Marco Focchi Conferenza tenuta a Ravenna il 5 maggio 2013 Ringrazio dell’invito che mi porta a essere qui di nuovo a Ravenna, dopo cinque anni, come ricordava Raffaele Calabria, ed è un piacere per me ritornare in questa città, reincontrarvi come pubblico e dialogare di nuovo con voi. Olivier Carlassara, che mi ha presentato, ha ben inquadrato i temi che ho cercato di proporre nel mio libro. Si tratta in effetti di una serie di problemi lungo un filo che si sviluppa attraverso gli interventi fatti in diversi contesti. È anche una risposta al Libro nero e al clima fondamentalmente scientista che questo esprime sulla psicoanalisi. Viviamo in un’epoca che possiamo definire scientista, e questo influenza un atteggiamento mentale che si riflette nelle pratiche sociali. Tra queste ci sono le pratiche di psicoterapia, che si informano e si adeguano a questo clima. Dicevo poco fa, conversando con Calabria, come fossero diversi gli anni ’80, quando c’era un’altra impronta sociale, un’altra considerazione della psicoanalisi rispetto ad ora, e ci domandavamo che cosa fosse successo in Italia. Gli anni ‘90, per esempio, sono stati dichiarati gli anni del cervello. Si è cercato di sviluppare tutte le tecniche di studio sul funzionamento del cervello e questo ovviamente può solo incontrare il nostro favore. Dobbiamo essere contenti del fatto che si amplino le conoscenze tecniche. Le neuroscienze sono un campo nuovo all’interno della ricerca scientifica. Il difficile viene quando, a partire dallo studio del funzionamento di un organo complesso come il cervello, si cerca di applicare una metodologia scientifica il cui valore è indiscusso per il trattamento degli oggetti inerti, estendendola al campo del vivente. Durante la conferenza vedremo di capire cosa succede quando si estende questa modalità al campo del sociale, del relazionale, di tutto ciò in cui entra in gioco la dimensione soggettiva. Qui credo che il metodo scientifico incontri il proprio limite, e ogni estensione del metodo scientifico al campo soggettivo rischia una deriva totalitaria, rischia di prendere una piega, anche politica, autoritaria. All'inizio del libro ho cercato di chiarire che molti problemi trattati come epistemologici - penso agli epistemologi che si sono dedicati a studiare e criticare il paradigma epistemologico della psicoanalisi, da Karl Popper a Adolf Grünbaum - sono in realtà problemi politici.
La critica epistemologica alla psicoanalisi ha ricevuto un grande rinforzo a partire dagli anni ’80, quando si sono insediati alla leadership del paesi occidentali orientamenti governativi di tipo liberista (Regan e Thatcher) formando burocrazie perfettamente adeguate alla mentalità scientista. Dietro a un problema apparentemente epistemologico si veicola una politica, e dobbiamo farci i conti, dobbiamo considerare il problema politico che la psicoanalisi pone. Vorrei dire due parole sul titolo, Il glamour della psicoanalisi, per chiarire alcuni equivoci che possono nascere. Quando il libro è uscito ho ricevuto diverse richieste di interviste da parte di giornalisti, ma soprattutto di giornaliste di giornali di moda. Ora è vero che il glamour può essere inteso in questo senso. Con glamour però non volevo dire semplicemente che la psicoanalisi è qualcosa di moda. Volevo invece declinare l’idea del glamour articolandolo con la democrazia. Da una parte possiamo dire che la psicoanalisi ha un glamour, perché malgrado l’assedio politico ed epistemologico nato intorno a essa in questi anni, non ha perso smalto, e viene riconosciuto il suo valore culturale e clinico proprio perché non si piega al dettato scientista. Ci sono invece orientamenti terapeutici che si informano alla mentalità scientista, che si adeguano alle esigenze della burocrazia e producono modalità operative mimetiche della scienza. Dico mimetiche perché non sono procedure effettivamente scientifiche. Mettono la giacca della scienza, per applicarla a un campo dove questa gira a vuoto. La psicoanalisi non ha perso smalto perché è una forma di pensiero, non è solo pratica, e ha certamente un glamour. Ma il senso in cui volevo intendere il glamour è diverso. È articolato, come dicevo, con la democrazia. L'idea di glamour come la intendiamo oggi, come una certa brillantezza, un certo stile sexy, appariscente, un certo modo di vita un po’ sulla cresta dell’onda, e anche magari un po’ più alla mano per certi versi, ha cominciato a diffondersi dopo la Rivoluzione francese, con le guerre napoleoniche che hanno portato gli ideali della rivoluzionari in tutta l'Europa: ideali di critica sociale e di destituzione dell’aristocrazia. Prima, nel secolo XVIII, una certa eleganza, un certo rapporto con le immagini costituiva la scenografia dell’aristocratico, era riservata solo ad alcune classi sociali. Per esempio prima della rivoluzione francese certi vestiti sgargianti, appariscenti, erano privilegio delle classi superiori, non potevano essere indossati dalle classi inferiori, dai borghesi, ai quali era riservato l'abito nero. Durante la rivoluzione l'abito nero viene poi rivendicato dai borghesi come una scelta, come simbolo di sobrietà, mentre prima era un'imposizione. Con il crollo dell'aristocrazia, e con la possibilità di appropriarsi di una certa libertà nella scelta dello stile, il rapporto con l'appariscenza si diffonde e si democratizza. Non viene più dall’alto, è alla portata di tutti, e mano a mano diventa l’idea di glamour che abbiamo oggi. Il glamour è fondamentalmente democratico, perché fa cadere dall’altare il privilegio dell’apparenza e lo rende disponibile per tutti. Se il glamour è questo, cosa significa per la psicoanalisi in primo luogo? Pensiamo agi arcana imperî. Cosa sono? Sono i misteri innalzati su ciò che costituisce le fonti del potere, che da sempre nella tradizione occidentale proviene da una fonte trascendente, da un’investitura divina. Occorre mantenere nascosti gli arcani imperî, le parvenze che nascondono le fonti del potere. Mano a mano, con l’Illuminismo, con la cultura post rivoluzionaria, il potere si democratizza, e viene da altre fonti. Il contratto sociale, già con Hobbes, ma ancor più con Rousseau, è una modalità in cui potere riceve la propria investitura dal basso, dal consenso popolare. Un po' alla volta il punto trascendente di derivazione del potere resta vuoto, e il glamour è il velo su questo vuoto, è la parvenza che nasconde il vuoto. Ciò riguarda la pratica della psicoanalisi, nella psicoanalisi c’è una messa in gioco della parvenza. Le pratiche “evidence based” si fondano sulla prova. Per esempio in medicina, quando si cerca di testare la validità di un farmaco si creano dei gruppi diversificati. Alcuni assumono il farmaco con la sostanza attiva, altri no (il gruppo di controllo), e si fa così per depurare l’effetto terapeutico dalla suggestione e vedere qual è l’effettivo risultato che abbiamo dalla sostanza attiva. Non possiamo fare lo stesso con la psicoanalisi, perché in effetti la parvenza, l’effetto suggestivo vi svolge un ruolo. Non intendo ovviamente dire che ha un ruolo perché la psicoanalisi inganna. Ha un ruolo perché, nelle relazioni umane, la parvenza svolge una funzione attiva. Nella psicoanalisi l'utilizziamo all’interno della relazione di transfert. La versione classica della psicoanalisi, quella freudiana, è quella che chiamerei imperial-viennese. Freud nasce, non dimentichiamolo, in un grande impero, nell’impero asburgico, dove c’è ancora la figura dell’imperatore, dove le parvenze dell’autorità sono ancora alte. L'impero asburgico, assieme a quello inglese, è quello che sconfigge gli ideali repubblicani rimasti nell'epoca napoleonica, e deve mantenere alte le parvenze dell’autorità. La prima formalizzazione della psicoanalisi un po’ ne risente. Lo psicoanalista è come messo sul piedistallo, ha una forma di autorità distante, che viene resa esplicita nei manuali anni ’50. La psicoanalisi contemporanea scende dal piedistallo, e le parvenze non sono più quelle alte dell’autorità, ma sono tuttavia un gioco ineliminabile. Si tratta di valorizzarlo e di capire dove funziona. Il gioco di parvenze appare in particolare all’interno delle relazioni tra uomo e donna. Gli psicoanalisi hanno descritto quella che classicamente viene chiamata la mascherata femminile. La donna si prepara, si abbiglia, dispone le esche della femminilità, quando ama e quando vuole sedurre. Per altro verso abbiamo la parata maschile, la parata di potere, la sfilata, l'ostentazione della sicurezza di sé, e sappiamo quanto fragile può essere. C'è un complesso gioco di maschere che entra in scena nelle relazioni umane e tra i sessi, e occorre dargli un posto nella relazione analitica. È la funzione di quel che Lacan chiamava il semblant, di cui in fondo il glamour è la versione democratizzata. Questa è un po’ l’idea che volevo elaborare, privilegiandola rispetto a quella di moda, di fashion che ha colpito le giornaliste di cui vi dicevo. Mi sembra un argomento molto pertinente all’interno della serie che dà il titolo a questa rassegna: “Perché ci angosciamo?”