Diversi colleghi e allievi mi hanno chiesto una traduzione della conversazione tenuta in spagnolo il 14 aprile 2020 con Luis Dario Salamone. La pubblico ora, dopo che è uscita su Facebook il 27 aprile Conversazione di Luis Dario Salamone con Marco Focchi Luis Salamone. Molti mi hanno chiesto di parlare con alcuni analisti del Campo freudiano. Marco Focchi è membro AME dell’SLP nel Campo freudiano. Poiché alcuni argentini, discendenti di italiani, mi hanno proposto di parlare con qualcuno dall’Italia, e ho pensato di parlare con te Marco. Come stai? Marco Focchi. È una domanda che in questo momento non è retorica. Oggi a Milano e in Lombardia siamo nell’occhio del ciclone, e dobbiamo adattarci, dobbiamo un po’ farci l’abitudine. Per questo non è solo una forma di cortesia chiedere in queste zone: “Come stai?”, perché sono le aree del mondo in cui si registrano il maggior numero di contagi e di decessi da coronavirus. È un problema enorme. Questo lo sai già, lo si sa, lo si legge nei giornali. Vederlo però è diverso. Io abito in una zona di Milano, i Navigli, solitamente molto affollata perché è il centro della movida cittadina, ed è sempre piena di movimento e di gente. Milano è nota come una città che non dorme mai, come New York. In questi giorni invece è un deserto, è una città deserta, è Milano-deserto deli tartari Dovremo trovare qualche soluzione per questo che non sarà solo un momento, perché durerà. Si parla di un anno. Vedremo. Intanto inizieremo i corsi dell’Istituto freudiano su Skype, come si fa anche nelle università. L’aspetto della città è assolutamente impressionante: da settimane tutto si è fermato, anche con i pazienti. Alcuni analisti, come me, già avevano una pratica di colloqui online, perché ci sono stranieri che chiedono controlli, o italiani che vivono all'estero e che vogliono fare un'analisi nella loro lingua. Già da tempo diverse persone mi hanno contattato per questo su Skype. È un mezzo quindi che ho già usato, oltre alle sedute che faccio in studio. Ora però c’è solo questo mezzo. Non tutti eravamo preparati a questo, e certamente c’è una differenza. Noi milanesi della SLP ci siamo incontrati qualche giorno fa via Skype per discuterne. Si sono espresse le posizioni più diverse, e senz’altro tutte rispettabili. Alcuni per esempio consideravano che non è possibile svolgere un’analisi online. La mia posizione è che non dobbiamo aver paura della tecnologia. La tecnologia incute sempre un po’ di timore, ci fa pensare all’apprendista stregone. È una storia che conosciamo da Goethe, ma è un tema molto più antico. Risale a Luciano di Samosata, uno scrittore greco del II secolo D.C., che attingeva però da fonti egizie. Il timore di scatenare forze che non possiamo controllare risale all’alba dell’uomo. Che cos'è infatti la tecnologia? C’è forse una tecnologia che possiamo considerare separatamente dall’uomo, come qualcosa che gli si aggiunge? Io penso di no. Tecnologia è già l’alfabeto, è tutto ciò che ci allontana dalla semplice esistenza naturale.
Se ci domandiamo quale sia la natura della psicoanalisi, posso dire che non lo so. Non dobbiamo essere dogmatici. Non si tratta per noi di preservare una supposta essenza della psicoanalisi, come fosse sempre la stessa. La psicoanalisi è una pratica calata nel mondo, in un mondo che cambia continuamente. Negli anni Venti quando Freud era ancora vivo, il dibattito verteva intorno alla suggestione. Gli analisti discutevano sulla differenzia tra il transfert e la suggestione. Perché ci si concertava su questo tema? Perché la psicoanalisi proveniva dall’ipnosi, e quindi era necessario distinguere tra transfert e suggestione per definire il campo specifico della psicoanalisi e per differenziarla dall’ipnosi. Gli analisti degli anni Venti si preoccupano di questo problema. Più tardi, intorno agli anni Cinquanta, quando nascevano le prime forma di psicoterapia breve, per iniziativa di Franz Alexander, i custodi dell'ortodossia cominciarono a preoccuparsi, e a dire: “Dobbiamo differenziare la psicoanalisi dalle altre psicoterapie.” Si sono formalizzate allora le regole del setting. Sono regole che vertono sul numero settimanale delle sedute, sulla loro durata. Sono regole, in ultima istanza, esterne, puramente formali, che non dicono nulla di sostanziale sulla pratica. Le regole del setting sono nate comunque nel dibattito degli anni Cinquanta, quando gli psicoanalisti sentivano la necessità di differenziarsi dagli psicoterapeuti che conducevano terapie brevi. Ora ci troviamo in un nuovo momento per la psicoanalisi. È un momento in cui, non sappiamo ancora per quanto, il lavoro degli psicoanalisti può svolgersi solo da remoto con mezzi tecnologici. Credo che noi lacaniani in questo siamo facilitati. Lacan fu il grande sovvertitore degli standard, e noi pratichiamo, come recitava il titolo del nostro Congresso a Commandatuba, una psicoanalisi senza standard