![]() Dibattito svoltosi il 27 maggio 2011 alla Casa dela Cultura in occasione della presentazione del libro di Marco Focchi "Il trucco per guarire" François Ansermet: Il libro di Marco Focchi, Il trucco per guarire, mi pare presenti, con la messa in prospettiva del sintomo, una modalità importante e paradossale per trattare la guarigione. In una certa misura oggi siamo di fronte a una clinica particolare, dove occorre forse costruire un sintomo, quantomeno il sintomo in senso analitico, perché questo sintomo possa servire a impegnare un soggetto. Oggi consideriamo la prospettiva di una clinica del fallimento, una clinica della formazione del sintomo e, a partire da questo, il sintomo può avere una funzione e può forse diventare un trucco per guarire. Questo è paradossale rispetto al modo in cui la medicina si rappresenta la guarigione. La medicina infatti vuole innanzitutto sopprimere i sintomi, dove invece la psicoanalisi ne tiene conto. Arrivando a Milano, alla stazione lo sguardo mi è caduto su un enorme cartellone, che mi sembra come una pubblicità per il libro di Marco Focchi. Il cartellone portava scritto: “Trucchi per reinventarsi”. Mi sono detto allora: "Tutta Milano è al corrente di quel che sta facendo Marco Focchi!" Bisogna trovare un trucco per reinventarsi, per fare un po' di bricolage con la condizione umana. Ho pensato allora di fare un’esposizione in tre parti sulla questione della salute mentale e della guarigione. La prima parte riguarda l'universalizzazione del soggetto che appartiene alla scienza moderna, la seconda parte concerne il rigetto del soggetto e la terza parte è relativa al il soggetto come eccezione.
Si parla oggi di una clinica del lamento, una clinica senza soggetto, che si esercita senza impegnare il soggetto. Voglio solo citarvi un articolo del British Medical Journal del 2002, dove Richard Smith e i suoi colleghi hanno avuto l'idea di domandare ai medici per quali ragioni si va oggi a consultare un medico, e hanno individuato quelle che chiamano le non-malattie. Di quali principali non-malattie soffrono gli inglesi? È un catalogo abbastanza stupefacente. La prima non-malattia è l'età, la seconda è la noia, la terza sono le borse sotto gli occhi, poi ci sono l'ignoranza, la calvizie, gli arrossamenti, le orecchie grandi, i capelli grigi, la bruttezza, il jet lag, la cellulite, l’angoscia per la dimensione del pene, la rabbia. Un'altra lista riguarda le malattie con il punto interrogativo: la fatica cronica, le coliche, l’enuresi, il burn-out, la fibromialgia, la disforia perimestruale, la procrastinazione, i mal di testa non diagnosticati, i tappi nelle orecchie. Poi ci sono i non-trattamenti: circoncisione, naso chiuso, trattamento della menopausa, viagra. È una specie di catalogo borgesiano che pone la questione del normale e del patologico. Dove collocare la frontiera? Oggi siamo in un momento d’evoluzione del tutto particolare nel campo della salute mentale, in cui non sappiamo più dove collocare la frontiera. Se prendiamo le classificazioni dei disturbi mentali, nel DSM II, il manuale della classificazione americana, c’erano centottanta categorie, nel DSM IIIR c’erano duecentottantadue categorie, e nel DSM IV trecentocinquanta categorie, si è quindi quasi raddoppiato il numero, e nel DSM V, di cui si dibatte nei blog pubblici, il numero delle categorie esplode, inserendo per esempio gli spuntini fuori pasto davanti alla televisione. Gli attacchi di collera dei bambini poi subiranno un cambiamento radicale. Fino adesso gli attacchi di collera ci facevano domandare cosa succede al bambino, domani l’attacco di collera sarà una sindrome di cui i genitori probabilmente ignoravano soffrisse. Anche il lutto diventerà una malattia. Vedremo dunque una situazione paradossale, che rispecchi, per dirlo velocemente l’autodistruzione della psichiatria, perché quanto più ci saranno delle patologie, tanto più bisognerà creare degli psicologi specializzati nella collera, nel lutto, negli spuntini davanti alla televisione, e questi psicologi avranno dei piani di trattamento standardizzati Un critico del DSM, Christopher Lane, parla di un desiderio massiccio di standardizzazione attraverso il DSM. Siamo quindi di fronte a un fenomeno di medicalizzazione della condizione umana. Si verifica la previsione di Michel Foucault, nel 1973 che diceva in un articolo che il mondo diventerà un grande manicomio. È una medicalizzazione del male di vivere. Alcuni autori l’hanno già detto. Beckett aveva detto: siete sulla terra, è un fatto senza rimedio. Oppure: nasciamo tutti pazzi, e alcuni lo rimangono. Si vede quindi una prima corrente di universalizzazione nella medicalizzazione del fatto di essere umano., C’è poi un’altra corrente che va verso il rigetto completo del soggetto e, per essere brevi, vi ho costruito un sofisma delle basi biologiche. Ve lo presento velocemente: 1. Ci sono dei disturbi mentali 2. Questi disturbi mentali hanno una base biologica, 3. Se hanno una base biologica non sono mentali, dunque non ci sono disturbi mentali. Questa corrente esiste in parallelo. Non è facile mettere da una parte la medicalizzazione generalizzata e dall’altra la sparizione di ogni sofferenza mentale. Dov’è il limite tra la medicalizzazione dei disturbi mentali e la loro completa sparizione? Penso che il punto importante sia distinguere, nel campo della salute mentale, il modello ontologico della malattia dal modello dinamico. È una distinzione fatta da Georges Canguilhem nel suo libro il Il normale e il patologico. Nella concezione ontologica la malattia è un processo difettoso isolato, è un’alterità rispetto al soggetto. Allora o si tratta la malattia o si impara a conviverci. Qui siamo sul versante del rigetto del soggetto. Questo è tipico nel dibattito attuale sull’autismo. L’autismo è considerato come una malattia neurobiologica, e bisogna allora adattare il mondo agli autistici. L’altro versante è quello del modello dinamico, dove il disturbo viene considerato come una trasformazione del funzionamento psichico. La malattia e il soggetto sono inseparabili, non si