. Nell'analisi che ho svolto nei primi capitoli del libro c’è infatti una considerazione fatta a partire da quel che ci angoscia. Bisogna considerare la nostra struttura sociale, dove per esempio il disturbo maggiore per cui ci viene chiesto aiuto oggi è l’attacco di panico. Fino a qualche anno le domande maggiori fa erano per i disturbi dell’anoressia, della bulimia. I cosiddetti nuovi sintomi si manifestavano specialmente in questa forma. Oggi l’aiuto ci è chiesto soprattutto per gli attacchi di panico. Perché ? Perché ci angosciamo? Classicamente si pensa all’angoscia come a una risposta di fronte a un’assenza, di fronte alla morte, a una mancanza. Ci angosciamo, sì dice, perché non abbiamo ciò che desideriamo. Lacan rovescia questa idea, e dice, se avete in mente quanto riportato sulla locandina, che ci si angoscia non tanto per ciò che ci manca, quanto per quel che è troppo pressante e ci costringe con la sua presenza. Il modello è il rapporto della madre con il bambino. Non è la mancanza della madre che angoscia il bambino. Certo il bambino piange se la madre non c’è, e ne vuole richiamare l’attenzione, ma non è questo a costituire la ragione della sua angoscia. Quando la madre è assente il bambino la desidera, vuole la sua presenza. Ci deve essere un’alternanza di presenza e di assenza della madre, perché questo permette di costituire un posto per la mancanza, che diventerà il cardine del desiderio del bambino. Il rapporto con la madre, che permette di collocare al giusto posto la mancanza, è anche ciò che permette al bambino di costituirsi come desiderante. Se vogliamo dire che c’è un rimedio all’angoscia, questo è desiderare. Il rimedio all’angoscia è il desiderio. Lacan lo chiarisce molto bene. Quando si sbilancia il rapporto di assenza e presenza, che consente di costituire una mancanza e di innestarvi il desiderio, il bambino comincia allora a essere angosciato. La madre lo pressa troppo con la sua presenza, non con la sua assenza. Ci può benissimo essere una madre assente, che non si cura del bambino. Non dà luogo a un bambino angosciato, ma piuttosto a un bambino abbandonico. Il bambino che ha una madre troppo assente, che non gli bada, che pensa ad altro, è piuttosto il bambino che scivola verso la depressione, non è certo il bambino angosciato. Il bambino angosciato, ci dice Lacan, è assediato dalla domanda della madre, è quello a cui madre fa sentire in modo stringente le proprie richieste, attraverso le cure per esempio, con le migliori intenzioni. Una madre che si occupa del bambino, ma che se ne occupa eccessivamente, trasmette attraverso queste cure la sua apprensione sul cibo, oppure il suo assillo per la pulizia. L’esempio di Lacan va proprio in questo senso. Dice infatti nelle ultime righe di questa presentazione che il rapporto dove si crea la mancanza viene fortemente perturbato quando non c’è possibilità della mancanza, quando la madre non si fa mancare abbastanza. Il bambino allora non è messo in condizioni di desiderare il ritorno della sua presenza. La perturbazione viene proprio dall'impossibilità della mancanza, per via dall’eccesso di presenza della madre, che sta sempre addosso, con una domanda che non può venir meno, con una domanda ininterrotta. L’angoscia viene da una domanda pressante, continua, ininterrotta, che non lascia spazi, perché madre viene continuamente a nutrire o a pulire il sedere al bambino. Mi sembra che questa prospettiva si possa applicare perfettamente alla situazione sociale in cui viviamo. Viviamo in una società che vuole pulirci il sedere continuamente, una società che si occupa troppo di noi, una società del controllo. È il tema noto dalle ricerche, dagli studi sociologici degli ultimi decenni, il tema della biopolitica. Sappiamo che la politica non si interessa più soltanto di gestire i beni, i territori, le cose. Si occupa della vita, e occupandosi della vita ci investe in un modo che diventa superegoico. Lo welfare state, che si è instaurato a partire dal dopoguerra, cominciando dall’Inghilterra con le riforme di Beveridge, e che si è diffuso man mano nell’Europa, è un’ottima cosa. Va benissimo, ad esempio, che ci sia un sistema sanitario che si interessa a noi, che si prende cura della nostra salute e per il quale non dobbiamo spendere una fortuna in assicurazioni, come succede negli Stati Uniti. È senz'altro una situazione di vantaggio, però qual è il risvolto di questa preoccupazione dello Stato per la nostra salute? Molto dipende dalla definizione della salute che abbiamo. Nel dopoguerra l’OMS ha voluto dare una definizione positiva della salute. Prima la medicina non sapeva cosa fosse la salute, che veniva definita solo in negativo, come l’assenza di malattia. La medicina non conosce la salute, conosce la malattia. Infatti un famoso chirurgo francese definiva la salute come il silenzio degli organi: se non c’è niente che si segnali, se un dolore non vi fa sentire che c’è qualcosa che non va, questo silenzio degli organi è la salute. È la definizione negativa per eccellenza della salute che dà la medicina. Le prime conferenze postbelliche dell’OMS in merito alla medicina preventiva affrontavano una questione che veniva soprattutto dai paesi dell’Est. Per parlare di prevenzione occorreva però dare una definizione positiva di cosa si vuol prevenire, e quindi ci si è preoccupati di dare una definizione positiva della salute. Bisogna dire che non è stata una definizione felice, perché ha dato luogo a molte polemiche. Si è definita la salute come uno stato ottimale di perfetto benessere fisico, mentale, morale, che non corrisponde a niente in realtà. Una sorta di equilibrio simile non esiste, è solo una funzione ideale. E potremmo dire: “Passi!”, si dà una definizione ideale di qualcosa a cui dovremmo adeguarci, ma rispetto a cui si sentiamo sempre in debito. Però non è semplicemente così. Se notate, negli ultimi anni si è sviluppata quella che negli Stati Uniti chiamano la medicina del miglioramento, dell’accrescimento. Non è più una medicina che cura la malattia, ma che vuole migliorare portando verso uno stato tendenzialmente ottimale. Innanzi tutto la si è applicata nello sport con farmaci che migliorino le condizioni fisiche, le prestazioni. Poi, sempre negli Stati uniti, c’è stato un esperimento con dei bambini di statura bassa, un po’ più bassi della media, ma non affetti da nanismo. Sono stati curati con un ormone della crescita atto a sviluppare la statura. La loro era normale, ma posizionata nella fascia bassa della normalità. Questa medicina del miglioramento pone in primo piano la questione: “Che male c’è a migliorare le prestazioni?” Qual è però il limite del miglioramento, verso cosa si va? Gli atleti prendono farmaci per migliorare le proprie prestazioni. Il fatto è che tutti gli atleti possono prenderli e ritrovarsi al punto di partenza. A cosa mira allora questo miglioramento? Vediamo che salta il limite, non abbiamo più un’idea della normalità. Per molti anni i parametri di non malattia per la medicina erano un po’ il criterio della normalità. Se, per esempio, gli esami del sangue sono in una certa fascia di valori, sono valori cosiddetti normali. Con la medicina del miglioramento facciamo un cammino diverso, non abbiamo più valori normali di riferimento entro i quali possiamo considerare che stiamo bene, abbiamo una direzione asintotica, che non sappiamo dove ci porta, e questo è certamente inquietante. Se riportiamo questo discorso allo Stato del welfare che si occupa di noi, che vuole la nostra salute, magari per migliorare le nostre prestazioni, trasformando la salute da diritto in un dovere, allora tutto questo diventa superegoico e angosciante. Il problema è infatti anche questo: che la salute da problema medico diventa un problema sociale. Quando parliamo di diritto alla salute siamo talmente abituati a sentirlo che non ci fa impressione, ma cosa significa in realtà? Un conto è infatti il diritto a essere curati, che fa parte del welfare State, ma il diritto alla salute risuona, se lo leggiamo in un altro modo, come il diritto all’amore. Possiamo dire che c’è un diritto all’amore, a essere amati? Sicuramente no. Non c’è nessun diritto a essere amati, perché l’amore è un dono, è fatto di un incontro, e proprio perché fa parte del dono non entra nelle competenze della legalità e del diritto. Il dono è fortuito, può venire o non venire. L'incontro felice con la persona che posso amare avviene casualmente, non si tratta di andare in un'istituzione per incontri a dire : “Voglio essere amato!”