ma non senza principi. Cosa possiamo dire sull’uso di Skype o sulla psicoanalisi da remoto? Penso che se ci atteniamo ai principi, il vero tratto qualificante in cui riconosciamo la psicoanalisi è la dissimmetria soggettiva che specifica il transfert, e questa si può senz’altro ottenere anche da remoto. È un po’ come il nostro dialogo: in questo momento dovrei essere a Buenos Aires a parlare con te intorno a un tavolo davanti a un bicchiere di vino, ma sono confinato a Milano, e tuttavia con Skype possiamo parlare ugualmente. LS. Per coloro che ci ascoltano, il riferimento è al congresso mondiale di psicoanalisi dell’AMP che avrebbe dovuto aver luogo in questi giorni a Buenos Aires e che è stato rimandato per l’emergenza sanitaria. Stiamo tuttavia facendo il possibile per lavorare insieme. M.F. Invece di bere un bicchiere di vino in un bar, ci parliamo a distanza: è un modo diverso di intrattenere un legame sociale, e questo vale anche per la psicoanalisi. Credo infatti che la dissisimmetria soggettiva del transfert possa essere realizzata anche nelle relazioni che si possono avere a distanza con Skype, o con il telefono, per questo ogni paziente ha i suoi canali elettivi. Ci sono per esempio pazienti che preferiscono il telefono perché sentono più pura la voce senza il corpo, sono riflessioni che ho sentito in questi giorni. L. S. Sì, succede così, sia per i pazienti sia per gli analisti. M.F. Credo che gli analisti debbano essere duttili, debbano adattarsi alle preferenze degli analizzanti. Per alcuni analizzanti è difficile passare a una seduta virtuale. Credo sia una questione di abitudine, perché l’abitudine è una forza gigantesca. Per esempio Lacan ha dichiarato in un'intervista a Milano [il 12 maggio 1972] che il reale non si può eliminare, ma che ci si può abituare. Possiamo dire, in un certo senso, che l’analisi, nella sua estensione temporale, è un modo per abituarsi al reale. Ci vuole tempo. In questa fase il salto è stato brusco, e alcuni analisti hanno difficoltà ad abituarsi. Credo sia questo il punto. L.S. Su questo problema ha attirato la mia attenzione il fatto che, per alcune persone, la difficoltà a passare alla modalità da remoto sia un certa scomodità, come per esempio la difficoltà dell’audio o cose simili. M.F. Credo di poter capire: per alcuni il passaggio al remoto può risultare un inconveniente. Per altri, che ho sentito sempre in questi giorni, ed è interessante registrare la loro testimonianza, è invece un tempo di pausa e di riflessione in cui si chiedono se davvero vorranno poi tornare alla loro vita precedente. È un momento in cui considerano che quel che facevano prima non era la vita che volevano, e ora che se ne rendono conto possono pensare di cambiare. Ci sono modi molto diversi di reagire alla fase che stiamo traversando. Ci sono persone in grande difficoltà, che non riescono a organizzare le loro giornate. Non vedono un orizzonte d’uscita da questo momento, e il pericolo reale amplifica le loro angosce di sempre. Freud diceva che in tempo di guerra i conflitti nevrotici sono mitigati perché le persone sono più preoccupate della sopravvivenza. Ora è però un po’ diverso. Le persone sono preoccupate per i problemi reali, ma questi per molti funzionano come un amplificatore del loro disagio di fondo. Si può reagire con maggiore angoscia. Altri invece sono traversati dal senso di colpa. Penso siano quelli che cercano un significato del male che ci sta colpendo. Qual è il significato del male? È, come sempre, di essere la frusta di Dio che ci punisce. Non è neppure necessario credere in Dio, perché l'Altro può assumere molte forme: può essere un partner, può essere un vicino, può essere il capo ufficio. Le persone che stanno cercando di trovare un significato nel male che ci colpisce in questo momento reagiscono allora con un senso di colpa. È interessante vedere i diversi modi in cui i pazienti reagiscono, perché non abbiamo una prospettiva univoca. Siamo abituati, nel Campo freudiano, a parlare dei nuovi sintomi. Ora possiamo iniziare a pensare ai nuovo paradigmi in cui la psicoanalisi potrà o dovrà entrare. È un momento importante di riflessione per noi per capire come la clinica si trasforma in questa situazione, e non dobbiamo restare nell’inerzia o abbandonarci al senso d’impotenza. L.S. Penso al tuo libro Il trucco per guarire. Sicuramente scriverai una seconda parte a partire dall’esperienza che stiamo vivendo! M.F. “Il trucco per guarire” era un'espressione di Lacan. Gli hanno chiesto in una delle giornate di lavoro della sua Scuola: “Come guarisce la psicoanalisi?” Lacan ha risposto che è necessario tempo e trovare le parole giuste, bisogna trovare le parole giuste da sussurrare con il tono giusto all’orecchio del paziente, questo è “il trucco per guarire" Chiaramente è molto diverso da ciò che si vede nelle situazioni istituzionali, dove invece di cercare il trucco