possono curare separatamente. Una studiosa francese di storia della medicina, Gladys Swain, aveva messo in opposizione il modello della follia kantiano e quello hegeliano: da una parte un’alterità totale rispetto alla ragione, con la conseguenza di isolare il malato mentale dalla comunità, dall’altra un conflitto interno alla ragione. A partire da questo si pone la questione di rimettere in gioco il soggetto, e vorrei terminare menzionando il fatto che le biotecnologie della medicina devono affrontare dei punti d’arresto quando hanno a che fare con la vertigine della scelta del soggetto. Per essere concreti facciamo un esempio. Oggi siamo in grado di fare dell’oncogenetica predittiva. In una famiglia si riscontra una malattia genetica che provoca il cancro del colon, si fanno delle analisi su un bambino e su tutta la famiglia, e in particolare si esamina il padre. Il genetista scopre che il padre non è portatore del gene. Vanno da lui per dargli la buona notizia e questo punto l’uomo ha un crollo depressivo con un tentativo di suicidio perché si è sentito totalmente fuori dalla filiazione. Il soggetto sorge oggi dunque nelle zone più critiche della medicina. Vorrei fare un secondo esempio sulla presenza del soggetto, molto riassuntivo, a partire dai lavori che Magistretti e io abbiamo fatto sulla plasticità. La plasticità vuol dire che l’esperienza lascia una traccia nelle zone neuronali, è la capacità che il cervello ha di trasformarsi attraverso l’esperienza. Constatare questo fatto biologico implica tre paradossi. Il primo paradosso è che la plasticità riguarda meccanismi universali e ripetitivi ma che producono sempre qualcosa di unico e di differente. La neurobiologia e la psicoanalisi s’incontrano qui sulla questione irriducibile della singolarità. Il secondo paradosso consiste nel fatto che l’esperienza, lasciando una traccia, fa sì che la traccia diventi a sua volta un elemento determinante. Le tracce si associano le une alle altre per costituire nuove tracce. Il fatto dunque che qualcosa si scriva sotto forma di traccia vuol dire da una parte che tutto si conserva, ma anche, dall’altra, che al tempo stesso tutto si può modificare, e che l’inscrizione dell’esperienza alla fin fine separa dall’esperienza, crea discontinuità, e questo è il secondo paradosso. Il primo paradosso è la singolarità, il secondo paradosso è la discontinuità. Il terzo paradosso è il fatto che tutto cambia continuamente, che non si utilizza mai due volte lo stesso cervello. È il paradosso del cambiamento permanente. Un modo di presentarlo sarebbe dire che siamo biologicamente determinati per non essere biologicamente determinati. Saremmo biologicamente determinati per essere liberi. È molto riassunto, ma direi che tra lo stato del cervello e lo stato psichico c’è una discontinuità dovuta alla plasticità. Si potrebbe fare lo stesso ragionamento per il genotipo e il fenotipo, dove c’è una discontinuità dovuta all’epigenesi. Potremmo aggiungere che tra una determinazione sociale e un fatto psichico c’è anche qui una discontinuità dovuta alla risposta di ogni soggetto. Se mettiamo in fila questa serie di discontinuità, vediamo che converge sulla questione del soggetto come eccezione all’universale. Al di là dunque della determinazione genetica o neuronale, al di là della determinazione storica o famigliare o sociale, ci si deve porre la questione la questione della risposta del soggetto. Credo che bisogna considerare una visione diversa dal determinismo, al di fuori di una logica della causa determinante, che consideri piuttosto una logica della risposta, cioè del trucco per guarire, dell’appoggio preso sul sintomo, dell’invenzione del soggetto, del bricolage, dell’uno per uno, sempre imprevedibile. Occorre introdurre nel campo della medicina la questione del soggetto, e questo vuol dire un ritorno alla clinica. Che cos’è la clinica? È l’esperienza della singolarità in quanto tale, dove il sapere è nell’altro, è nel soggetto e dove il clinico, come dice Lacan, deve sapere ignorare quel che sa. Ma è la stessa cosa che dicevano i primi clinici: ogni teoria rimane in silenzio davanti al letto del malato. Bisogna dunque permettere l’incontro, lavorare sul dettaglio, sull’inatteso, sulla sorpresa. È questo il trucco per guarire che ogni soggetto inventa. Davide Tarizzo : Il libro di Marco Focchi è un libro che consiglio a tutti. È innanzitutto molto chiaro, e ci introduce all’idea di una clinica non soppressiva del sintomo, che è un tratto che io ritengo tipico della clinica psicoanalitica lacaniana, qualcosa che la differenzia dalla clinica classica freudiana. Freud aveva in mente, come anche Marco sottolinea, una clinica che guarisse dal sintomo. Con Lacan invece le cose cambiano, e il sintomo diventa la stessa domanda di guarigione, diventa qualcosa da mettere in questione. Prima di entrare nel merito di qualche punto più specifico, e senza essere troppo tecnico, voglio soltanto segnalare com’è fatto il libro di Marco. È composto nel suo corpo centrale da un seminario, il seminario di Montreal, dove ha avuto l’occasione, in tre momenti distinti, di esporre con una certa calma e anche possibilità di approfondimento questa idea della clinica non soppressiva del sintomo. Mi sembra che ci sia in gioco non solo l’insegnamento di Lacan, ma anche la sua riqualificazione a partire dai commenti di Miller in quello che potremmo chiamare l’orientamento lacaniano. L’opera di Miller è fondamentale per poter approcciare il testo di Lacan, che altrimenti è notoriamente incomprensibile, ed è anche l’opera grazie alla quale Lacan gode oggi, nel campo della clinica, ma anche nel campo della cultura in generale, di una certa gloria: nel campo della filosofia, della teoria sociale, della teoria politica. Forse più ancora che in Italia. è riconosciuta all’estero, grazie alla mediazione dell’insegnamento milleriano, e gli strumenti, i concetti lacaniani, pezzi delle teorie lacaniane sono diventati patrimonio di una compagine di studiosi che si occupano di cose molto differenti dalla clinica psicanalitica in senso stretto. Quello