. In un agenzia matrimoniale posso avere un incontro, ma che da questo scaturisca l’amore è lasciato alla pura fluttuazione del caso, non rientra nel diritto, nell’acquisizione monetaria, o legata a un’imposizione di legge. Nella misura in cui la salute entra nella sfera dei diritti, entra in una sfera in cui l’altro versante è quello dei doveri. C'è allora un dovere di essere in forma, dobbiamo essere all’altezza delle prestazioni che ci vengono richieste, e incontriamo qui il risvolto superegoico. Questa società “madre” che, per riprendere le parole di Lacan, ci pulisce il sedere, è una società che ci assedia di richieste, è superegoica. Ho fatto per anni una consulenza in una scuola elementare e ho visto decine di genitori. La cosa più impressionante era il confronto con la condizione dell’infanzia delle persone della mia generazione. Nella mia generazione potevamo avere dei pomeriggi di vacanza, assolutamente vuoti, potevamo annoiarci, ma annoiarci era una risorsa meravigliosa. Ricordo che induceva le fantasticherie più straordinarie, le invenzioni di giochi realizzati con cose minime. Sono cose proibite nel momento in cui non può esserci spazio per la noia e tutto deve essere riempito. Ho visto bambini, molti, che avevano giornate completamente programmate, come dei manager aziendali, con qualsiasi genere di impegno formativo che avesse la funzione di plasmare. Ottima cosa insegnare la musica ai bambini o fargli fare dello sport, ma quando la giornata viene programmata da cima a fondo, ho l’impressione che vi sia una sorta di espropriazione del bambino a sé stesso, che non possa avere spazi per annoiarsi, per giocare. E questi bambini perché li portavano da me? Va detto che quando in una scuola si svolge un’attività di consulenza psicologica, tutti i problemi arrivano sul vostro tavolo. Ho visto decine di bambini ipercinetici, e ricordo i colloqui con i genitori che dicevano che il bambino non riusciva a star fermo. Per forza, perché non aveva la possibilità di fermarsi rispetto ad un’azione che continuamente gli veniva richiesta, e non aveva lo spazio per interiorizzare. Occorre un lasso di inazione perché una sfera diversa, interiore, possa crearsi, in cui il bambino investa le proprie energie in qualcosa che è mentale. Il problema è quando tutto deve scaricarsi nell’azione. Essere attivi è un’ottima cosa, soprattutto nelle società di prestazione come sono le nostre, ma se tutto deve tradursi in essere attivi non c’è più nessuno spazio di mentalizzazione, di gestione del tempo come tempo interiorizzato per il bambino. Infatti vedevo bambini che non potevano venire lasciati a sé stessi, come accadeva ai bambini della mia generazione, quando c’erano pomeriggi d’estate in cui si era assolutamente liberi di non fare nulla. Nessuno si occupava di noi, e quindi ci occupavamo di noi stessi, inventavamo spazi interiori. Questi spazi non possonò nascere se tutto lo spazio del bambino è gestito e tradotto in azione, non resta nessuna possibilità di interiorizzazione/mentalizzazione. Dove si riempie tutto lo spazio con l'azione, si soffoca ogni possibilità di interiorizzazione. Certamente anche l’azione è una carta da giocare rispetto all’angoscia, ma nel momento in cui l’azione si blocca per qualche ragione, e non ci sono altre risorse, il bambino entra in angoscia. Molti bambini ansiosi che vedevo nei colloqui scolastici erano ansiosi perché non avevano uno spazio, una interiorizzazione sufficiente per gestire la situazione di angoscia. Si creava allora un’eccitazione che non poteva scaricarsi nell’azione, unica via conosciuta che era stata loro trasmessa come via possibile di scarico. Vi dicevo appunto che è una società superegoica che si configura per noi: ci vuole sempre in forma, attivi, svegli, ci vuole sempre come a New York, la città che non dorme mai. È una società che proprio per questo diventa angosciante, perché impedisce si costituisca la mancanza che ci permette di desiderare. Un altro sintomo significativo, caratteristico della nostra epoca, è infatti quello che viene chiamato il calo del desiderio. Rispetto alla mia generazione, che ha vissuto la rivoluzione sessuale negli anni ’60 -’70, la generazione attuale non è sintonizzata sulla stessa lunghezza d’onda. Il calo di desiderio è una delle manifestazioni che più di frequente si sentono lamentare. Più spesso oggi sono le mogli che lamentano il calo di desiderio del marito. Una volta era più frequente il contrario. Il calo di desiderio è un segno della nostra epoca, è un effetto del totale riempimento che non lascia spazio per una mancanza in cui si definisca il desiderio. Viviamo in una società che non lascia spazio per una vacanza mentale, e direi che questo è assolutamente congruente con l’atmosfera, la mentalità, la cultura scientista di cui la nostra epoca è permeata. Tutto deve scaricarsi in rapporti di azione e reazione, lo scientismo è questo. La cultura scientifica è fatta di rapporti di azione/reazione, e tutto questo si traduce e si impone anche nelle relazioni umane. Abbiamo una cultura delle relazioni impostata su un rapporto di azione/reazione, dove tutto deve scaricarsi immediatamente, non c’è uno stacco, una temporalizzazione per mentalizzare e interiorizzare le cose. Questo ci dice qualcosa a proposito del tema particolare che ho proposto all’interno di questa rassegna “Perché ci angosciamo?” Riguarda il rapporto tra l’angoscia e la libertà. Qual è lo spazio per la liberta? Se seguite un po’ di trasmissioni culturali alla radio in questi ultimi anni, una buona percentuale sono fatte da dibattiti dove vengono chiamati un filosofo, un neuroscienziato, uno psicologo di orientamento mimetico della scienza, raramente uno psicoanalista, e il tema spesso è il libero arbitrio. Il neuroscienziato in questi dibattiti fa il neuroscienziato, cioè parla delle relazioni causali tra i neuroni, del funzionamento del cervello come organo. Il cervello è un organo naturale, che possiamo studiare come tale, e nella misura in cui lo studiamo, analizziamo l’insieme di azioni e reazioni, le interazioni complesse sulla base delle quali funziona. La domanda allora che immancabilmente l’intervistatore pone al neuroscienziato è: "Qual è lo spazio per il libero arbitrio? Qual è lo spazio per la libera volontà del soggetto all’interno di questa visione? Qual è lo spazio per le scelte non determinate, che non rientrano in una logica deterministica?" Le risposte variano a seconda della cultura dei relatori, ma trovo sintomatico che, con una frequenza notevole, sia questa la domanda che ricorre. Quel che si sente quando l’intervistatore pone la domanda all’ospite di turno, è l'idea di fondo, la preoccupazione, l'inquietudine che il pensiero deterministico che occupi tutto lo spazio, e se tutto è determinato, qual è la nostra libertà di scelta? Se potessimo calcolare con un computer superpotente tutte le interazioni neuronali, è il retro pensiero dell'intervistatore, potremmo calcolare prima quali saranno le scelte che faremo? È un po’ come in “Minority report” il film di Spielberg, dove si prende il colpevole prima che abbia commesso il reato, perché si riesce a capire la sua intenzione attraverso degli esseri immaginari. Con un megacalcolatore non potremmo prevedere le azioni e prevenirle in questo modo? È appunto l’idea che suggerisce “Minority report”. Io credo che il punto sia proprio questo, una cultura che totalizza il determinismo è una cultura che non lascia spazio a una soggettività. Questo distingue la clinica psicoanalitica dalla clinica medica, o da tutte quelle forme di psicoterapia che tendono a formularsi in modo mimetico alla scienza. La clinica psicoanalitica si articola con la soggettività, con la dimensione singolare, irriducibilmente unica della soggettività. Non ricade nelle possibilità di calcolo della statistica, del determinismo, e mette in gioco una componente non calcolabile. In un’epoca in cui tutto deve essere calcolato, e in cui nella gestione della salute mentale abbiamo parametri che correlano il tempo della cura con le pratiche di cura, e quindi con i costi, tutto viene parametrato in base ai costi/benefici. Per questo deve essere