![]() Marco Focchi Intervento di apertura alla tavola rotonda sul tema: Psicoanalisi, per una politica dell'inclusione, tenutasi a Milano il 29 novembre 2019 presso l'Istituto freudiano Quest’anno, come vedete dal titolo sulla locandina, parleremo di una politica dell’inclusione che, credo, debba caratterizzare l’azione della psicoanalisi. Cosa significa una politica dell’inclusione? Alla luce dell’attualità e di quel che leggiamo sui quotidiani tutti i giorni è presto detto: si tratta di scegliere tra tenere i porti aperti e i porti chiusi, di prendere decisioni sull’immigrazione e, ancora, di capire come distribuire i benefici e a chi darne accesso. Cosa può dire la psicoanalisi su questi problemi? E soprattutto: perché la psicoanalisi propone una politica dell’inclusione? Cosa significa inclusione?
La prospettiva della politica classica è articolata in base ai diritti, alla sovranità, alla fondatezza della legittimità e alla creazione di consenso. Quando però l’asse si sposta dalla sovranità al governo, quando il potere comincia a occuparsi dello sviluppo, della salute, del mantenimento della popolazione, qui incontriamo allora i temi divenuti canonici della biopolitica, ampiamente sviluppati dalla filosofia italiana, che implicano un’ampliamento del pensiero e della pratica politica che si estenda fino a includere la vita. La politica si occupa allora dei bisogni della popolazione e soddisfare i bisogni diventa un metodo di controllo. Questo ci mostra come la società dei consumi sia parte, in fondo, della biopolitica, e che soddisfare bisogni indotti attraverso le operazioni di propaganda, di marketing articolate con la società dello spettacolo non significa rivolgersi a qualcosa di superfluo, di rinunciabile, di pleonastico rispetto a supposti bisogni primari. Questa differenza tra bisogni primari e bisogni indotti nelle nostre società non è più discriminante Oggi cominciamo tuttavia a vedere man mano sfilacciarsi quella che è stata fino a oggi la solida tela della biopolitica, vediamo cioè venir meno la tenuta di una politica di gestione dei bisogni attraverso il consumismo spettacolarizzato. Le previsioni ingannano e i calcoli non rispondono più nello stesso modo. Nel 2016, per esempio, gli analisti dei media più accreditati davano per certa la vittoria di Hillary Clinton, e la vittoria di Trump ha colto tutti di sorpresa. Nel novembre 2018 i Gilets Jaunes prendono alla sprovvista Macron, innescando una rivolta che dura oramai da un anno ininterrottamente, dove ogni settimana si riempiono le piazze della protesta. Ai 5 stelle gli editorialisti più seri dedicavano solo un’attenzione ironica, fino a che la marea montante del nuovo movimento ha guadagnato nelle elezioni del 2018 il 32% dei voti. Ora sono in declino, ma il fenomeno è purtuttavia significativo. Ci sono movimenti d’umore sotterranei – oggi forse neanche più tanto – che il populismo intercetta entrando nelle sfilacciature del sistema tradizionale dei partiti e che generalmente parlano la lingua della destra. Così abbiamo Donald Trump, Jair Bolsonaro, Matteo Salvini, abbiamo la marea montante del fascismo vestito a nuovo. Si dice che le destre parlino alla pancia della gente, agli impulsi più elementari, alle rivendicazioni inestinguibili, ai rancori eterni, alla paranoia che sappiamo essere costitutiva della personalità. L’ Altro malvagio si aggira strisciante in tutti noi e basta soffiare sul fuoco, risvegliarlo, nutrirlo di slogan semplici e brevi per cavalcarlo e farlo proprio alleato. Tutta una dimensione d’ombra, sotterranea, di quel che si chiama solitamente “popolo” risulta sfuggente alle analisi illuminante. Miller ha lanciato nel 2002 le sue Lettres à l’opinion éclairée come una campagna in stile XVIII secolo per risvegliare le coscienze, e quando ha ripreso questi temi durante la campagna elettorale del 2017 ha avuto successo in Francia nello scongiurare la vittoria di Marie Le Pen. Nel momento storico attuale ci troviamo comunque nella stringente necessità di prendere le misure della società di massa in cui viviamo, e dobbiamo ormai parlare non solo agli “illuminati” ma a tutti. Questo non vuol dire, come a volte viene suggerito, parlare alla pancia della gente, che sarebbe rubare il mestiere alle destre. Vediamo infatti che la risposta del grande numero non viene solo necessariamente da destra. Abbiamo il fenomeno delle sardine che, anche qui, nessun analista dei media aveva previsto. Siamo in una fase in cui la politica non può più limitarsi a parlare alle coscienze e a gestire i bisogni della gente, perché ci sono grandi movimenti tellurici che possono andare regressivamente verso la barbarie, o verso un orizzonte nuovo che ancora non conosciamo. Ciò significa che dobbiamo fare ormai una politica che includa l’inconscio, ed è la scommessa del ciclo Zadig di quest’anno. Il primo incontro è dedicato alle pratiche, cioè ai luoghi dove ciascuno di noi si trova ad operare e da cui può condurre la propria azione. Le pratiche, nella mia visione, si contrappongono ai principi e ai diritti. Le costituzioni si basano in genere sui principi. La costituzione italiana per esempio sancisce il principio del diritto alla vita, ma poi si verifica il caso Cucchi, garantisce libertà di pensiero, ma poi ci troviamo con la macchina mediatica di Luca Morisi che è fatta apposta per ingabbiare il pensiero. Se i principi proclamano degli assoluti che non sono poi in grado di garantire, tutto comincia diventare incerto. Le pratiche si basano invece sulle conseguenze, che sono molto più solide. Prenderei come punto di partenza la definizione di pratica che Lacan dà nel seminario XI: un modo di trattare il reale per mezzo del simbolico. È una definizione che si presenta già come l’annuncio di quel che sarà più tardi l’atto psicoanalitico. Quando parliamo del reale in psicoanalisi non è che ci sia un altro modo di trattarlo che non attraverso il simbolico, ma l’importante è non considerare il reale come se dovessimo tirare una linea: di qua il simbolico, di là la pulsione, o il reale. Questa è una visione semplificativa, come se raffigurassimo spazializzati il reale, il simbolico e l’immaginario e tirassimo dei confini tra l’uno e l’altro dei registri. Non è così, e non per niente Lacan li ha rappresentati nel modo borromeo, cioè in un intreccio. Non c’è un confine tra il simbolico e il reale. Piuttosto possiamo usare la nozione di limite. Il reale è il limite del simbolico. Lo si coglie solo portando al limite le risorse del simbolico, cioè in un funzionamento al di là della produzione di senso. Se vogliamo considerare una politica della psicoanalisi credo che il punto di partenza migliore sia quello di prenderla coma una pratica, e come tale ha in sé un potenziale eversivo rispetto ai protocolli del pensiero unico dello scientismo che domina oggi il nostro mondo, perché non guarda le cose da fuori, con neutrale distacco, ma si include in cui su cui lavora e, inevitabilmente, prende partito.
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