di Lacan è quindi un insegnamento molto importante, che va ancora storicizzato, e Miller sta continuando la sua opera di commento. Il libro di Marco, secondo me, è innanzitutto prezioso perché consente di mettere a punto, di mettere a fuoco alcuni passaggi essenziali del commento che Miller ha prodotto nell'arco ormai degli ultimi trent’anni all'ombra di Lacan. C'è nel libro, dicevo quindi questo corpo centrale che concerne in particolare un testo di Lacan, Lituraterre un testo degli anni Settanta, un testo dell'ultimo Lacan, un testo molto complesso e Lacan, come Marco mette bene in luce, negli anni Settanta inizia a insistere con particolare rigore sul concetto di scrittura e di lettera. Era il momento in cui si passava alla cosiddetta clinica dei nodi, alla clinica borromea. Dirò adesso due parole su in che cosa consiste questo passaggio degli anni Settanta di Lacan che nel testo di Marco è messo bene in luce. Il trucco per guarire è il titolo del testo. Faccio un'ulteriore premessa prima di concludere. Scrivere un libro di psicoanalisi secondo me è un'opera veramente complicata, è qualcosa di complicato perché a differenza di quando uno si mette a scrivere un libro di filosofia, pone un problema che mi passa sempre per la testa quando leggo un libro di uno psicoanalista. Che cosa si può dire e che cosa è opportuno tacere scrivendo un libro di psicoanalisi? Che cosa si può dire e che cosa si deve tacere? C'è il problema della verità o del sapere che ha a che fare con il fatto che scrivere un libro di psicoanalisi oggi, da parte di uno psicoanalista, ha il senso innanzitutto di dare autorevolezza all'insegnamento psicoanalitico, ha il senso di radicare socialmente, di tenere viva l’offerta dell'approccio psicoanalitico della sofferenza. Ma la verità, diceva Lacan, non si può dire tutta, si può dire solamente la metà. Questa è un’impasse logica, c'è questo primo ostacolo interno, è la prima difficoltà nel leggere un libro pur chiaro e trasparente come il libro di Marco. Diciamo che un libro di psicoanalisi gira intorno a questo primo buco. Non soltanto poi è impossibile dire tutta la verità, a volte è anche inopportuno, a volte è opportuno alludere e non spingersi troppo oltre. Questo è un secondo livello, un secondo ostacolo. C'è un terzo ostacolo che è difficile nel caso di un insegnamento così complesso, articolato, profondo come l'insegnamento di Lacan: è molto difficile restituire lo scheletro di questo insegnamento, posto che sia opportuno farlo e posto che sia opportuno farlo fino in fondo. Secondo me, il libro di Marco è esemplare per il modo in cui riesce a gestire questi tre problemi, è esemplare anche per un altro aspetto che ne rende particolarmente godibile la lettura, e cioè che il libro è una presa di parola sobria e molto garbata. A me è capitato, ormai è tanto che studio cose di psicoanalisi, pur non essendo psicoanalista, e mi è capitato talvolta di imbattermi sempre anche se non con gli psicoanalisti del Campo Freudiano, ma di altri orientamenti che fanno propria una sorta di mistica dell'esperienza psicoanalitica, un particolare tipo di retorica dell'esperienza psicoanalitica. È quella per cui ci sarebbe sempre un resto, un residuo di indicibile, di ineffabile che poi alla fine non può essere trasmesso e che esclude in un certo senso il lettore a priori dall'accostarsi l'insegnamento psicoanalitico. Mi sembra invece che nel libro di Marco ci sia un’ottima e chiara prestazione tra la produzione teorica a partire dall'esperienza psicoanalitica, che ovviamente è appannaggio degli psicoanalisti, e la discussione sull’insegnamento a livello teorico, a livello di trasmissione, che invece è appannaggio di tutti, appannaggio di me, che non sono uno psicoanalista, appannaggio di chi non facesse questo mestiere. Ecco, il libro di Marco, con molta sobrietà, molto garbo e molta chiarezza, cerca di restituire alcuni snodi teorici e di rendere accattivante l'offerta psicoanalitica, l'offerta lacaniana. Qual è, ora, per andare rapido, il trucco per guarire? Ovviamente non lo dirò. Il trucco per guarire è già nelle premesse stesse della situazione psicoanalitica, è il truquage, il transfert, è la possibilità stessa che si istituisca un transfert con l’analista. C'è una forma di innamoramento, una forma di riconoscimento di autorevolezza, una forma di auctoritas. Questo mi riporta al primo problema, cioè come restituire autorevolezza, auctoritas a questo insegnamento in un contesto culturale e sociale come quello che descriveva Francois, o anche peggio, perché François ci ha fornito solo qualche tratto di un paesaggio abbastanza inquietante, di rigetto del soggetto, di standardizzazione e medicalizzazione della condizione umana, addirittura di biologizzazione insensata e folle della condizione umana, in cui la condizione del senso e della domanda di senso tende a essere sradicata, a essere eliminata. Il trucco per guarire dunque è dentro le condizioni stesse che rendono possibile una situazione psicoanalitica, è un transfert che nel momento in cui viene istituito diventa qualcosa che l'analista può in qualche modo gestire, ci può giocare. Per fare che? Per risalire a quelli che sono i fattori costituenti della soggettività. A un certo punto verso la fine del libro in pagine che sono particolarmente stimolanti e anche illuminanti, Marco descrive il processo di un'analisi, parliamo di analisi con soggetti nevrotici ovviamente, come una risalire ai fattori costituenti della soggettività, al momento costituente del desiderio stesso del soggetto a partire dal quale si costruiranno poi raffigurazioni, soggettività stabilite che Lacan chiama io -moi. Qual è il vantaggio, il senso di quest’operazione? È quello di sganciare il sintomo dal suo automatismo, dalla sua ripetizione acefala, e di risalire al momento costitutivo del sintomo, al momento costitutivo stesso del desiderio del soggetto, al momento costitutivo della soggettività come aleatorio, esposto alla contingenza della scelta. Una scelta che è congiunturale, storicizzata ma dove il soggetto alla fine ritrova il proprio