calcolabile. È chiaro che una clinica articolata con la dimensione del soggetto mette in gioco un aspetto che sfugge al calcolabile. Questa è la particolarità della clinica psicoanalitica, e per questo generalmente la presentiamo come articolata con l’etica. Cosa vuol dire? La clinica medica si occupa dei sintomi, delle sindromi, delle patologie. Cosa c’entra l’etica con tutto questo? Gli ospedali sono pieni di comitati di etica, ma sono qualcosa di diverso, devono occuparsi di quali limiti diamo a una pratica che potenzialmente può andare molto al di là. Ad esempio nell’ultimo forum che abbiamo avuto a Bologna, a febbraio 2013, c’era la testimonianza molto interessante di un chirurgo che si era trovato a dover separare due gemelle siamesi, e si rendeva conto che questa separazione sarebbe costata la vita dell’una o dell’altra. Era una decisione difficile da prendere, non tanto sul piano clinico, dove le tecniche di realizzazione per salvare una vita non mancano, perché altrimenti sarebbero morte entrambe, ma sul piano etico, in un ambito estraneo alle possibilità decisionali della clinica. Era una decisione che andava al di là del sapere e della capacità tecnica del chirurgo di intervenire sul piano clinico, riguardava un ambito ambito etico, e per questo il chirurgo era andato a consultare alcune personalità morali che lo potessero orientare, che gli dicessero se era un'intervento che doveva o non doveva fare. Nella cinica medica perciò i piani tecnico ed etico sono diversi, sono separati. C’è la clinica con le sue possibilità tecniche, la sua prassi, e c’è l’etica su un altro piano, e si va a consultare un altro per decidere se è il caso di intervenire oppure no. I comitati di etica in un ospedale definiscono i limiti entro cui le potenzialità operative della medicina possono esercitarsi oppure no, dicono se è bene fare una cosa che è tecnicamente possibile fare, o se è meglio non farla anche se è possibile. È diverso con la psicoanalisi, perché non c’è questa separazione. La clinica psicoanalitica include l’etica, lo psicoanalista non va da una personalità esterna a chiedere: “Devo fare questa interpretazione oppure no?”, perché la dimensione della scelta è già inclusa nelle operazioni stesse della pratica analitica. Vediamola un po’ più a fondo. Una persona viene in analisi perché ha dei sintomi, dei disturbi, una sofferenza di cui vorrebbe liberarsi, e sappiamo che mettendo in gioco certi meccanismi, certe determinazioni dell’inconscio, liberiamo delle verità che hanno un effetto. C'è una parte della psicoanalisi che è rivelazione di una verità, svelamento di meccanismi inconsci con un effetto di sollievo per il soggetto. È la parte più classica della psicoanalisi, che ha il suo paradigma nei primi grandi casi che Freud e Breuer avevano trattato negli Studi sull’isteria. Anna O ad esempio è un classico caso di trattamento attraverso la verità. È il nucleo centrale che costituisce il modello della psicoanalisi. Anna O ad un certo punto presenta un sintomo di idrofobia, rifiuta di bere, è estate, fa molto caldo e malgrado sia disidratata non riesce a mandar giù un goccio d'acqua, ha un rigetto, non può accostarsi ad un bicchiere. Breuer, il medico che la segue, la mette in ipnosi e fa emergere un ricordo, un’immagine dove la paziente dice di aver visto il cagnolino della governante, persona che lei detestava, bere da un bicchiere. Questo aveva provocato in lei nausea, repulsione, ma non aveva detto niente, perché era una ragazza ben educata, e non ci si esprime aggressivamente con la governante. Da quel momento però non è più riuscita a prendere acqua da un bicchiere. Il disgusto provato in quel momento è stato cancellato dalla coscienza, è stato rimosso, ma è rimasto presente come sintomo di una fobia, di un rifiuto, di una impossibilità non consapevole di bere acqua. Nel momento in cui Anna viene resa consapevole di questo ricordo, quando la sua situazione attuale viene collegata con l’evento che l’ha determinata, il sintomo scompare. Si tratta quindi effettivamente di una terapia della verità: rendiamo manifesti i ricordi nascosti e questi, che erano stati rimossi e il cui posto era stato supplito dal sintomo, riprendono la loro titolarità e il sintomo non serve più e sparisce. In fondo qui c’è una sorta di aspetto deterministico della psicoanalisi: nel momento in cui togliamo determinate rimozioni, togliamo il velo a certe verità, a certe esperienze rimaste nascoste, possiamo per così dire che automaticamente il sintomo scompare. Questo è il lato, permettetemi il termine, facile della psicoanalisi, è il lato facile perché le cose non si fermano lì. Se il soggetto cercasse solo il proprio bene, il proprio, piacere, se fosse, come diceva Socrate ai suoi tempi, che il soggetto fa il male perché non conosce il bene e se conoscesse il bene, lo farebbe a basta, le cose sarebbero lineari. Basterebbe far sapere al soggetto qual è il proprio bene e il soggetto seguirebbe questa via. Ma Freud incontra con qualcosa di diverso, qualcosa per cui il soggetto non sceglie semplicemente la via del piacere. Perché un soggetto non segue la via del piacere? Perché, si potrebbe dire, non sa qual è la via che lo porta al piacere e al benessere, e una volta tolta la cortina dovrebbe seguirla spontaneamente. Freud invece trova che qualcosa ostacola questo cammino lineare. C'è un ostacolo, ed è che il principio di piacere non è il solo a reggere l’essere umano. C'è qualcosa al di là del principio di piacere. Cosa c’è al di là del principio di piacere? Lo sappiamo, c'è la pulsione di morte. In termini semplici cosa vuol dire al di là del principio di piacere? A me piace bere un bicchiere di vino, mi fa piacere accompagnare una buona portata con un buon vino. Però se il piacere di un bicchiere di vino mi porta a cercarne un secondo, e poi un terzo, e poi tutta la bottiglia, allora questo piacere va un po’ al di là, e la ricerca del piacere, al di là dei limiti in cui il piacere può essere tale, si rovescia e diventa danno. L'ala di là del principio di piacere che Freud trova nella sua ricerca, mostra come ci sia qualcosa che non va soltanto in senso positivo, e che non basta svelare al soggetto la via lungo la quale può incontrare il proprio piacere, il proprio bene. Questo bene si rovescia infatti, se salta un limite, in danno, e diventa autodistruzione. Bere un bicchiere di vino mi fa piacere e allegria, ma se bevo tutta la bottiglia comincio a danneggiarmi il fegato e mi distruggo. Questo mostra la logica della ripetizione che, accanto al principio di piacere, governa l’essere umano. Sulla via del piacere incontriamo un ostacolo, e non basta svelare al soggetto la via del proprio benessere, perché questo si rovescia in la via classica della terapia della verità che Freud aveva riconosciuto in modo esemplare con Anna O sfocia in un'impasse. Troviamo ricordi rimossi, le dimensioni e le strutture latenti dell’inconscio del soggetto, le portiamo alla luce e tuttavia incontriamo al tempo stesso delle resistenze. Il soggetto riconosce quel che gli mostriamo, ma c’è anche quella che Freud chiamava reazione terapeutica negativa. Il transfert si sviluppa negativamente, c’è qualcosa che impedisce di andare nella direzione imboccata. Occorre allora un lavoro diverso, occorre una rielaborazione, occorre tempo. La terapia della verità non è sufficiente, non c’è soltanto il fatto di disinnescare un determinismo inconscio per arrivare alla guarigione, c’è qualcosa che va la di là. E che cosa va al di là? Cosa è che quando al soggetto vengono mostrate le forze da cui è governato, gli impedisce di seguire la via che sarebbe per lui più favorevole? Sono certe scelte soggettive. Quando abbiamo chiarito il campo, quando siamo arrivati alle fonti della verità soggettiva, vediamo allora che il nostro lavoro non solo non è finito, ma comincia lì, perché vediamo allora entrare in gioco le scelte soggettive. Per esempio una paziente viene e mi dice : “Sono depressa”, allora chiedo: “Quando? Come si manifesta la depressione?”