Marco Focchi Conferenza tenuta a MIlano il 17 giugno 2023 presso la Sezione clinica dell'Istituto freudiano Quando parliamo di psicosi, nel Campo freudiano il riferimento d’obbligo sono le memorie del presidente Schreber. Si tratta infatti di un caso che presenta una straordinaria costruzione delirante, innalzata da Lacan alla dignità di sistema filosofico, giacché la paragona al pensiero di Nicolas Malebranche, gesuita e pensatore occasionalista del XVII° secolo. Il Dio di Malebranche, infatti, come quello di Schreber, è diverso dal Dio orologiaio di Cartesio, non si limita a dare il colpo d’avvio della creazione per poi ritirarsi lasciando che tutto vada secondo le leggi della natura, ma interviene continuamente nelle cose del mondo, con saggezza per Malebranche, in modo scriteriato secondo Schreber. Il passaggio all’atto psicotico
Meno studiato, rispetto alla logica stringente del delirio, è quell’aspetto della psicosi che si traduce in un passaggio all’atto, anche se in questa categoria può tuttavia essere classificato il caso Aimée, che fornisce il materiale su cui è costruita la tesi in psichiatria di Lacan. Di questo lato della psicosi si è invece particolarmente occupato il nostro collega José Maria Alvarez, e dobbiamo a lui la messa in luce e lo studio delle manifestazioni del passaggio all’atto che si contrappongono e che si differenziano dalle grandiose costruzioni deliranti di tipo schreberiano. È interessante notare che queste forme di passaggio all’atto psicotico sono diverse a seconda dei contesti culturali in cui si verificano. In Italia un passaggio all’atto omicida avviene solitamente in famiglia. La prima grande strage famigliare di questo tipo entrata nelle cronache nel dopoguerra ebbe luogo a Bari nel 1956, e l’autore ne fu Franco Percoco. Rinchiuso, dopo la strage, nel manicomio di Aversa, Percoco, che sterminò i genitori e il fratello, dopo molti anni fu dimesso perché considerato alla fine sano di mente, si trasferì a Torino dove trovò lavoro e si sposò. Difficile dire con quali criteri fu giudicato sano di mente alla fine della sua reclusione manicomiale. Un altro caso diventato esemplare è quello di Doretta Graneris, che nel 1975, a Vercelli, uccise a colpi di pistola i genitori, il fratellino e i nonni. Doretta Graneris si laureò in carcere in architettura e ottenne la libertà condizionale nel 1992. Famosissimo è poi il delitto di Novi Ligure, perpetrato nel 2001 da Erika De Nardo, che ammazzo la madre e il fratello. Nel 2009 Erika si è laureata in filosofia, e continua a dichiarasi innocente, attribuendo tutta la colpa a Omar, il fidanzato di allora che ha compiuto insieme a lei la strage. Il caso più recente è quello di Carlo Vicentini che, quest’anno (2023) ha ucciso la moglie e i due figli, per poi suicidarsi. Negli Stati Uniti le cose vanno in modo diverso: queste stragi escono dall’ambito famigliare e dilagano sulla scena pubblica. Tante volte abbiamo letto sui giornali come in questo paese a essere colpite sono le scuole, ma possono essere prese a bersaglio anche manifestazioni pubbliche, discoteche, centri sociali, qualsiasi luogo di aggregazione dove si trovino riunite molte persone. Queste stragi finiscono il più delle volte con il suicidio di chi le commette, e in ciò riconosciamo un po’ la sigla della condizione psicotica del protagonista. Gli stessi fenomeni in configurazioni simboliche diverse Questi fenomeni non sono nuovi, sono solo la forma moderna di fatti presentatisi già in un passato remoto, e questo spiega il riferimento ai berserkr proposto nel titolo. I berserkr erano infatti guerrieri norvegesi di forza straordinaria che, presi da raptus improvviso, sprigionando un’energia quasi sovrannaturale, potevano in breve tempo compiere una strage non di nemici, ma tra la propria gente. L’origine della forza di questi guerrieri era considerata divina, ma quando le popolazioni norvegesi furono convertite al cristianesimo i berserkr praticamente scomparvero. È quindi