spazio, tra virgolette, di libertà, come diceva prima Francois. È a questo punto che si può parlare, come farà Lacan effettivamente, d’identificazione con il sintomo, quindi il contrario della soppressione del sintomo, alla fine di un lungo processo analitico. L’identificazione con il sintomo è presa come metodo specifico, singolare, idiomatico di godimento di quel soggetto il cui vero nome diventa quel sintomo. Che cosa significa allora guarire a questo punto? Significa semplicemente cessare di voler guarire, in un certo senso. Questo rende la psicoanalisi, a partire da quello che diceva prima François, il gesto di opporsi, di neutralizzare questa volontà di guarigione, e rende quest'operazione completamente dissonante con il mondo in cui viviamo, un mondo in cui vale una sorta di precetto di prescrizione preventiva del disagio, della cura di un eventuale disagio, e quindi d’estensione dei campi di medicalizzazione. Cessare di voler guarire significa molte cose come Marco spiega, significa cessare di voler andare al di là dell'inganno del sintomo e accettare di lasciarsi ingannare. È un diverso modo di abitare la propria condizione umana e sintomatica al tempo stesso. Questo grosso modo, mi sembra il tragitto del libro di Marco. Nel ricostruire l’insegnamento lacaniano, Marco insiste, e qui vorrei iniziare a sollevare qualche punto di dibattito ovviamente, su una frattura dentro l'insegnamento di Lacan tra la clinica della mancanza e a clinica del buco. La clinica della mancanza è una clinica il cui obiettivo è di rimettere le cose in ordine. A un certo punto, Marco tira fuori l'immagine del gioco del quindici, quel gioco in cui c'è una scacchierina con sedici spazi con uno vuoto. Si movevano i numeri e si doveva ricostituire l'ordine esatto dei numeri. È un immagine molto efficace per questa idea di una clinica della mancanza, in cui questo spazio vuoto è andato fuori posto e si tratta complessivamente di rimetterlo al posto giusto. La clinica della mancanza, dice Marco, è una clinica in cui – entrando un po' nel merito tecnico, ma non troppo – in cui il Nome del Padre, concetto cardine dell'insegnamento lacaniano, indica il significante fondatore, il significante della legge paterna. La clinica del buco invece è una clinica risale alle spalle dell'ordine simbolico, risale al momento costituente della soggettività, che è il momento costituente anche dell'ordine in cui si rispecchia una certa soggettività. In questo arretramento è come se fossimo messi a confronto con un vuoto, con un buco che l'ordine simbolico, il sintomo, lo stesso Nome del Padre, possono andare a velare e a coprire, per creare una sorta di distanza tra il soggetto e questa condizione presoggettiva in cui il soggetto rischia continuamente di affondare. Ci sarebbero quindi due livelli, la clinica della mancanza e la clinica del buco. Qui le cose iniziano a diventare complicate, e anche per me è più interessante fare riferimento a due possibili orizzonti: l’orizzonte di una clinica che potremmo definire edipica da una parte, che è la visione dell'Edipo, del Nome del Padre come garante fondatore dell'ordine simbolico, della legge del significante e una clinica oltre edipica, al di là dell'Edipo, dall’altra parte, in cui la figura del padre, e a volte anche della figura dell'analista, diventa quella di un agente dell'intervallo, dello scatto che riesce a frapporre una distanza tra il buco e il soggetto. Sono due visioni alternative dentro l'insegnamento di Lacan del Nome del Padre e di tutta una complessa architettura teorica. Ecco qui la prima domanda a Marco. Mi pare che si potrebbe discutere questo: io condivido pienamente questo tipo di lettura ma mi domando se questi due Lacan non siano un unico Lacan, cioè non sia una stessa figura che ora mette più l'accento su un punto, ora mette più l'accento su un altro. E mi pare che qui il problema sia fondamentalmente filosofico, è il problema del fondamento o dell'incondizionato come dici a un certo punto. Mi sembra che si attribuisca a questo primo Lacan, psicoanalista e teorico della clinica della mancanza, un'idea del fondamento filosofico, e il fondamento qui va inteso come qualcosa che fonda, che viene prima e su cui si fonda qualcosa che viene dopo, e si attribuisce questo a un Lacan strutturalista, in cui la coesistenza di tutti questi aspetti, di tutti questi elementi di una immensa struttura non prevede rapporti di fondazione, ma una simultaneità e una coesistenza reciproca di tutti gli aspetti della soggettività. Cosa significa questo dal mio punto di vista? Che Lacan degli anni Settanta è lo stesso Lacan degli anni Sessanta. E questo senza contraddire in alcun modo la tua lettura né quella di Miller. Ora lascio da parte queste cose troppo tecniche e vengo a due punti che hanno a che fare in parte con quello che diceva François prima su standardizzazione, medicalizzazione, biologizzazione, sofisma delle basi biologiche. A un certo punto François ha citato Foucault, e mi sembra che Foucault sia dietro anche ad alcune affermazioni che fa Marco nel suo libro. Ci sarebbe l'idea che oggi noi viviamo in una società in cui la salute è concepita come qualcosa di pieno, parola questa che tu usi più volte, e sopratutto che la salute venga intesa come un processo di normalizzazione. Questa idea di una normalizzazione, di una cristallizzazione sempre più minuta di figure standard alle quali si dovrebbe adeguare ora questa ora quella configurazione del soggetto è lo stesso rischio paventato da François quando a questo processo di cristallizzazione, normalizzazione, di sclerosi della condizione umana intesa come malattia mentale oppone Canguilhem, cioè l'idea di sciogliere questo processo di normalizzazione in una concezione della salute più dinamica, in cui la norma viene creata singolarmente da ciascun organismo o entità biopsichica. Quindi ci muoviamo nell'idea di una normalizzazione in cui è il concetto di norma che diventa predominante, che diventa assiale. La mia domanda è diretta e allo stesso tempo indiretta. A un certo punto tu citi nel libro Illich. Secondo me