per guarire, si cercano protocolli da applicare, binari in cui immettere il paziente. Questo evidenzia un'altra caratteristica della psicoanalisi. Parlavo prima della dissimmetria soggettiva come particolarità del transfert, ebbene penso che la differenza tra protocollo e trucco sia un altro aspetto significativo dei principi che guidano la nostra pratica, che è singolare, e che, in un momento particolare della cura, richiede si trovino le parole adatte al soggetto a cui ci rivolgiamo. È vero, sarebbe necessario scrivere un seguito a Il trucco per guarire a partire dall’esperienza di questi giorni. Non dobbiamo infatti avere paura della tecnologia. Per esempio, le prime ferrovie hanno cominciato a viaggiare nei primi decenni del XIX secolo. Non so esattamente a che velocità potessero andare: trenta chilometri all’ora? Cinquanta? Senz’altro non molti di più, eppure i medici del tempo mettevano in guardia i viaggiatori dagli effetti nocivi che potevano derivare all’organismo da velocità tanto elevate! Oggi abbiamo treni che filano a più di trecento chilometri orari e li prendiamo senza problemi e senza danni. La paura della tecnologia muove dall’inquietudine di fronte a ciò che può sfuggire di mano. Noi psicoanalisti siamo tuttavia in buona posizione per affrontare questa situazione, perché non agiamo a partire dal discorso del padrone, che ha bisogno di tenere tutto sotto controllo. La nostra posizione è diversa. Non siamo padroni della tecnologia, ma va bene, possiamo egualmente entrare nel suo gioco come facciamo con il linguaggio. Non è perché siamo padroni del linguaggio che possiamo guarire con le parole. È piuttosto perché possiamo scivolare agilmente sulle impercettibili onde in cui la lingua fa posto al desiderio. L.S. Una formula, ricordata da Ernesto Sinatra, dice: "Devi usare la tecnologia senza esserne schiacciato.” M.F. Questo è il tema di un grande dibattito. In filosofia inizia dopo la seconda guerra mondiale, che ci ha fatto conoscere il potenziale distruttivo della tecnologia. È stato un notevole salto. Le due guerre mondiali hanno prodotto un balzo nell'uso della tecnologia e questo senz’altro impressionò fortemente i pensatori che ne discutevano. Ma non dobbiamo limitarci solo al dibattito sviluppatosi dopo queste due tremende guerre. Negli anni Cinquanta e Sessanta, quando eravamo bambini, c’era la paura della guerra atomica. L'idea che una guerra atomica potesse accadere appariva molto concreta, se ne parlava nei giornali, alla televisione, a abbiamo sfiorato il rischio davvero da vicino al momento della crisi dei missili di Cuba. La paura della tecnologia nasce dall’angoscia per il suo lato distruttivo. La tecnologia ci fa sentire il versante della pulsione di morte. Ma questo non è il suo unico aspetto, c'è un altro lato. Potremmo definirlo il lato erotico della tecnologia? Penso di sì. Non c’è solo il lato della pulsione di morte, c’è anche un lato che riguarda la una pulsione di vita, che appare dove la tecnologia ci aiuta nella vita, ce la facilita, ce la accresce, è il lato erotico della tecnologia, ed è anche il lato in cui possiamo fidarcene e affidarci a essa. LS. Sono i fantasmi che nascono di fronte al nuovo. La fantascienza ne ha tratto alimento. Su questi fantasmi c’è una letteratura molto ricca. M.F. C'è sempre paura del nuovo, ma è la vita che ci mette a confronto con il nuovo. C'è stato un dibattito sui giornali italiani partito da un articolo di Giorgio Agamben, che ha affermato che il virus ha dato spunto ai governi per instaurare uno stato d’eccezione. Sappiamo che lo stato d’eccezione, storicamente, ha aperto la via al totalitarismo. Sono questioni che Agamben ha studiato a fondo e in modo senz’altro molto interessante. Penso però che, applicati alla situazione attuale siano un po’ teoremi, e calati nel contesto che stiamo vivendo risultano quasi illazioni avanzate senza vedere la realtà. Dobbiamo certamente utilizzare le teorie, come anche la tecnologia, ma dobbiamo sempre guardare la realtà che abbiamo di fronte, altrimenti ci troviamo a lavorare con concetti vuoti. È interessante il dibattito che si è sviluppato tra i filosofi, e Agamben è un filosofo che ammiro molto, ma la sua posizione mi è sembrata imprudente, estemporanea, che non vede l’elemento nuovo che ci si presenta perché lo affronta a partire da pensieri nati da altro e destinati ad altro. L.S. Mi rimangono molte delle cose che hai proposto, ma in particolare una che mi pare una buona indicazione: è la vita stessa che ci mette a confronto con il nuovo, come qualcosa che sempre ci eccede. Moltissime grazie Marco per questa conversazione. Non abbiamo potuto tenerla in un caffè di Buenos Aires, ma useremo la tecnologia e il nuovo per mantenerla viva. Grazie ancora e ci vedremo… quando potremo! M.F. Grazie a te e tanti cari saluti. Trascrizione di Marta Giralt
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