interessante vedere come l’affermarsi di un diverso sistema di credenze, con il passaggio dal paganesimo al cristianesimo, abbia portato alla sparizione di un impulso precedentemente considerato irrefrenabile. Quel che infatti prima era una sorta di rituale sacro, mosso da un’ispirazione che trascendeva il singolo individuo, una volta privato di significato diventa semplicemente un comportamento inaccettabile. Non si tratta soltanto di un diverso grado di tolleranza sociale o di un maggior impegno repressivo. È piuttosto l’imporsi di una diversa configurazione simbolica: quel che prima veniva considerato come sacro, successivamente, più che proibito, viene svuotato di senso e di conseguenza viene screditato, diventando impraticabile. Potremmo allora domandarci cosa negli Stati Uniti sostiene, sul piano simbolico, la possibilità di passaggi all’atto psicotici che si esprimono in forma di stragi indiscriminate. Certo c’è la facilità di procurarsi armi, c’è una società in cui l’autodifesa legittima molto più di quanto non considereremmo tollerabile in Europa, ma questo incide solo sulla frequenza di questi episodi. C’è anche una cultura della proprietà inviolabile, ma non sono gli psicotici quelli che sparano non appena qualcuno entra nel cancello del proprio giardino o quando suona il campanello sbagliato. Pensiamo alla Stand your ground, la legge che autorizza la difesa della proprietà con le armi, minimizzando le conseguenze civili. È la premessa a partire da cui, per esempio, Andrew Lester, ottantaquattro anni, spara a un ragazzo di sedici anni semplicemente perché si sente minacciato, o Kevin Monahan, sessantacinque anni, fa fuoco perché ha l’impressione di essere messo in pericolo da un’auto che sta facendo retromarcia. Possiamo solo fare delle ipotesi su un tema che richiederebbe un approfondito studio sociologico. Certamente però ci troviamo, in Nord America, con una storia che ha nel proprio passato recente, e verosimilmente in parte anche nel presente, una cultura razziale in cui la legittimazione della strage etnica ha i propri sostenitori e trova le proprie giustificazioni. Vediamo qualcosa di analogo nelle stragi che hanno sullo sfondo l’impronta dell’ideologia nazista, come quella compiuta da Anders Breivik a Oslo nel 2011. La disumanizzazione dell’altro Occorre, direi, la premessa di una cultura che contempla la possibilità di disumanizzare l’altro, di rendere dissimile il simile. Questo funziona anche a parti rovesciate, quando è l’autore della strage a sentirsi messo nella posizione del dissimile, attraverso l’emarginazione, l’umiliazione, la vanificazione della sua personalità. Tutti gli altri diventano allora la razza da sterminare, perché una rinascita possa avvenire facendo risorgere il soggetto da un suicidio corale. Il caso di Ernst Wagner È il punto centrale nel caso di cui vorrei parlare oggi, che rientra nel quadro delle descrizioni che vi ho fatto. Di solito su questi fatti non abbiamo altre informazioni al di là del fatto di cronaca o di quel che si è saputo nel passaggio processuale, sia perché, da un lato, la questione viene considerata solo su un piano criminale – come spesso avviene nelle stragi famigliari – sia perché, come capita più spesso nelle stragi indiscriminate all’americana, l’autore termina la propria azione col suicidio, e questo, come abbiamo detto, è una chiara firma diagnostica che va nel senso della mort du sujet di cui parla Lacan a proposito del caso Schreber. Nel caso Wagner invece, per una contingenza fortuita, abbiamo un seguito della storia, rispetto allo scorcio offerto dalla cronaca, che ci permette di entrare nei risvolti psicologici più reconditi. Lo psichiatra che ha potuto vedere Ernst Wagner ne riferisce il caso come di una forma paradigmatica di paranoia. In essa non si trova però l’abituale costruzione di un sistema di pensiero delirante, perché il nucleo della psicosi sfocia invece nella pianificazione meticolosa di un passaggio all’atto criminale che