Illich ha un'intuizione molto interessante nell’articolo che menzioni. Illich parla di ottimizzazione, di una clinica dell'ottimizzazione del rischio, tutte parole da prendere con molta cautela e analizzate con cura. Che cosa vuol dire ottimizzazione, che cosa vuol dire ottimizzazione del rischio? Che cos'è questa categoria, il rischio, che cos'è questo oggetto, questa nuova entità, il rischio, che domina soprattutto il governo e l’amministrazione biopolitici delle popolazioni umane. La mia domanda è questa: siamo sicuri che le pratiche di ottimizzazione capillari delle prestazioni e la domanda di ottimizzazione delle prestazioni obbediscano alla logica di normalizzazione? Può sembrare una sfumatura o un dettaglio ma, secondo me, la questione è abbastanza cruciale. Viviamo in una società normalizzata, in una società che è ossessionata dalle norme, o viviamo in una società dove è idea comune che la norma sia qualcosa di brutto, in cui la contestazione stessa della norma o la rivendicazione del fatto essere a lato della norma fa parte dell'istituto quotidiano più banale? Cioè in che misura la lettura per esempio foucaultiana della società contemporanea come società normalizzata risponde veramente alla realtà della sociatà, alla realtà della società nostra, a partire da vent’anni a questa parte. O in che misura, invece, questo paesaggio sociale corrisponde a qualcosa di più antico, a società, come quelle che descrive Foucault per esempio in Sorvegliare e punire, o anche ne La volontà di sapere – opera di Foucault, detto per inciso, nettamente contraria alla psicoanalisi – e a processi di educazione e disciplinamento di tipo ottocentesco, che ormai sono qualcosa di estraneo e lontano, di inaccettabile, non per noi quattro a questo tavolo, e nemmeno per il pubblico davanti a noi, ma anche per tutti quelli che sono là fuori. Quindi in che misura entra l'ottimizzazione delle prestazioni non richiede, al contrario nel paesaggio, nel fondo ideologico delle società in cui viviamo, e con le quali anche la psicoanalisi deve confrontarsi, non richiede proprio quella flessibilità, quella plasticità dei parametri delle ottimizzazioni delle prestazioni che vanno continuamente aggiornati, che devono essere continuamente aggiornati dalla clinica, a sua volta flessibile, da una clinica come quella del DSM – e lo vedremo in particolare nel DSM V, dove, sono d’accordo con François, questa cosa esploderà – da una clinica che è costruita su un programma di perenne aggiornamento, sul principio stesso dell'aggiornabilità clinica delle categorie nosologiche, se ancora oggi si possono chiamare così, che vengono messe a tema dalla psichiatria? Non so se è stato abbastanza chiaro questo punto. C'è un altro passo del libro di Marco che ho trovato molto interessante, che è un passo un po' più filosofico. È un passo in cui discute un concetto lacaniano che è il concetto di manque-à-être. È un concetto che viene tradotto in italiano come mancanza a essere, fu scelto di tradurlo così, e non come mancanza d'essere. Mancanza d'essere è un'espressione che si trova per esempio ne L’essere e il nulla di Sartre, un grande classico degli anni Quaranta della filosofia del Novecento. Sartre è un filosofo con il quale Lacan ha avuto sempre rapporti di distacco. È un punto molto importante secondo me, un punto importante a partire da quello che tu stesso sottolinei, cioè il modo in cui viene tradotto con il termine in inglese: want to be. Want to be che potrebbe essere abbreviato come wannabe, come dicono gli americani. La mancanza a essere e la mancanza d'essere. Che cos'è la mancanza d'essere per Sartre? È un nulla ontologico, e questo nulla ontologico è la libertà stessa per Sartre ne L’essere e il nulla. È il nulla che si contrappone all'essere, all'essere in sé, all'essere delle cose inerti. Manque-à-être invece, come Lacan sottolinea nel seminario XI, non ha niente a che fare con l'ontologia, è un’apertura preontologica, dice Lacan, è l'essere che non riesce a essere, in un certo senso. Non è quindi un'assenza, è qualcosa che sta alle spalle della dicotomia assenza-presenza, è qualcosa che interroga profondamente il filosofo. Questa mancanza si traduce in inglese wannabe – questa coincidenza è curiosa. E wannabe è anche il nome con cui si autodefiniscono individui che si sono raccolti in comunità che sono stati definiti, in un tentativo di definizione da DSM che probabilmente passerà nel DSM V, come transabili. Sono soggetti che si amputano, che vivono male con il proprio corpo. Hanno scelto loro stessi di autodefinirsi come mancanza a essere, come manque-à-être, ritraducendo dall'inglese al francese. È un caso sociale, politico, secondo me estremamente interessante questo degli wannabe per l'impasse in cui ha posto, per esempio in Scozia, qualche anno fa, il parlamento stesso scozzese. Alla domanda di autoamputazione di alcuni soggetti, infatti, i medici talvolta rispondono di sì,. Questo pone ovviamente una serie di quesiti di carattere filosofico giuridico, filosofico, politico, prima che psichiatrico e clinico. Un tema nel dettaglio molto delicato, molto complesso. Quel che volevo far notare è che questo caso dei transabili segnala proprio l'esclusione di un disagio, di un profondo disagio la cui profondità, il cui carattere cocente sono misurati dall'incapacità della psichiatria non psicoanalitica, ma anche della società civile e dei politici, di rispondere a questo tipo di richiesta. Come si deve rispondere a questo tipo di richiesta, come si deve rispondere al wannabe, come si deve rispondere alla mancanza a essere della società di oggi? Questo riporta poi, chiudendo un cerchio dall'esterno, al problema iniziale, cioè come dare autorevolezza al discorso psicanalitico, anche scrivendo libri come quello che ci ha regalato Marco. Marco Focchi: Sono domande fondamentali, e non sono sicuro di avere tutte le risposte alle domande poste da entrambi i relatori, François Ansermet e Davide Tarizzo. Entrambi hanno sollevato questioni che io stesso ho cercato di trattare nel libro. François Ansermet ha affrontato l'antitesi