. Emerge allora che è depressa la domenica, perché il marito resta a casa. Si comincia a capire di più. Questo matrimonio non funziona. La paziente non si priva di altre relazioni, ma resta tuttavia nel matrimonio, che è una fonte di infelicità e insoddisfazione. Se parla con le amiche le dicono la cosa più naturale del mondo: “Perché non ti separi?” E talmente chiara la correlazione tra l’attuale infelicità e la relazione matrimoniale! E tuttavia no, non si vuole separare. E perché? Perché le cose non sono così semplici, non funzionano come causa ed effetto, ci sono delle scelte in gioco, e qual è il retroscena? Questa donna, nata in un paesino, ha un certo temperamento. È molto bella, e veniva notata ovviamente nel paese. Era molto corteggiata, e assecondava i suoi corteggiatori. A Milano, in una grande città, nessuno la noterebbe e avrebbe niente da ridire, ma nel piccolo paese le aveva dato cattiva fama, era trattata un po' come una sorta di prostituta, e non era solo l’opinione del paese. La stessa cosa le dicevano il padre e la madre. Si portava dietro così questo marchio di ragazza non per bene, che nessuno avrebbe sposato. Ebbene un giorno incontra qualcuno che la sposa, qualcuno che le dà uno stato non solo sociale, ma morale, soggettivo, che riguarda il suo essere, le dà uno stato che la porta fuori dalla condizione di denigrazione perenne in cui aveva vissuto e vi si attacca. È vero che il suo matrimonio diventa infelice, che è depressa la domenica. Ma nel momento in cui siamo arrivati alla determinante inconscia, nel momento in cui abbiamo chiarito questo quadro, lei si trova di fronte di nuovo alla scelta. Può lasciare questo marito e seguire un’altra via, ma cosa succede se lo fa? Si ritrova sotto la stessa etichetta da cui il matrimonio l’ha salvata. Il matrimonio è stata una soluzione per lei rispetto allo stato di degradazione morale in cui veniva messa dalla voce del paese e dei suoi genitori, da questa etichetta che era entrata talmente dentro di lei da far parte del suo essere, e da cui invece il matrimonio la tirava fuori. Per cui quando arriva alla scelta che agli occhi del mondo sembra la più facile e la più ovvia, accade che per lei è una scelta impossibile. Non può staccarsi dal marito, non vuole, preferisce la sua condizione matrimoniale, con degli spazi di svago naturalmente, ma il matrimonio la mantiene al di fuori da quella condanna morale che l’aveva affondata negli anni dell'adolescenza. Vedete bene cos’è l’operazione di analisi: è chiarire sì il terreno, fare emergere delle verità, fare emergere l’inconscio del soggetto, ma questo non produce nessun automatismo. Semplicemente riporta a delle condizioni in cui il soggetto può ripetere una scelta, gli ridà la possibilità di fare una scelta, gli dà una libertà. Quando il soggetto agisce sotto la condizione sintomatica, non ha libertà, è determinato da cose che gli sfuggono. Quando però lo riportiamo alle fonti di questa determinazione, quel che vediamo non è lo scatto di un automatismo che fa partire una situazione diversa. Quando arriviamo al punto in cui il soggetto ha fatto una scelta, gli si presenta il prezzo di quella scelta, e la nuova valutazione che può fare può portarlo a ribadire la scelta precedente e a volere la condizione in cui si trova, come è stato per questa donna. Non soffriva più tanto di depressione dopo, perché vedeva il vantaggio di restare nella sua condizione. Prima non lo vedeva, lo sentiva, e ne pagava anche il prezzo. Ora che vedeva il vantaggio, accettava anche le possibilità di fuga che prima le sembravano torbide, e che non poteva vivere con piena soddisfazione. Pur ribadendo la scelta precedente, può restare nel suo matrimonio, che all’inizio si era presentato come sintomatico, e la sua condizione migliora. Vedete quindi che in realtà non è la distruzione del sintomo a portare un effetto terapeutico, ma è il ricollocarsi e il fare di quel sintomo qualcosa che invece è un vantaggio. Prima era il peso della sua vita, adesso è qualcosa che sceglie liberamente, che è lei a ribadire, di cui non è più prigioniera. In questo senso, in uno dei capitoli del libro, un tema che ho sviluppato abbastanza ampiamente è l’idea che la psicoanalisi non è una terapia soppressiva del sintomo. La medicina è necessariamente una terapia soppressiva del sintomo, perché il sintomo implica una disfunzione, può essere un'infiammazione, una lesione, ecc. Si tratta allora di riportare il paziente allo stato precedente al momento in cui il sintomo è insorto, è la restitutio ad integrum, la restituzione dell’integrità dello stato precedente a quello in cui si era manifestato il sintomo. Non è questa la via che segue la psicoanalisi, e non è questo ciò in cui consiste l’effetto terapeutico della psicoanalisi. Il problema non consiste nell’eliminazione del sintomo, perché questo in ultima istanza è un segno, e su di esso si costruiscono molte cose che possono diventare sintomi in senso patologico. Questo non vuol dire che debbano essere cancellati perché il soggetto smetta di soffrirne. Il sintomo può essere reimpiegato diversamente. Per esempio. facendo riferimento ad un altro caso clinico - il riferimento agli esempi clinici mi sembra che chiariscano maggiormente queste idee - vi parlerei di una ragazza che si presenta con degli attacchi di panico. E’ una giovane veterinaria che ha degli attacchi di panico nel momento in cui il fidanzato, che viveva in un’altra città, si trasferisce a Milano. Questo comincia ad angosciarla. Verrebbe da obiettare: "Come? finalmente ha il fidanzato vicino, lo può vedere più spesso, dovrebbe essere contenta!” No, non è così. Se teniamo conto della lettura di Lacan, lo capiamo bene. Lacan dice che la madre che assilla, che è troppo presente, è la madre angosciante. Questo però non si riferisce necessariamente solo alla madre. Può essere la persona che ci è più vicina, che amiamo per molti versi, ma da cui vogliamo tenere una certa distanza. Alla ragazza andava bene che il fidanzato fosse in un’altra città, ma quando comincia ad essere nella sua stessa città ne sente la presenza come incombente, come oppressiva. Non è che non lo ami, che ami un altro, ma lo vorrebbe meno presente, vorrebbe poterlo desiderare di più. Sentivo alla radio, mentre venivo a Ravenna, l’intervista con uno scrittore spagnolo di grande successo in questo momento, Javier Marías, che parlava di un suo libro e della sua vita al tempo stesso e di come per scrivere attinga alla sua esperienza personale. Commentava il passaggio di un suo libro che descrive come ci si sveglia, la moglie che si trova accanto, e come reincontrarla non sia una scoperta perché la si è già vista la sera prima, e la sua bellezza è sempre lì. Non c'è spazio per il desiderio, per la rivelazione, per l’incontro, perché dalla prima immagine della giornata all’ultima lei è continuamente presente. Questa è la ragione per cui, diceva, non mi sono mai sposato. Ho avuto fidanzate con cui non ho convissuto, perché volevo la gioia di alzare il telefono e chiederle di esserci, volevo desiderare la loro presenza. C’è invece chi ha bisogno di avere sempre la presenza del partner, è un’altra possibilità di vita. Questo per dirvi che questa ragazza comincia ad avere gli attacchi di panico nel momento in cui sente di non poter più desiderare il fidanzato perché è troppo vicino. Quando se ne rende conto comincia a fare dei sogni e uno di questi per me è stato assolutamente illuminante. Sogna un pappagallino di cui lei si sta prendendo cura, va a dagli da mangiare e il pappagallino comincia a beccarla, a farle male. Era chiaro che questo pappagallino era lei stessa. Il pappagallino le faceva male e le lasciava dei segni, e conoscendo la sua storia si capiscono le ragioni del segno. La ragazza dice infatti di essere sfregiata. Quando lo diceva l’avevo di fronte, non eravamo ancora passati al lettino, ma non l’avrei sicuramente descritta come una persona sfregiata. È però come si descrive lei, perché da bambina aveva avuto un incidente: si era rovesciata una pentola d'acqua bollente sulla faccia ed era rimasta ustionata. Questo, a suo dire, le aveva lasciato dei segni indelebili, per cui si era sempre sentita osservata da bambina. Si era sempre sentita in difficoltà e diversa da tutte le altre per il segno che si porta ancora addosso. In effetti, nel momento in cui mi fa questo discorso, riesco a vedere il lievissimo segno rimasto di questa scottatura. Vi garantisco che era assolutamente al limite dell’impercettibile, ma che per lei era un segno deturpante. Questo segno è un po’ la metafora di ciò che segna ciascuno di noi all’inizio della vita, in un modo o nell’altro, è il segno che ci resta dall’incontro con il linguaggio. L’uomo è un animale parlante, ma non nasce parlante, incontra il linguaggio, e questo ha effetti destabilizzanti sull'istinto. L’incontro con il linguaggio mette in disordine l’istinto. L'uomo è infatti l’unico animale che non funziona attraverso l’istinto, non è guidato in modo istintivo. Quando si è posto il problema di tradurre il termine freudiano trieb vi è stato un grosso dibattito, perché il termine trieb non indica lo