fu, secondo quanto disse Wagner stesso, l’opera della sua vita. Questo aspetto – nota José Maria Alvarez nel suo studio – è ciò che lo differenzia da Schreber. Sia Schreber sia Wagner hanno fatto ricorso alla scrittura, ma mentre la psicosi del primo si sostiene nella costruzione del delirio, che riesce a dargli una certa stabilizzazione, Wagner può ottenere una pacificazione solo dopo aver commesso i suoi crimini. Come Freud ha innalzato a paradigma di un tipo clinico di follia il caso di Schreber, così Wagner è diventato il paradigma di una altro modo della follia, grazie al fatto che Robert Gaupp, lo psichiatra che lo ha conosciuto, ha fatto di lui un caso esemplare. Robert Gaupp è lo studioso che ha introdotto nella psichiatria tedesca un’orientamento pluridisciplinare. È stato assistente di Carl Wernicke e collaboratore di Emil Kraepelin. Gaupp si è trovato per altro in polemica con Kraepelin sull’idea di includere diverse forme di psicosi, classificate tradizionalmente come paranoie, nel quadro della schizofrenia. Si è inoltre duramente opposto all’idea dominante che vedeva nella psicosi un processo incomprensibile. Ha insistito sul fatto che la relazione con lo psicotico deve mantenersi su un piano di empatia, considerando che è assolutamente possibile stabilire un’articolazione tra la storia del soggetto e le caratteristiche sviluppatesi nel corso della psicosi. La storia di Wagner comincia nel settembre del 1913, verso la fine dell’estate. Dopo aver tranquillamente cenato con i figli e i vicini, Wagner, entrato in casa con aria cupa, chiuse la porta a chiave dietro di sé. Nessuno è testimone di quel che successe in quella casa nella mattina del 4 settembre. Furono trovati cinque cadaveri decapitati e l’unico a poter parlare della storia era l’autore del plurimo omicidio. Ci sono invece diverse testimonianze invece di quel che è successo la notte seguente ai fatti criminali commessi dalla stessa mano omicida. Tutto si è svolto a poca distanza dalla casa dove Wagner ha massacrato la propria famiglia: si sono sentiti gli spari, l’odore di polvere, si sono visti i cadaveri coperti di sangue, e si è visto l’incendio delle case, dei granai, delle stalle. Per nessuno di questi due crimini possiamo parlare di un raptus di follia, perché tutto era stato calcolato nei minimi particolari. C’è un pacco di scritti di Wagner, risalenti all’agosto del 1913, che fu imbucato e spedito solo dopo che Wagner ebbe assassinato i suoi famigliari e si fu incamminato verso il villaggio di Mühlhausen per proseguire la propria vendetta. Questa dettagliata pianificazione dei suoi atti era stata elaborata nell’arco di quattro anni. Interrogato dal giudice, Wagner si mostrò molto tranquillo nel descrivere il piano che aveva progettato asserendo di aver avuto il fermo proposito di assassinare la sua famiglia, quella del fratello, gli abitanti di Mühlhausen, e tutto avrebbe dovuto concludersi con il suo suicidio. La parte finale non aveva potuto compiersi perché era stato assalito dagli abitanti di Mühlhausen ed era rimasto a terra come morto, fino all’arrivo della polizia che lo aveva raccolto. Nella deposizione davanti al giudice, in cui ha spiegato i dettagli del piano, Wagner ha fatto ripetutamente allusione ai motivi che lo hanno spinto al suo atto, riferendosi a certi delitti di zoofilia risalenti a dodici anni prima. Il giudice lo fece trasferire in prigione ordinando una minuziosa istruttoria. Una volta considerata la possibilità di una sua malattia mentale, Wagner venne internato nella clinica di Tubinga per realizzare uno studio psichiatrico di cui venne incaricato Robert Gaupp. Quel che sappiamo sul caso Wagner viene dalla monografia pubblicata da Gaupp, che contiene le conclusioni della sua perizia. Gaupp considerò Wagner non responsabile dei suoi atti criminali e lo fece internare a vita del manicomio di Winnental. Trattandosi di un soggetto paranoico, i motivi soggiacenti al crimine seguono una logica ferrea quanto terribile. Sin