tra quella che può essere la via psicoanalitica in contrasto con la via dominante, quella di uno scientismo contemporaneo che rigetta il soggetto, che standardizza, problema messo in questione da Davide Tarizzo. Dall'altra parte ci sono le diverse questioni poste da Davide. Potrei partire dalla prima: quel che si può dire e quel che non si può dire, il problema della verità detta a metà nella psicoanalisi. La verità detta a metà, nel modo in cui ne parla Lacan, naturalmente non riguarda il fatto di nascondere qualcosa, Lacan si riferisce a un limite di struttura. Se tuttavia prendiamo il problema da un'altro lato, potremmo effettivamente chiederci che cosa si può dire e che cosa non si può dire al paziente che viene in analisi a domandarci aiuto, a domandarci di guarire da un sintomo, di liberarsi da un sintomo che pensa di avere, quando noi sappiamo che tutto il percorso analitico lo porterà in una direzione diversa, lo porterà, in fondo, a identificarsi con il sintomo, a essere il sintomo che pensava di avere. Si tratta di uno spostamento che evidentemente cambia le cose, cambia o, piuttosto, elimina il rapporto con la sofferenza del sintomo. Questo in fondo è il quesito della guarigione in psicoanalisi, su cui mi sono interrogato per diversi anni, perché effettivamente, il termine “guarigione” in psicoanalisi è un po’ abusivo. “Guarigione” è un termine che appartiene alla medicina, e che nella medicina ha il proprio campo di pertinenza. Malattia e salute riguardano il corpo, occupano lo spazio del corpo. Il termine guarigione si inserisce nella psicoanalisi perché Freud era medico, perché sviluppando la psicoanalisi pensava di sviluppare una specialità della medicina che si occupasse di problemi che per la medicina del suo tempo erano difficile da trattare, erano i problemi posti dalle isteriche. Questa impostazione iniziale è stata messo in questione a più riprese dallo stesso Freud. Quando la psicoanalisi si è trovata a un punto di maturazione più avanzato, Freud ha cominciato a parlare della guarigione come di un effetto collaterale, che segue dalla procedura analitica, dicendo che non bisogna mirare direttamente alla decostruzione del sintomo, ma far sì che il soggetto svolga l'analisi, e la guarigione verrà. Lacan ha sintetizzato quest’idea in una formula dicendo che la guarigione viene en surcroit, viene in sovrappiù, come un guadagno supplementare rispetto allo svolgimento della pratica analitica. Non possiamo però nasconderci in effetti che il soggetto viene da noi aspettandosi, se non vogliamo dire la guarigione, aspettandosi comunque un miglioramento della propria condizione soggettiva, si aspetta che le cose vadano meglio. Cosa significa allora un miglioramento della sua condizione soggettiva? In fondo, quando uno va da un medico, chiede la salute: ha una lesione, ha un virus, ha qualcosa di effettivamente estraneo al buon funzionamento dell'organismo, e chiede di venirne liberato, e questa liberazione è la guarigione. La medicina, ancora oggi, parla di restitutio ad integrum, la restituzione dello stato precedente all’insorgere della malattia. Una simile definizione di guarigione non ha senso nella psicoanalisi perché, in un certo senso, il difetto è all'origine, il trauma non è qualcosa che incidentalmente avviene e che potrebbe non avvenire. Il trauma è all'origine, nel momento in cui l'animale umano diventa animale parlante, nel momento in cui incontra il linguaggio, si urta contro il linguaggio, il linguaggio fa un buco nell'esistenza. Non c'è allora un al di qua a cui risalire rispetto al costituirsi del soggetto parlante. Le persone che vengono da noi chiedono in effetti di guarire, domandano la guarigione, ma hanno una richiesta più fondamentale soggiacente, e a volte anche dichiarata esplicitamente: quel che cercano non è tanto la guarigione, intesa come recupero della salute, ma è – una volta un medico me l'ha detto chiaro e tondo – la felicità. Le persone vengono da noi perché cercano la felicità. È un problema. Che cos'è la felicità? La felicità è qualcosa che oggi gli economisti si sono messi a misurare. L'economia classica misurava altre cose. Partiva da diagrammi, per esempio il diagramma di Pareto, che misura certi stati di equilibrio negli scambi tra i soggetti, e disegna uno stato ottimale degli scambi dove ciascuno trova la propria utilità, dove l’uno e l'altro dello scambio hanno un tornaconto e questo è la situazione olimpica dello scambio, come l’ha definita uno psicologo contemporaneo, Daniel Kahneman, che si è molto occupato di economia. Kahneman ha invece misurato le componenti soggettive che entrano in gioco negli scambi, le componenti legate al rischio per esempio, che rendono la situazione senz’altro meno olimpica, e che sono sentite in modo diverso dai diversi soggetti che agiscono nello scambio. Kahneman cerca quindi oggettivare la misurazione della felicità includendo la variante soggettiva. In realtà il problema non è questo, non è oggettivare la misura della felicità includendo nella valutazioni le variabili soggettive. Il problema è piuttosto che quando facciamo entrare il risultato di queste analisi in un dispositivo matematico-statistico, operiamo comunque una valutazione il cui effetto è desoggettivante. Il tema della valutazione è stato molto dibattuto all'interno del mondo psicoanalitico, quando è stato sollevato il problema della valutazione dei risultati della psicoanalisi. Una persona viene in analisi e ci investe del denaro. In America sono le assicurazioni che sostengono i costi delle cure, e le assicurazioni vogliono avere riscontri oggettivi. Alle assicurazioni americane non si può andare a dire che l’inconscio è una cosa sfuggente, che non ha statuto ontologico ma etico, che il desiderio è una continua metonimia e cose simili. No, per le assicurazioni tutto sta nel fatto i conti se tornano oppure no. Le assicurazioni guardano al rapporto costi-benefici. Per andare incontro alle esigenze delle assicurazioni gli psicoanalisti americani si sono allora messi su questa via, hanno cercato di parlare la lingua delle