stesso istinto che governa l’animale, indica qualcosa di diverso, lo traduciamo infatti pulsione. Perché non è lo stesso istinto degli animali? Proprio perché l’uomo incontra il linguaggio con il suo effetto disorganizzante. C'è un solo istinto all’inizio della vita per il bambino ed è quello della suzione. Poi però l’uomo si orienta, trova la propria via attraverso il linguaggio, che è evidentemente qualcosa di molto diverso dall’istinto. Possiamo dire quindi che l’incontro con il linguaggio è traumatico. Freud parlava di trauma e pensava alla seduzione originaria, evidentemente cercava di dare una narrazione per il trauma. Il trauma è semplicemente il fatto che entriamo nel linguaggio e questo lascia un segno per come perturba il nostro rapporto con il godimento, destabilizza il nostro rapporto con il piacere, fa perdere il sicuro binario per cui l’animale mangia finché è sazio, copula quando deve riprodursi. L'ani,ale resta nella giusta misura, entro i limiti definiti dal binario istintuale. Se c’è un al di là del principio di piacere per l’uomo è proprio perché questo binario che è l’istinto va in pezzi, esplode a contatto con il linguaggio. Resta una perdita, e la ripetizione è il ritorno ribadito continuamente al segno della perdita, che può diventare ciò su cui si costruisce il sintomo. Il lavoro analitico va dunque in direzione di decostruire l’impalcatura sintomatica per restituire la purezza di questo segno, che è un segno di godimento. Perché la psicoanalisi non è una terapia soppressiva del sintomo, che cancella il sintomo? Perché il sintomo portato alla sua essenzialità è puramente un segno di godimento, qualcosa a cui il soggetto può raccordarsi per ritrovare soddisfacimento, in un al di là del principio di piacere che cerca sempre di farci superare i limiti. È il motivo per cui c’è qualcosa di nocivo nel godimento. Il piacere è diverso dal godimento, il piacere è nella regola, è quel che possiamo fare nella giusta misura. Il godimento è al di là dei limiti. Al di là del principio di piacere significa non solo la pulsione di morte, come si esprimeva Freud. Lacan ha messo nel capitolo della pulsione di morte anche il godimento come eccesso, un eccesso rispetto alla regolarità, alla normalità, alla misura del piacere, al punto che risveglia l’angoscia. Per questo l’angoscia non riguarda un’assenza, ma sorge in presenza dell'oggetto. La prima immagine è quella della madre, quella giustamente presentata in queste prime righe riportate nel volantino. In modo più strutturale possiamo vedere come l’angoscia nasca da quel superamento dei limiti l'al di là del principio di piacere, dove si costituisce il godimento come eccesso, come staccato da tutto ciò di cui si può prendere le misure in termini di linguaggio, di domanda, come richiesta, come desiderio, come comunicazione. Il godimento va ad occupare il posto vuoto al centro di tutte le cose che diciamo, il posto vuoto intorno a cui gira il linguaggio. È l’incontro con questa pienezza a costituirsi come angosciante, perché ottura la possibilità di desiderare. Finchè riusciamo a parlare, a esprimere la domanda, ad articolare il desiderio, possiamo continuare ad inseguire ciò che desideriamo, e questo ci tiene vivi, ci porta avanti, ci sostiene. Quando questo posto vuoto si occlude, quando questo eccesso riempie la mancanza, allora abbiamo l’effetto di angoscia, ci sentiamo ridotti al nostro corpo, come dice Lacan. L’angoscia è quando ci si sente ridotti né più, né meno che al corpo. Questo significa che per vivere dobbiamo trascendere la nostra mera corporeità. Desiderare vuol dire non limitarsi alla pura corporeità, cercare qualcosa che ci manca. Se prendiamo il corpo come organismo non manca niente, ma si tratta di qualcosa che ci manca come complemento, come aggiunta, che può essere incontrato in momenti rari. Quando si chiude lo spazio del desiderio, si produce l’effetto di angoscia. Che rapporto ha questo con la libertà? Lo vediamo meglio se consideriamo la logica della psicosi. Freud ha preso le mosse studiando i casi d'isteria, è patito con la nevrosi. Lacan ha fatto le prime mosse partendo dalla psicosi. Cosa è la libertà? La libertà è uno dei temi su cui la tradizione occidentale ha di più riflettuto. Se lo riassumiamo in due parole, già a partire da Aristotele la libertà è avere in sé la propria causa. Se una persona è condizionata dalle cose esterne, se io agisco perché sono costretto o me lo ordinano, sono schiavo, perché le circostanze esterne mi determinano a fare così. Quando la causa del mio agire è esterna a me, non sono libero. Quando agisco invece avendo in me la mia causa, quando come dice Aristotele, sono padre dei miei atti, ebbene, allora sono libero. Cosa significa avere in sé la propria causa, se riprendiamo questa idea nei termini di Lacan? Lacan parla di causa e parla di causa di desiderio. C'è un oggetto che l’uomo insegue ed è questo oggetto a causare il desiderio. Qualcosa ci manca, ma noi inseguiamo quel che viene a configurarsi come la causa del nostro desiderio, ed è qualcosa che non abbiamo, altrimenti non lo desidereremmo. E dov’è la causa del nostro desiderio? È nell'Altro, è in un Altro che riponiamo la causa del nostro desiderio, e se ci innamoriamo di qualcuno è perché vediamo in lui quel che a noi manca e che risveglia il nostro desiderio. È la nozione di algalma, che Lacan ha presentato nei suoi seminari. Agalma sono quelle statuette greche dentro le quali c'è qualcosa di prezioso, l’agalma è la cosa preziosa che l’Altro nasconde. A noi manca e sentiamo che troviamo per questo nell'Altro il nostro complemento, ciò che vorremmo avere. Desideriamo così stare con l’Altro, vediamo in lui la cosa preziosa. C’è una leggenda molto bella in cui si parla di Carlo Magno e di Turpino. Carlo Magno è innamorato di una donna che la sua corte non ritiene opportuno sposi. Si strugge d’amore per lei, finché questa donna muore. Carlo Magno non si stacca dal cadavere. L’arcivescovo Turpino vuol vedere più chiaro in questa faccenda e trova che la donna sotto la lingua ha un anello. Lo toglie e se ne impossessa. Da quel momento Carlo Magno,fa seppellire la salma, ma si innamora dell’arcivescovo Turpino, e tutte le sue attenzioni si rivolgono a lui in un modo che diventa imbarazzante per l’arcivescovo. Decide allora di liberarsi dell'anello e lo butta nel lago di Costanza. Da quel giorno l’imperatore passa i suoi giorni a rimirare nostalgicamente il lago. Mi sembra un’immagine molto viva e utile a darci l’idea di cosa sia l’agalma che l’Altro contiene e che ci fa innamorare. L'Altro è il nostro simile, colui che abbiamo di fronte, ma vediamo in lui qualcosa al di là di lui, che ci sfugge e che causa il nostro desiderio e il nostro amore. Per tutti noi nevrotici la causa del nostro desiderio è nell’Altro, per questo ci innamoriamo di una donna, di una missione, di una idea, in cui poniamo la causa del nostro desiderio. Diventa ciò che inseguiamo, e per questo siamo schiavi dei nostri desideri. In una conferenza dedicata a degli psichiatri Lacan dice che il vero uomo libero è il folle, perché questi ha in sé la causa del proprio desiderio. Questo significa che diversamente dal nevrotico che insegue nell’Altro la causa del proprio desiderio, che insegue qualcosa che sempre gli sfugge, il folle è abitato, assillato e angosciato dalla causa del proprio desiderio, e se io desidero nell’Altro uno sguardo, il battito di ciglia tra Dante e Beatrice, se desidero nell’Altro una voce, la voce melodiosa del suo canto, ebbene queste voci nello psicotico si presentano non dall’esterno, non va a cercarle nel canto melodioso della donna amata, ma ne è assillato. Le voci sono dentro di lui, lo sguardo che noi cerchiamo nell’Altro è qualcosa che lui sente su di sé, con un delirio di riferimento, le allucinazioni e le voci hannó questa struttura. I deliri sono l’effetto di questa struttura per cui lo psicotico, il folle ha dentro di sé la causa del proprio desiderio e non la cerca nell’Altro, anzi ne è assillato, ne è soffocato, tormentato, angosciato, schiacciato. Il folle è l’uomo libero perché ha in sé la causa del proprio desiderio. In fondo questo non è certo un modo di mettere la libertà sul piedistallo. Se ci pensate, quando nella tradizione dl pensiero occidentale riflettiamo sulla libertà, la consideriamo come la cosa più importante che l’uomo possa avere. Per Aristotele la libertà fa la differenza tra l’uomo libero e lo schiavo. Oggi la libertà è un ideale civile che mettiamo ai primi posti. Quando Lacan ce la presenta così, come la prerogativa della follia, in cui