dal primo momento Wagner aveva asserito che lo sterminio della sua famiglia era dovuto alla pietà e alla compassione, mentre gli incendi e i crimini nella villaggio di Mühlhausen nascevano solo dall’odio e dalla vendetta per la diffamazione subita. Nel corso degli anni Wagner attenuò la sua posizione nei confronti degli abitanti di Mühlhausen, fino a dubitare della pertinenza della sua vendetta, ma non si pentì mai di aver assassinato i propri figli. Anzi, qualche anno dopo i fatti sostenne ancora che il suo stato d’animo era decisamente migliorato dopo averli commessi. Se fosse dipeso da lui avrebbe riportato in vita gli abitanti di Mühlhausen, ma non i figli, che dovevano restare morti: “Mi dà un gran dolore pensare che potrebbero soffrire anche solo la minima parte di quello che ho sofferto io. Oggi come oggi nessuno ha pietà delle vittime di Mühlhausen quanta posso averne io, ma la morte dei miei famigliari continua a essere una consolazione dalla mia miseria. I miei figli erano come me, quindi: cosa avrebbero potuto sperare dalla vita?” Wagner era infatti assillato dal pensiero e dal costante timore che i figli avrebbero ereditato le stesse tendenze immorali, e forse in una forma ancora più spregevole. Cosa sono allora gli atti immorali e spregevoli a cui si riferisce? La storia di Ernst Wagner comincia nel Baden-Wuttenberg, dove nasce nel 1874 in una cittadina a nord di Stoccarda. Nono di dieci figli di una famiglia contadina, perde il padre quando ha due anni. La madre è una donna frivola, promiscua, triste, pessimista, sfiduciata, propensa a contenziosi e a litigi. Wagner ha sempre riconosciuto di provenire da una stirpe malsana. Proprio per distanziarsene, sin dall’età giovanile si era impegnato a correggere la pronuncia dialettale della sua regione per trasformarla in un tedesco elegante, colto e puro. Sarà proprio questa spinta verso la purificazione a condurlo prima alla criminalità e poi al delirio creatore. Arrogante, pretenzioso, colto, pessimista, fanatico della verità e della giustizia, fedele fino in fondo alla parola data, a partire dai suoi diciotto anni s’iniziò alla pratica dell’onanismo. Per questo motivo fu sempre accompagnato da un senso di tristezza e di vergogna. A Stoccarda consultò un neurologo che cercò di decolpevolizzarlo, senza riuscire granché a convincerlo: “Combattere l’onanismo è più necessario che combattere l’alcolismo”, scrisse anni dopo Wagner. Il problema è che, oltre alla tristezza e alla vergogna, sentiva continuamente allusioni al suo modo di godimento poiché, dice: “Venivo notato”. Dai suoi scritti traspare che l’iniziazione alla masturbazione segnò un taglio decisivo nel corso della sua vita, ma il peggio doveva ancora arrivare. Wagner di mestiere era maestro, e nel 1901 fu destinato al paesino di Mühlhausen. I tormenti più terribili cominciarono proprio lì. La vergogna e le supposte allusioni all’onanismo diedero infatti adito a una serie di atti delittuosi, consistenti in relazioni sessuali con animali, di cui nessuno all’epoca era a conoscenza. “Secondo quel che mi confessò – scrive Gaupp – cominciò a commettere questi atti delittuosi qualche settimana o mese dopo il trasferimento a Mühlhausen, in ore della tarda notte e non si confidò mai con nessuno su queste pratiche aberranti.” Al tempo stesso in cui frequentava le stalle – ubriaco, per sfuggire alla compagnia di se stesso – cominciò a civettare con la figlia del locandiere. Quando si seppe che la ragazza era incinta, i superiori del maestro decisero di trasferirlo in un’altra cittadina dove restò fino al maggio del 1912. Pur avendo messo una distanza tra sé e Mühlhausen i deliri di riferimento continuano in forma di allucinazioni occasionali e in forma di parole che si rifiuta di ripetere, oltre che come pettegolezzi in cui si narrano le sue pratiche di bestialismo. Una volta compiuto il suo atto criminale, i fenomeni allucinatori di riferimento cessano, anche se in manicomio Wagner continua a lamentarsi