assicurazioni, di fornire dati, perché quella dei dati è la sola lingua che la burocrazia capisce. Qualunque sia però il modo in cui vogliamo porre il problema, oggettivo o soggettivo, c’è un aspetto ancora preliminare: se misuriamo qualcosa possiamo solo misurare qualcosa di positivo. C'è tutta una tendenza, per esempio, lanciata da un economista inglese, Richard Layard, che ha studiato un piano per guarire su scala nazionale la popolazione dalla depressione, per ottimizzare la felicità della popolazione. Cosa ha fatto? Ha preso i concetti classici di Bentham, quelli dell'utilitarismo, li ha filtrati attraverso le mediazioni di Kahneman, ha stabilito dei parametri con cui si misura se una persona è più o meno felice. La felicità, ammette, non dipende solo da quanto denaro una persona ha in tasca o da quanto glie ne manca, Layard è ben disposto a considerare i più svariati fattori relazionali. La difficoltà però che non può superare è che quel che misuriamo è sempre solo qualcosa di positivo e di univoco, unidirezionale, è a una dimensione, è l'uomo a una dimensione, come recitava il titolo di Marcuse un po’ di anni fa, e la felicità che invece ci chiedono le persone ha un carattere molto più sfaccettato. Innanzi tutto le persone vogliono essere felici, e vogliono risolvere i loro problemi, sul piano individuale, non su scala della popolazione, ma sul piano individuale la felicità diventa una cosa molto più complessa e sfaccettata, e non è mai a una dimensione. Si potrebbero fare molti esempi clinici, ma non è il caso in una conferenza pubblica. A volte un esempio letterario è molto più esplicativo di molti esempi clinici. Uno scrittore che ha riflettuto sulla felicità nel senso in cui stiamo dicendo ora è stato Stendhal. Ogni giorno, diceva Stendhal, ogni essere razionale che esce di casa va à la chasse du bonheur, qualunque sia l'oggetto del bonheur che per lui conta, l'amore, il potere, il denaro, la gloria. Per Stendhal era l'amore, era innamorato di una certa madame Kubly. Lei non lo sapeva. Un giorno Stendhal si trova a pochi passi da madame Kubly mentre lei gli dà le spalle e sta guardando una vetrina. Stendhal allora entra in una straordinaria agitazione, in un vero e prorpio turbamento a causa della vicinanza di questa donna tanto desiderata. Si avvicina un po', sta per fare un gesto, ma improvvisamente si allontana, fugge. Nella Vita di Henry Brulard, che è la sua autobiografia, Stgendhal scrive: "Io sono così, questo è un tratto del mio carattere: sento la vicinanza della felicità come qualcosa che brucia, che brucia realmente, e che diventa insopportabile, una pena reale, concreta, tangibile”. Dice che è un tratto del suo carattere, ma in realtà è una cosa di tutti. Chi non ha conosciuto il momento critico in cui, a due passi dalla ragazza che gli fa battere il cuore, nel momento in cui può avvicinarla, scappa via e vorrebbe essere mille miglia lontano? La felicità, in fondo, è questo, è qualcosa di fortemente antinomico, come l'amore dolce-amaro di Saffo. Nelle macchine formalizzatrici degli economisti questo non può entrare Non può entrare neanche nel discorso che potremmo fare nella prospettiva di parlare con le assicurazioni di psicoanalisi. Non può entrare perché è qualcosa di più complesso, di più appassionato. È certamente più interessante l’antinomia, il contrasto di cui ci parla Stendhal, che non la felicità-benessere, il well-being di cui parlano gli economisti e che è un grande tema attualmente. Alcuni studiosi inglesi cercano di costruire la morale su basi scientifiche, e il well-being è il loro termine di riferimento. Ritengono possibile calcolare quanto well-being, quanto benessere raggiungiamo con una determinata azione, e questo ci dice se l’azione è buona o cattiva. È evidente che per arrivare a queste conclusioni devono partire da una definizione di well-being positiva e a una dimensione, unidimensionale. Credo quindi ci sia qui un grande problema, un problema per risolvere il quale non abbiamo ricette né algoritmi. Per questo la psicoanalisi si trova in un dialogo non facile quando per esempio si parlia di salute mentale. La salute mentale è uno dei grandi temi contemporanei, come ci ricordava anche François in apertura, ma è un tema legato alla pianificazione, è un tema affrontato sulla scala delle popolazioni. La definizione della salute mentale che dà l’OMS è difficile da integrare con i termini che emergono dell’esperienza psicoanalitica. Non dico che non sia un dialogo da non intraprendere, ma uno stato di pieno totale benessere, una totalizzazione del positivo, come viene proposto dal linguaggio delle burocrazie amministrative dell’OMS presenta un problema, una difficoltà, quella forse che dici tu, Davide, quando parli della norma. La questione, credo, non è tanto la normalità, nel senso di uno standard a cui tutti dobbiamo aderire nello stesso modo. Il problema posto dal linguaggio politico-amministrativo dell’OMS è piuttosto nell'idea di una totale positivizzazione. Questo trova corrispondenza nell'ideologia scientista dominante oggi, e che fa sempre più strada nell'opinione pubblica, l’ideologia scientista che in fondo non è altro che la scienza che si allarga troppo, che estende il proprio metodo a un campo che non è di pertinenza di quel metodo. È qualcosa che viene da lontano: hanno cominciato i filosofi della politica nel Seicento da Hobbes in poi. Il problema non è la normalità ma piuttosto la ricerca di una prestazione senza punti di contrasto interni, senza una negatività, senza un ostacolo. In fondo la felicità o il godimento, se vogliamo mettere in gioco il termine lacaniano, il termine più specificamente psicoanalitico, non è una cosa univoca. Lacan lo dice nel seminario sull'Etica, per esempio. Che cos'è l'etica? Storicamente, tradizionalmente, l'etica è una serie di regole a cui è bene adeguarsi se si vuol vivere una vita buona, se si vuol accordare la propria vita al bene. Ma quando parla dell'etica, la prima cosa che Lacan fa è criticare l'idea del bene. Toglie l'idea del bene, e appena tolto il velo del bene salta fuori il problema