libertà significa l’angoscia del delirio, l’assillo dell’allucinazione, le voci che tormentano, non sembra attribuirle un posto di grande prestigio. Però c’è un’altra lettura che mi sembra importante fare, e che ci dà una chiave per il tema di oggi sulla libertà e l’angoscia. Per le ragioni che vi dicevo prima, la differenza tra l’uomo e l’animale è che l’uomo è sconcertato dal linguaggio, e non ha gli automatismi che lo portano, in modo istintuale, verso le mete di soddisfacimento naturali. Ora l’animale è portato al partner naturalmente, c’è un binario, c’è una corrispondenza di segni tra il partner maschile e quello femminile per cui ad un certo punto avviene l’incontro, quando è il momento giusto. Nell’uomo questo non avviene. L'uomo deve imparare a conoscere ciò che desidera, non è guidato dall’istinto e questo lo lascia disorientato. C'è allora tutto il gioco di mascherate, di parate a cui facevo riferimento prima, c'è quel gioco di seduzione in cui ci si danna l’anima, che ci complica la vita. La relazione d’amore è piena di segnali ambigui, non è chiara come nell’animale, dove fatta di segni univoci. Nell'uomo è fatta invece di segnali ambigui. Mi domando se m’ama non m’ama, se mi desidera, se la desidero o non la desidero. Tutto si riempie di sfumature complicate. L’uomo non è guidato dall’istinto, ed è ciò che Lacan formula in modo radicale dicendo: “Non c’è rapporto sessuale”. Questo significa che nel linguaggio non c’è lo stesso binario che nell’istinto, binario che conduce con sicurezza verso il partner. E potremmo dire: “Poveraccio l’uomo! Non c’è rapporto sessuale! Meglio essere animale!”. Però cosa vuol dire che non c’è rapporto sessuale? Proprio perché non c’è rapporto sessuale, e proprio perché quando c’è rapporto sessuale siamo comandati dall’istinto, vuol dire che non siamo comandati dall’istinto. L'uomo è l’unico animale che può disobbedire all’istinto. Questa formulazione di Lacan: “Non c’è rapporto sessuale”, è per altro verso un modo di dire che l’uomo è un animale libero. Libero rispetto a cosa? Non rispetto a una servitù, a un'oppressione, ma libero rispetto al gioco di azione e reazione di un determinismo. L'uomo è l'animale che non è completamente soggetto alla determinazione e alla concatenazione dell’azione e reazione. Può scegliere, deve scegliere, ma al tempo stesso può scegliere, perché è abitato dalla soggettività che significa la possibilità della scelta. Questo è il margine rispetto a una cultura scientista che vuol leggere tutto in chiave riduzionista di azione/reazione. Se l’uomo fosse soltanto il fantoccio delle azioni/reazioni che si svolgono nel cervello, sarebbe come l’animale, obbedirebbe a una concatenazione deterministica. L'esperienza della psicoanalisi ci insegna che in realtà non è così, e che per quanto l’uomo sia un animale biologicamente determinato (mangiamo, ci sono mille reazioni chimiche nel nostro organismo, ci sono tutta una serie di fenomeni che sono naturali) l’uomo non è soltanto naturale, c’è un margine che sfugge alla naturalità e questo margine riguarda la sessualità, il fatto che non c’è rapporto sessuale. In questo margine si costituisce la dimensione soggettiva, che nella clinica psicoanalitica è l’elemento caratterizzante per cui la clinica psicoanalitica non si riduce alla rivelazione di elementi inconsci deterministici, e aprendo la verità inconscia al soggetto lo mette di fronte a delle scelte, lo porta alla radice di una scelta, lo mette di fronte alla sua libertà, che viene dalla disobbedienza all’istinto. Credo che possiamo concludere su questo. Possiamo ora aprire la discussione anche sulla base delle domande. Dott. Calabria Quindi una deduzione: potremmo pensare che l’angoscia è segno che c’è questa soggettività, quindi è segno che c’è questa libertà di scelta. La seconda questione che pongo è rispetto al rapporto che ponevi con il godimento, ecco, mi interrogavo se l’angoscia è anche ciò che limita un po’ l’eccesso di godimento. Risposta Sicuramente. Da una parte, nella definizione data da Freud l’angoscia è un segnale, ed effettivamente l’angoscia è un segnale. Questo ne fa sì che sia articolata con la temporalità. L'angosci ha un’articolazione temporale: anticipa un pericolo e lo segnala prima che sia incontrato. L'angoscia, in questo senso, guarda al futuro, è in relazione con il tempo futuro, segnala ciò che ancora non è presente, e questo permette l’articolazione dell’angoscia con il fenomeno del panico. Panico non è un termine classico della psicoanalisi, a differenza dell’angoscia, anche se è diventato d'uso corrente. In realtà è un termine che viene dalla psichiatria. Può però essere utile perché in effetti mostra un punto limite. L’angoscia, come segnale, guarda verso un pericolo prospettato, che deve ancora venire. È tipico delle persone ansiose, che esprimono l’ansia di fronte a quella che sarà la malattia, la vecchiaia, rispetto a qualcosa che sembra imminente, anche se a volte in modo non realistico. L'angoscia portata al suo limite, quando si avvicina il momento in cui la catastrofe avviene, sfocia nel panico. L'angoscia portata al proprio limite, in cui ciò che è temuto succede, diventa panico. Le persone che chiedono aiuto in preda al panico vengono sulla spinta di un’urgenza indifferibile. Il panico è: “non so più cosa fare, non ho più appigli”. È quel che in inibizione sintomo e angoscia Freud chiamava hilflosigkeit che gli inglesi tradurrebbero come helpnessless, cioè la mancanza di appigli a cui aggrapparsi: "Non ho più niente a cui aggrapparmi, non ho più nessuna risorsa”. Il panico è questo: l’attualizzazione di quel tempo futuro che l’angoscia mostra in prospettiva, di ciò che segnala come temibile. Se vogliamo sviluppare ancora questa articolazione possiamo vedere l’altro versante temporale, rivolto verso il passato e cioè la depressione. Questa si verifica quando tutto è perduto, quando si ha la percezione che non ci sia più niente da fare, e ci si può tornar su su finché si vuole, ma non è più reversibile. Ricordo un paziente in cui questo aspetto si mostrava in un modo straordinariamente limpido. Gli era nata una sorellina quando aveva sette, otto anni. Lui prima era al centro dell’attenzione, in particolare del padre. Nasce la sorellina e c’è una scena, molto improbabile, chiaramente un ricordo di copertura, in cui vede la mamma e la nonna che si arrabattano introno alla neonata per staccarle il cordone ombelicale. Non ha altre informazioni sul ricordo che queste. Lui è in un angolo, vede le donne di casa occuparsi della sorellina appena nata, si fa avanti e dice: “E io?”, e gli viene risposto: “Zitto tu che sei grande, non vedi che siamo occupate con cose più urgenti?” Da quel momento, ovviamente, è guerra aperta con la sorellina, che non è certo la benvenuta, e per anni dedica tutti i suoi sforzi a contrastarla, a cercare di riprendere il proprio posto, la propria centralità nella famiglia. Ma lui è il più grande, ed è quello a cui, quando c'è qualche attrito, cosa che accadeva di frequente perché lui li provocava, gli si dice di smetterla e di essere più responsabile. Un giorno, alle soglie dell’adolescenza – e questo è rilevante perché è il momento in cui si formano i ricordi di copertura più significativi – ricorda un alterco con la sorellina, di quelli soliti, niente di eccezionale, in cui però ritiene di essere stato da lei provocato, perché anche lei ormai è grande e reagisce al suo modo di stuzzicarla. Arriva la madre e senza fare nessuna indagine dice: “Basta! Smettila, tu che sei grande!”