che alcuni pazienti imitano i versi degli animali e lo fanno oggetto di insulti e vessazioni. Fino al momento in cui è stato rinchiuso ha portato con sé una pistola carica perché – diceva – se avessero scoperto le sue pratiche abiette si sarebbe suicidato all’istante. Il suicidio era stata la prima opzione considerata come via d’uscita dal suo dramma insopportabile. Quando però, in alcune occasioni, si era trovato quasi sul punto di metterlo in atto, all’ultimo momento si era tirato indietro per codardia. Scrive infatti nella sua autobiografia di aver compiuto un viaggio in Svizzera nel 1904 con l’unico scopo di uccidersi, ma che questo gli è stato impedito dalla propria vigliaccheria: “Mi trovavo sul bordo dell’abisso e mi apostrofai con i termini seguenti: sei un codardo, perché se così non fosse già da un pezzo ti saresti gettato sotto le ruote del treno.” Una volta consumati i suoi crimini, Wagner era convinto che sarebbe stato condannato a morte, e montò su tutte le furie quando venne a sapere della perizia di Gaupp che lo considerava non responsabile. Scrisse allora una lettera allo psichiatra esprimendogli tutto il suo odio. Rifiutò nel modo più assoluto di essere etichettato come malato mentale, giacché questo avrebbe implicato che la pazzia, e non lui stesso, era responsabile dei suoi atti criminali. Il caso Breivik Questo rifiuto dell’assoluzione dalla responsabilità, con la destituzione soggettiva che questo implica, è un tratto che troviamo anche nel caso di Anders Breivik, il terrorista norvegese autore della strage di Utøya. Anche Breivik ha infatti respinto la perizia degli psichiatri che lo hanno considerato infermo di mente sostenendo che i medici che lo hanno esaminato non capiscono nulla di ideologie politiche. Breivik, prima della strage, aveva infatti stilato un manifesto politico e di azione dove esponeva le sue idee islamofobe, il suo odio per gli immigrati, la sua insofferenza per l’ideologia multiculturale e per la sinistra che l’ha fatta sua. Le settantasette persone da lui uccise – ma lui dice “punite” – erano adolescenti della gioventù socialdemocratica che participavano a un raduno laburista nell’isola di Utøya. L’affermazione delle sue motivazioni politiche era per Breivik un punto cruciale, e un punto d’onore. Il fatto che gli psichiatri potessero confondere un’ideologia estrema, ma “razionale”, con un prodotto della pazzia appariva, ai suoi occhi – agli occhi di una persona che si considera fanatico, ma non folle, sostenitore dell’estrema destra, e quindi mosso da un disegno con precise finalità – un segno dell’incapacità della società in cui vive di comprendere questa ideologia, perché è una società imbevuta dell’ideologia progressista da lui odiata, che rende sordi a punti di vista diversi. Per un verso in Breivik – come in Wagner – vediamo la lucidità, la ferrea logica della paranoia, per altro verso vediamo il precipizio in un passaggio all’atto di cui sono leggibili sullo sfondo le ragioni pulsionali. C’è naturalmente una grande differenza tra Breivik e Wagner: il primo oppone ideologia a ideologia, due visioni razionali e contrarie, il secondo mette in gioco solo motivi personali. In entrambi vediamo poi che svolge un ruolo il tema della purificazione, che rimanda alla questione fondamentale in cui ha una parte maggiore la sudiceria della sessualità. In Wagner questo è esposto senza mascheramenti, in Breivik è invece incastonato in un’ideologia pretesa “razionale" che, per quante virgolette possiamo mettere a questo termine, qualifica e legittima un sistema di idee che non indietreggia davanti allo sterminio. Bisogna aggiungere che Breivik si è appellato contro la conclusione della perizia che lo dichiarava schizofrenico-paranoide, e la seconda commissione medica che ha riesaminato il suo caso ha rovesciato le conclusioni precedenti, dando ragione a Breivik e dichiarandolo sano di mente. Breivik voleva evidentemente vedere affermata la propria ideologia che, per quanto