del male, quello che la teodicea cristiana, da Agostino a Leibniz a Hans Jonas, e fino a oggi insomma, ha cancellato. Levando lo schermo del bene salta fuori il male, e vediamo come la condizione umana abbia a che fare in modo inaggirabile con l’antinomia morale di fondo in cui il bene e il male si implicano. L'uomo vuole il proprio bene ma – e per questo non è opportuno, e non è neppure possibile, dire tutta la verità – quando una persona viene e dice: “Voglio guarire, voglio star bene”, tutto quel che poi fa è invece lavorare contro se stesso, inciampare nei propri passi, cercare una ratifica e un riconoscimento della propria posizione come malato. Chi è allora l'uomo normale, l'uomo sano nel senso in cui vorrebbe l'OMS? È l'uomo la cui mente coincide con il proprio corpo. È Chuck Norris, è l'uomo che combacia perfettamente con se stesso! Ci sono sui blog irresistibili filoni di barzellette su Chuck Norris, l’uomo che con un calcio rotante al volo demolisce ogni ostacolo, l’uomo tutto d’un pezzo. Simile modello di uomo indiviso è quello che, se le cose vanno male, è sempre colpa dell'altro. È il politico che se perde le elezioni è a causa dei suoi candidati, o quello straordinariamente fortunato che se compra una casa glie la paga qualcun altro senza che lui ne sappia niente. Credo che il punto sia che la condizione umana a che fare con un concetto antinomico, e migliorare la condizione del soggetto non vuol dire cancellare l'incancellabile, il sintomo, o il lato del negativo. Lacan dà una definizione della salute mentale che è: tener conto dell'impossibile. La salute mentale è tener conto di un punto impossibile. Lacan cita una signora di una sua conoscenza – ogni tanto ne parla nei seminari – non ne fa il nome ma menziona un suo detto: “Per l'uomo tutto è possibile, quel che non può fare, semplicemente lo tralascia”. È questo incontro con l'impossibile il punto critico per la salute mentale. In un’ideologia dominata dallo scientismo, che mette tutto sotto il segno della positività, l'impossibile viene vissuto come impotenza, perché tutto deve andare sotto un segno positivo. Allora, quando la negatività della vita viene in superficie, ci sembra di soffrire di inadeguatezza, di attacchi di panico, ci sentiamo inferiori, non diamo la prestazione richiesta, dettata non tanto dalla norma, ma dalla totalizzazione del positivo. Quindi non so se questo entra in qualche articolazione con il discorso che tu facevi Davide. Voglio dire qualcosa anche sull'ontologia, sulla mancanza d'essere. Effettivamente, l'ontologia è un problema che poneva Miller a Lacan in un seminario, ed è un tema che sta riprendendo nei suoi seminari attuali. È Lacan stesso che traduce manque-à-être come want to be, perché gioca sul doppio senso che inglese di want. Want è volere, e in un certo senso want-to-be è voler essere. Questo dà il senso di manque-à-être perché manque-à-être è non la mancanza di un essere che ho perduto da qualche parte. Non è che mi manca l'essere che avevo. È che il soggetto punta a una realizzazione d’essere e a un passo dal realizzarlo l’essere gli sfugge. Si tratta quindi di una mancata presa sull'essere, non una perdita di qualcosa che prima si aveva. In questo senso quindi non è possibile recuperare lo stato precedente, perché l'oggetto perduto non è l'oggetto che si aveva e che è andato smarrito, è qualcosa che non si è mai toccato. Da una parte dunque c’è il voler essere, dall'altra parte want ha il senso in inglese di “mancanza”. Want come verbo è “volere”, want come sostantivo è “mancanza”. Non sono sicuro che si possa omologare allo wannabe, perché il termine perde questo gioco, perde il doppio senso presente nella traduzione di Lacan. Possiamo però dire qualcosa sulla questione che poni. Ci sono persone che chiedono chirurgicamente un'automutilazione. Certo socialmente è un problema che pone un sacco di quesiti. Diciamo che non è un mistero dal punto di vista analitico, se consideriamo che nella psicosi quel che non si è inscritto simbolicamente è la castrazione, e il soggetto per cui la castrazione non si è inscritta simbolicamente la cerca nel reale. Abbiamo fenomeni come quello che tu racconti, persone che chiedono chirurgicamente di realizzare la castrazione che non si è costituita nel simbolico. Tornando ora alla salute mentale. La salute mentale definita dall'OMS è incarnata da Chuck Norris, l'uomo identico a se stesso, o da altri personaggi televisivi che parlano su tutti i canali e poi si lamentano che non li si fa parlare. Questi rappresentano un'idea di felicità semplice, autoappagata, lineare, solo che la felicità non in contraddizione con se stessa va in contraddizione con la realtà, è questo il problema. C'è quindi un'idea di una salute definita dall'uomo che coincide con se stesso, ma non è questo l'uomo accessibile alla psicoanalisi, non è questo il soggetto che la psicoanalisi mette in questione. Il soggetto che la psicoanalisi mette in questione o, piuttosto, il punto di mira verso cui la psicoanalisi tende, è espresso in una frase di Beckett che dice: "Proviamo ancora, sbagliamo ancora, falliamo ancora, falliamo meglio”. Non si tratta infatti di eliminare il fallimento, di cancellare il sintomo, perché è all'origine, è all'incontro con linguaggio che c'è qualcosa per qui i conti non tornano. Se la guarigione, nella medicina, è definita dall’armonia e da una certa integrità del corpo, quest’integrità nel soggetto parlante è qualcosa che va perduto all'origine. L’obiettivo quindi non è tanto il successo, la riuscita, cancellare il ratage, lo scacco, il fallimento, ma piuttosto come efficacemente dice Beckett: "Provare ancora, fallire ancora, fallire meglio". Il fallimento allora non è più il punto d’inciampo, ma il punto di forza. Diventa il punto di forza nella misura in cui non è più qualcosa di cui il soggetto soffra, ma è, se non il fondamento, il punto da cui partire
0 Comments
Leave a Reply. |
Marco Focchi riceve in
viale Gran Sasso 28 20131 Milano. Tel. 022665651. Possibilità di colloqui in inglese, francese, spagnolo Archivi
Gennaio 2025
Categorie |