarci, abbiamo di fronte il mondo del possibile. Potremmo anche aggiungere, rovesciando la proposizione di Diodoro Crono, che si tratta di un possibile che deriva dall’impossibile, da quell’impossibile del rapporto sessuale che Freud ha intravisto nella sua presentazione del fantasma senza poterlo portare fino in fondo e che Lacan ha potuto formulare con chiarezza.
1 Comment
Jean Claude
20/6/2018 03:34:25 pm
Ma la verità procede da una traccia di godimento, trascina una scheggia di reale nella parola, un esempio è l atto a cui espone . Le schematizzazioni sono sempre riduzionismi, se poi avvengono sullo sfondo della ripetizione della ripetizione si rischia davvero di perdere quel lume, che la ricerca del vero tiene faticosamente acceso.
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