illegale, lo preservava dall’essere squalificato come pazzo, gli permetteva cioè di venire riconosciuto come interlocutore politico del sistema penale, e non semplicemente come portatore di una posizione politicamente irrilevante ed estranea alla società e alle sue leggi. Il punto è: dichiarato pazzo, Breivik sentirebbe di non essere un soggetto, perché non sarebbe responsabile dei propri atti. Su questo punto tocchiamo un aspetto filosofico e antropologico profondo. Ci sono infatti orientamenti etici dove si considera che persone spintesi a torturare e a massacrare i propri simili possano averlo fatto solo a causa di qualche patologia. Sono orientamenti che evidentemente aboliscono, in modo socratico – o agostiniano nel pensiero cattolico – l’idea di male e di malvagità. Dove passa quindi la linea di separazione fra imputabile e non imputabile? A volte si tratta di sfumature e di gradi infimi. Negli Stati Uniti un imputato non può essere considerato responsabile se il suo quoziente di intelligenza non supera i settanta punti. Teresa Lewis, per esempio, che aveva pianificato e realizzato l’omicidio del marito e della figliastra, totalizzava settantadue punti di QI, e fu dunque giustiziata con una iniezione letale il 24 settembre 2011. Il quoziente intellettivo di Breivik era stato dichiarato di ottanta punti. A questo, nelle sue dichiarazioni durante il processo, Breivik replica: “Sono qui in rappresentanza del movimento di resistenza norvegese ed europeo […] I mezzi di comunicazione e i pubblici ministeri sostengono che io abbia compiuto gli attentati perché sono un fallito, patetico e malvagio, sostengono che io sia privo di integrità, un noto bugiardo senza principi morali, che io sia un ritardato mentale e che vengo perciò ignorato da altri ideologi del conservatorismo culturale in Europa. Dicono che ho abbandonato la vita lavorativa, che sono un narcisista, un asociale, che sono affetto da misofobia [paura dello sporco e della. contaminazione], che ho avuto una relazione incestuosa con mia madre, che soffro per l’assenza di mio padre, che uccido bambini, che sono un infanticida, nonostante il fatto che io non abbia ucciso nessuno sotto i quattordici anni. Dicono che sono un codardo, un omosessuale, un pedofilo, un necrofilo, un sionista, un razzista, uno psicopatico e un nazista. Tutto questo è stato detto di me. È stato detto che sono affetto da un ritardo mentale e fisico e che ho un quoziente intellettivo pari a circa ottanta. La risposta è semplice: io ho compiuto l’attentato più sofisticato e spettacolare che ci sia stato in Europa dalla fine della seconda guerra mondiale. Io e i miei fratelli nazionalisti rappresentiamo tutto ciò che loro temono. Il loro scopo è scoraggiare altri dal fare la stessa cosa”. E in effetti il punto non è la capacità mentale o il quoziente intellettivo. Il punto è la responsabilità, perché quando viene a conoscenza della prima perizia, Breivik dichiara subito: “Voglio essere ritenuto responsabile delle mie azioni”. Infatti la sua rivendicazione è che: “La professione psichiatrica non ha nessuna esperienza di aggressori mossi da una motivazione politica, e questo è un grosso problema. Voi non sapete come ragionano i nazionalisti militanti, gli islamisti militanti, o i militanti marxisti. Si tratta di mondi separati dei quali solo pochissimi psichiatri sanno qualcosa”. In effetti si vede bene qui quale sia il punto: tutta la differenza sta nel valutare un’azione come mossa da un impulso cieco, infondato e quindi irragionevole, non riconducibile a una ragione, e per questo folle, oppure considerarla mossa da un sistema di pensiero che, pur non riconosciuto dal pensiero dominante, ha una sua architettura logica, una sua articolazione, e quindi ha anche una lucidità razionale, ha un logos, è interno a una ragione, quand’anche questa ragione non sia condivisa. Aggiunge infatti Breivik: “Non mi sono mai comportato minacciosamente con nessuno, tranne che in una finestra di tre ore