. In quel momento gli crolla addosso il mondo, non reagisce, non sente il bisogno di discolparsi come succedeva le volte precedenti. Semplicemente si ritira nel corridoio in un pianto silenzioso, in un dolore inesprimibile, e non vuole attirare l’attenzione, piange per qualcosa di cui sente che non potrà mai più risolvere. La madre se ne accorge, gli si avvicina, chiede, cerca di scusarsi, ma nessuna di queste scuse ormai ha più senso. È ormai passata una soglia in cui sente che le sue forze non sono più adeguate a ottenere quanto aveva perduto. Lì c’è il segno di una perdita, e si instaura uno stato depressivo che, a tratti, nella sua vita lo accompagna, e per questo viene a chiedere aiuto in analisi. Quindi c’è un momento in cui tutto è perduto, e non è reversibile. Il fatto che la madre torni a dire: ”Dai non prendertela, non volevo!” non fa presa, ormai non serve più, tutto è perduto. Direi che è interessante vedere questa articolazione temporale: l’angoscia è proiettata verso il futuro, il panico è il momento del crollo, e la depressione, è quando ormai tutto è irreversibilmente perduto. Per il rapporto con il godimento, che tu evochi, direi che l’angoscia è l’altro volto del godimento. Quando Lacan parla della Cosa, mostra come questa abbia due facce. Lo mostra attraverso il ricorso a Sade, attraverso la letteratura del male, e mostra come il godimento abbia un lato mortifero che si manifesta come angoscia. Quando il godimento si presenta nel suo eccesso, viene percepito soggettivamente come angoscia. In una prima fase Lacan definisce l’angoscia come la pressione della domanda dell’Altro, e come il sentirsi sotto il peso del desiderio dell’Altro. In una fase successiva l’ha indicata come la manifestazione, l’invadenza del godimento dell’Altro. In questo senso il godimento è l’altra faccia dell’angoscia. Riflessione Vorrei fare una riflessione. Lei prima ha detto che siamo nell’epoca del determinismo , dove tutto è calcolabile per cui le persone si sentono libere di poter agire in maniera totale, perché hanno risposte a qualsiasi condizione, quindi c’è quasi un abuso della condizione soggettiva nel senso che c’è una libertà totale, posso decidere su tutto perché avrò una risposta su tutto, io penso che questo sia una grande alterazione e una pseudo verità, per cui ecco è impossibile che la psicoanalisi che o le risposte alla soggettività possano andare in decadenza, però faccio una riflessione . Lei ha parlato della parvenza, l’uomo ha tante maschere, maschera sociale, individuale, ecc.., questa parvenza come la ritrova dentro al processo psicoanalitico? Perché io credo che proprio oggi una della problematiche sia non avere il coraggio della propria esistenza, fare un percorso psicoanalitico, ma avere una parvenza tale che non si riesce a dire quello che si è. E come si lavora su questa parte qui, perché le maschere sono talmente tante e fissate dentro questo tipo di parvenza che spesso anche andare in psicoanalisi non vuole dire chiedere la verità, perché probabilmente non la si dice. Quindi c’è anche il rapporto con quanto lei diceva che l’angoscia non deriva da una mancanza , ma c’è un tutto pieno. Questa mancanza è tale perché è anche un vuoto, o è anche il desiderio di voler stare un po’ da soli? Risposta Noi che viviamo nella società dello spettacolo ci siamo abituati a dare un valore negativo alla parvenza, perché lo spettacolo invade la nostra vita e prende il posto della realtà. Sapete che dobbiamo questo termine a Guy Debord, il filosofo francese morto suicida, i cui temi sono ancora di grande attualità oggi. Nel momento in cui la politica passa per la televisione, in cui il parlamento, indipendentemente da qualsiasi orientamento politico, vota che Ruby è la nipote di Mubarak, la società dello spettacolo prevale sulla realtà, copre la realtà. Siamo quindi abituati a dare una valenza negativa a questa idea della parvenza e contrapporla alla verità. Nel modo in cui l’articoliamo nella psicoanalisi, la parvenza invece non si contrappone alla verità, e ha piuttosto una funzione di rapporto con il reale. La mancanza, quando viene colmata dall'oggetto, dà luogo al fenomeno dell’angoscia. Se l’uomo fosse esposto continuamente a questo sarebbe continuamente angosciato. C'è allora qualcosa che vela questa mancanza. L'immagine allo specchio in cui ciascuno si riconosce vela la mancanza, e quando questa riappare nell’immagine speculare, si manifesta l’angoscia. Si può fare un esperimento guardandosi allo specchio negli occhi, e la sensazione che a volte i miei pazienti mi hanno raccontato, quando si entra nella più intima intimità di sé stesso, è di entrare in contatto con la mancanza che lo sguardo presenta, in una sorta di corto circuito autoreferenziale. Quando si guarda la propria immagine allo specchio, l’immagine è un’alterità, la mia immagine è come l’altro che mi si presenta davanti. Se però ci si guarda negli occhi, scatta un circuito di autoriferimento che subito si trasforma in angoscia. Guardarsi negli occhi allo specchio fa emergere la mancanza, lo sguardo come mancanza. L'immagine come alterità, che è il velo sulla mancanza, ci separa dall’oggetto causa del desiderio che si cerca nell’Altro. La parvenza fa da esca al desiderio, e nell’esempio che vi facevo prima, la bella signora di cui era innamorato Carlo Magno era una parvenza che nascondeva in sé l’anello, l’oggetto prezioso, l'agslma. Poi la parvenza è Turpino, e poi ancora il lago di Costanza. Non è però la contrapposizione che nella filosofia si fa di solito tra apparenza e verità. La parvenza è piuttosto qualcosa che veste il vuoto attorno all’oggetto prezioso, ed è qualcosa che l’analista deve incarnare nella relazione analitica, perché il transfert si sviluppa nel momento in cui il soggetto fa entrare il partner analitico nel proprio gioco di ripetizione, dandogli il ruolo di un personaggio della sua storia, e rendendolo depositario dell'oggetto del desiderio. In questo ruolo, in questa parvenza bisogna entrarci. Il che non vuol dire entrare in una finzione, in qualcosa di falso, vuol dire sostenere l'immagine che per il soggetto è un’immagine di desiderio, perché attraverso questa immagine si porta il soggetto alla verità del desiderio, cioè della mancanza. La parvenza in questo caso non nasconde la verità, ma sostiene la presenza dell’oggetto. Sono due funzioni diverse: un conto è quando parliamo di apparenza e verità nella tradizione filosofica. Platone mette la verità nelle idee e l’apparenza nel mondo che abbiamo di fronte agli occhi. La parvenza nell’analisi ha una funzione diversa, operativa, ed è la funzione che gli esperimenti a doppio cieco, con i gruppi di controllo, vogliono ridurre. Lo scientismo vuole sempre ridurre lo spazio della mancanza e della parvenza, che è invece proprio ciò che nell’analisi rendiamo attivo e operativo. Domanda Più che una domanda è un’osservazione. Prima parlava della nostra società in cui tutto viene appagato , deve essere quasi appagato, può essere che noi abbiamo una paura di riempire la mancanza, è come se il desiderio possa completamente scomparire, non so se sono riuscito a spiegarmi. Risposta E’ chiaro, e questo mi permette di riprendere un aspetto della domanda che rivuarda l’idea della risposta. La nostra è una società ritiene di avere una risposta a tutto. È il lato vantaggioso della tecnica, che ci mette a disposizione straordinarie facilitazioni. Lo sviluppo della tecnica ci offre risposte per le nostre esigenze e i nostri bisogni, e ci vizia un po’. Ci abituiamo a ottenere le cose con un semplice gesto. Accendiamo la luce pigiando l’interruttore, non abbiamo bisogno strofinare i legnetti per ore, vogliamo delle notizie e accendiamo il televisore. Su questo non c'è niente da ridire, è un grande vantaggio. Pensiamo ad esempio a internet alle possibilità che ci apre rispetto all’informazione, alle ricerche bibliografiche che richiedevano ore di ricerca in biblioteca e che ora con un clic le abbiamo a disposizione. Ci sono però sono campi in cui tutto questo non si può applicare, campi che sfuggono alla prospettiva deterministica della tecnica, che non appartengono al campo in cui le cose avvengono per azione e reazione. C'è una sfera della vita che non risponde a queste concatenazioni, e che tuttavia viene forzata all’interno di queste risposte. Per questo, diversamente da molti anni fa, le persone vengono in terapia con richieste di soluzione. Il modello medico va in questo senso: si va dal medico e si chiede una ricetta, una soluzione per un disturbo, una malattia. Se si considera il sintomo solo un disturbo, si va dall’analista a chiedere una soluzione, e non si considera - perché lo statuto attuale della società non porta a considerare un laborioso percorso soggettivo - l’ascesi in un certo senso necessaria per arrivare a cose che non sono semplici oggetti di consumo. L'amore non lo otteniamo spingendo un bottone, è le verità dell’inconscio non le ricaviamo da una ricetta o seguendo certe prescrizioni. Direi che è qui che la società fondata sull'immediatezza domanda-risposta si blocca.Quando un paziente si blocca su questo circuito a domanda-risposta, l’analisi non va avanti a lungo. O si riesce a portarlo su un circuito in cui un’implicazione soggettiva immette effettivamente nell’analisi, oppure le cose si bloccano. C’è una dimensione non secondaria della nostra vita in cui la logica della “a domanda-risposta“ si blocca, ma è la dimensione più vitale, più interessante, più potente della nostra esistenza.
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Settembre 2024
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