di Marco Focchi La psichiatria contemporanea si trova in un momento critico in cui, stretta nella tenaglia delle neuroscienze, rischia di annullare la propria tradizione storica per lasciarsi completamente riassorbire nella corrente di una medicina che, a partire dalla svolta impressale da Claude Bernard, si è ingranata nel discorso scientifico, con tutti i vantaggi ma anche con tutti i limiti che questo ha implicato. L’esigenza di riconoscimento scientifico come unico marchio di garanzia dell’efficacia porta infatti a cancellare la funzione della parola, a ridurre il soggetto al cervello, a cercare la propria funzione terapeutica nella correlazione immediata tra diagnosi e farmaco. Gli psichiatri sono certamente sensibili a questi problemi. Mario Maj, che è stato presidente della World Psychiatric Association fino al 2011, segnala con chiarezza la crisi del paradigma post- kraepeliniano manifestatasi con la pubblicazione del DSM V. Nel 1980 il DSM III aveva segnato il divorzio tra psichiatria e psicoanalisi, inaugurando una forma di classificazione che doveva realizzare l’inspirazione di fondo di Kraepelin come fondatore della diagnostica psichiatrica moderna, ampliandone, precisandone e definendone i criteri. Nel 2013 questi criteri esplodono per sovrannumero estendendosi fino a medicalizzare anche i comportamenti più quotidiani, e provocando l’energica reazione polemica di Allan Frances, il curatore della precedente edizione del DSM.
Diventa urgente dunque per la psichiatria, se non vuole veder svanire la propria peculiarità, riannodare il colloquio con la psicoanalisi interrotto nel 1980, ritrovare le fonti di una tradizione che non riduca le sue operazione a quelle di una filiale subordinata all’industria farmaceutica, che non cancelli la parola, che non riduca il soggetto ai circuiti deterministici di reti neuronali. In Italia una tale tradizione – che non si riallaccia alle fonti kraepeliniane, che proviene piuttosto, nella sua impronta originaria, dalla versione biswangeriana della psichiatria e che si trasforma poi in un radicale impegno sociale istituzionale – è riconoscibile nell’opera di Franco Basaglia. Lo psichiatra veneziano è stato un grande innovatore nel campo della salute mentale, e ha segnato una importantissima tappa con la sua critica all’istituzione manicomiale. Questa critica non è stata solo teorica, ha lasciato dietro di sé una legge, ha implicato una riforma con una significativa riorganizzazione dell’assistenza psichiatrica ospedaliera e territoriale, e ha portato l’Italia a essere il primo, e fino ad ora l’unico, paese ad aver abolito gli ospedali psichiatrici. Cosa possiamo dire dell’incontro di Basaglia con la psicoanalisi? Sicuramente che è stato un incontro mancato, Basaglia era critico con la psicoanalisi: l’accusava di privatizzare il conflitto, perdendo il nesso tra il piano individuale e quello sociale; le imputava poi l’obiettivo di perseguire, nella guarigione, una normalizzazione del soggetto per adeguarlo all’ordine vigente; considerava deterministica la psicoanalisi, perché tutto è deciso dal passato, senza uno spazio d’invenzione o di novità; aggiungeva poi che a psicoanalisi si occupa di desideri e non di bisogni, di sogni e non della concretezza in cui il soggetto è quotidianamente immerso. In fondo, possiamo dire, le critiche di Basaglia alla psicoanalisi sono le stesse di Lacan, perché Basaglia ha conosciuto la psicoanalisi degli anni Sessanta, quella stessa contro cui Lacan ha rivolto le proprie obiezioni. Basaglia forse non riesce a vedere che il bisogno, filtrato dal linguaggio, si manifesta inevitabilmente come desiderio, e che non c’è un’antinomia tra i due termini, ma l’apertura al sociale attraverso la nozione di Altro, la protesta contro una guarigione pensata come adattamento e come via di normalizzazione, il rifiuto di un determinismo cieco che opacizza la scelta come punto costitutivo del soggetto, sono tutti temi che Lacan ha lavorato. Sarebbe quindi importante riprendere il dialogo con Basaglia oggi, proprio a partire dalle critiche comuni, a partire da una visione della psicoanalisi che non corrisponde allo stereotipo dell’ortodossia modello anni Sessanta. È un tentativo che abbiamo anche avviato nell’Istituto freudiano, invitando gli psichiatri che sono oggi eredi di Basaglia e che tentano di portarne avanti la fiaccola in un mondo in cui l’orientamento scientista generale va in direzione nettamente contraria. Ci sono vecchi pregiudizi da superare, ci sono nuovi termini da mettere in gioco, ci sono nuovi sintomi di cui discutere e che non sono inquadrati né inquadrabili nei reticoli del DSM. È necessario ravvivare il confronto con una psichiatria che non sprofondi nella pura farmacologia, che non riduca il propio intervento all’identificazione diagnostica da correlare con un rimedio chimico. Basaglia parlava con il folle, lo sentiva ancora, non lo considerava una semplice parte difettata dell’umanità, uno scarto della ragione da confinare nella zona periferica dei disturbi o dell’handicap. Dopo la scoperta, nei primi anni Cinquanta, dalla clorpromazina, il primo antipsicotico in senso moderno, che segna la svolta farmacologica della psichiatria, Jean Delay fu il primo psichiatra, a St. Anne, a somministrarlo ai suoi pazienti. Significativo il suo commento dopo l’avvio dell’esperimento: “Non li si sente più!” Certo, prima i pazzi gridavano, e dopo l’assunzione del farmaco le grida erano cessate. Non li si sentiva più. Da questo momento comincia l’era in cui, anche, non li si ascolta più. Non è più necessario, perché non gridano più.
2 Comments
Anna Martinelli
11/9/2019 07:52:30 pm
Ricordo, essendo una donna matura, che nel corso degli anni ‘70 si aprì un atteggiamento culturale fra i giovani intellettuali, nel quale la “follia” venne interpretata come la forma autentica della libertà. Il folle, i suoi sintomi, i suoi comportamenti, i suoi discorsi, il suo corpo divenne la rappresentazione viva della verità, nella sua forma più autentica necessariamente radicale ed estrema. La follia divenne una metafora, quasi poetica, per significare molte istanze. Ho sempre pensato che il sucessivo successo della psichiatria organicista fosse l’altro volto di questa versione, sostenuto da una interpretazione quasi militaresca della vita, cercò nella chimica e in quella soltanto, una risposta al disagio. La sofferenza psichica, per vie segrete collegata ai cambiamenti sociali, scivolò fuori da tutte le definizioni. Zittita dai farmaci, si ribellò creando nuovi sintomi.
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andrea teani
12/9/2019 06:53:31 pm
Non saprei aggiungere cose di più e meglio da quanto ha detto Anna . Era nell'immaginario e nel dialogo di quegli anni " la follia, metafora poetica di molte e altre istanze". E' pur vero che allora l'insegnamento di Basaglia , dettava una limpida e lineare rottura con la psichiatria classica e non solo perché determino la fine dei manicomi, ma prima ancora perché porto la follia nella società ; i matti dove erano sempre stati e dove era ben difficile accorgersi di loro.
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