il 22 luglio [data dell’attentato]. Sono educato e affabile con tutti. Il ritratto che mi hanno fatto i media, come un mostro psicotico che mangia i bambini a colazione, è un cumulo di stupidaggini, e lei – dice rivolgendosi allo psichiatra che lo interroga – non ha nessun motivo di essere in apprensione riguardo a me”. La strage compiuta è sempre stata da lui descritta, infatti, come brutale, ma necessaria. È lo stesso argomento usato da Wagner. Per lui si trattava di un necessario gesto di pietà volto a non far cadere i figli nell’abisso d’infamia che lo aveva perseguitato. Per Breivik è in gioco un altro tipo di purificazione, perché si tratta di purificare la società dai marxisti e dagli islamici. Il seguito della storia di Wagner Come già detto, Wagner è risultato pacificato dopo aver compiuto il suo crimine, anche se non è riuscito, diversamente da Breivik, a farsene attribuire la responsabilità. Dopo la pacificazione però Wagner sviluppò un delirio che nacque, germogliò in lui, in seguito alla rivelazione che ebbe leggendo il dramma di Franz Werfel Schweiger, la storia della guarigione di un criminale psicotico, o meglio della sua finta guarigione, su cui deve cadere il silenzio. Wagner riscontrò molti punti di contatto del dramma di Werfel con la sua opera Wahn, delirio. In base a queste coincidenze Wagner si formò man mano la convinzione di essere stato plagiato. A partire da questo cominciò a discettare sulle ascendenze ebraiche del drammaturgo praghese e degli editori che avevano respinto il suo manoscritto con l’evidente intenzione di nascondere il plagio. Come si vede, il tema della purificazione – razziale ora – insiste, e dopo il momento in cui questo nucleo ideativo era sfociato a suo tempo nell’atto criminale, si trasforma ora in costruzione delirante e si amplifica nella rappresentazione del pericolo in cui incorre la letteratura tedesca di essere inquinata cadendo in mani ebraiche. Bisogna purificare la lingua letteraria tedesca dalle infami contaminazioni ebraiche. Bisogna fare qualcosa, ma questa volta il delirio sostituisce il passaggio all’altro, e quindi non si tratta più di impugnare la pistola, ma la penna. C’è dunque l’identificazione di un persecutore, gli ebrei – quegli stessi che hanno bloccato i suoi libri – e una missione di purificazione, questa volta linguistica, da compiere. Motivo per cui Wagner s’impegna nella stesura di nuovi drammi e, nel 1930, s’iscrive al partito nazional-socialista. Nella storia di Wagner Alvarez mette in rilievo la differenza, la polarità che riscontriamo nella psicosi tra una certezza delirante, che dà il via a tutto un lavoro di rielaborazione, e il passaggio all’atto, che sfocia nella violenza criminale. Anche in Breivik troviamo un rapporto con la scrittura. Si tratta del progetto di un libro sul pericolo islamico in Europa, il pericolo della sostituzione etnica. Quel che tuttavia, in entrambi i casi, mi sembra più significativo, è la ricerca, la decisa volontà di veder riconosciuta la propria responsabilità negli atti criminali perpetrati, come se questi atti, decurtati della responsabilità, restassero opere senza firma, rischiando di cadere nell’anonimato, nel silenzio. Non a caso forse, per una sorta di contrappasso rifiutato, un’impossibilità di tacere sulla sua colpa togliendole la firma, ad attrarre l’attenzione di Wagner è proprio l’opera di Werfel Schweiger, che significa “silenzioso”. – José María Álvarez, “Lineas de interpretación del ‘caso Wagner’”, in Estudios sobre la psicosis, Grama ediciones, Buenos Aires 2008. – Robert Gaupp, Zur Psychologie des Massenmords, Springer-Verlag, Berlino 1914 – Marcello Introna, Percoco, Mondadori, Milano 2016. – Vincent Samson, I Berserkir. I guerrieri-belve nella Scandinavia antica, dall'età di Vendel ai Vichinghi (VI-XI secolo). Settimo Sigillo-Europa Lib. Ed, Roma 2017 – Åsne Seierstad, Uno di noi. La storia di Andres Breivik, Rizzoli, Milano 2016
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