Marco Focchi Conferenza tenuta a Madrid presso la sede dell'Escuela lacaniana de psicoanalisis, il 28 ottobre 2019 Sappiamo com’è andata la storia che porta al momento in cui Lacan pronuncia il Seminario XI di Lacan, ma è senz’altro utile ricordarla brevemente. Nel 1953 all’interno della Societé Psychanalytique de Paris scoppia un conflitto tra i sostenitori di un’analisi strettamente riservata ai medici, capeggiati da Sacha Nach e da Serge Lebovici, e i partigiani di una visione più liberale, che vogliono aprire la psicoanalisi alle scienze umane e alle diverse possibili formazioni accademiche, rappresentati da Daniel Lagache, Juliette Favez Boutonnier e Françoise Dolto. È una contrapposizione tipica tra una fazione progressista e una conservatrice, che appare in molti modi in quasi tutti i gruppi analitici, e che conosciamo in fondo anche noi oggi per esperienza diretta. Il conflitto sembra difficile da comporre, e l’ala progressista ritiene inevitabile separarsi. Fonda così la Societé Française de Psychanalyse, ma non si rende conto che, con questa mossa, automaticamente si stacca anche dall’IPA, cosa che non era nei programmi. Cominciano allora le trattative per ottenere l’ammissione all’IPA della nuova formazione, e non sono una cosa breve perché i preliminari durano dieci anni, fino al 1963. Il negoziato finale viene condotto da Serge Leclaire, Wladimir Granoff e François Perrier, e porta alla conclusione che la SFP potrà venire riammessa nell’IPA se saranno esclusi Jacques Lacan e Francois Dolto.
Le ragioni per cui fu richiesta esclusione di Lacan sono note: la pratica delle sedute variabili, il fatto che i suoi analizzanti partecipassero ai seminari, una gestione della traslazione che appariva opaca all’Istituzione. Ma perché fu chiesta l’esclusione di Françoise Dolto? Ci fu su questo problema una presa di posizione di Donald Winnicott, il quale sosteneva che la Dolto aveva sì intuizione, ma non aveva metodo. A questo si aggiunse, anche per lei, una critica sulla gestione della traslazione con i suoi allievi, che veniva considerata incontrollata. In entrambi i casi quindi, sia per Lacan sia per Dolto, il problema maggiore, più importante delle critiche sulla tecnica delle sedute brevi e sul metodo direi, era quello della modalità di gestione della traslazione, che non passava per le filiere istituzionali. Per via di questa esclusione Lacan può presentarsi, nella prima lezione del Seminario XI, come un eretico, uno scomunicato, ma usa anche una espressione per noi oggi di maggior attualità: si presenta come un profugo, ma un profugo per il quale i porti non sono chiusi perché, come sappiamo, il suo insegnamento, grazie alla mediazione di Louis Althusser, viene accolto all’École Normale Supérieure. Il problema della legittimazione Inizia così una nuova fase di questo insegnamento, una fase che non si connota più come ritorno a Freud, vessillo degli anni Cinquanta, perché ormai Lacan deve riaffermare la psicoanalisi fuori dalla continuità della tradizione istituzionale freudiana. Si pone quindi un problema di legittimazione. Lacan in effetti si domanda “Cosa mi autorizza a parlare qui?” E in effetti niente lo autorizza. Quel che autorizza è la tradizione, la catena che risale ininterrotta a un atto di fondazione. Per la psicoanalisi l’atto di fondazione è quello di Freud. Uscendo dal solco di questa tradizione in effetti il problema della legittimazione è molto concreto, non è sollevato in modo semplicemente retorico, non è una captatio benevolentiae. Ed è, per di più, un problema complesso, che non ha in realtà soluzione. Se si interrompe una tradizione occorre inaugurarne un’altra, e in effetti la via d’uscita di Lacan è riferirsi a un’altra tradizione che sia nuova anche se non completamente slegata dalla precedente. Dice infatti: tutti, o quasi, mi avete sentito proferire un insegnamento in questi dieci anni, un insegnamento rivolto agli psicoanalisti. Non c’è altro titolo che questo, ma deve bastare. Nel momento in cui l’IPA gli revoca la qualifica di didatta, l’abilitazione a insegnare, è a partire dal fatto – e non dal diritto – di aver insegnato che rivendica la legittimità di continuare a insegnare. È una continuazione, ma procede da una discontinuità che non può evidentemente venir cancellata. Per questo, direi, Lacan insiste tanto sul tema della fondazione. Dobbiamo qui far attenzione alle date: Lacan non ha ancora fondato l’Ecole Freudienne de Paris, giacché l’atto formale di fondazione porta la data del 22 settembre 1964, e nelle prime lezioni del Seminario XI siamo a gennaio, ma prima ancora della fondazione istituzionale, evidentemente Lacan si preoccupa della fondazione della pratica psicoanalitica. Il fondamento Credo sia alla luce di queste preoccupazioni che Lacan si intrattiene insistendo così sul problema del fondamento, problema che la filosofia – per la quale l’archè è sempre stato la questione centrale – nel Novecento ha messo da parte, e che con Heidegger ha in un certo senso superato. Alle origini i filosofi cercavano un unico principio a cui far risalire tutte le cose: per Talete era l’acqua, per Anassimandro l’apeiron, l’indefinito, per Anassimene l’aria, per Eraclito il fuoco. Cosa cercano i primi filosofi tentando di stabilire l’archè? Tentano di individuare ciò che è lo stesso nei diversi. Per esempio per Eraclito il principio è il fuoco perché per lui tutto diviene e il fuoco è l’immagine per eccellenza della trasformazione, in quanto per rarefazione e condensazione si trasforma negli altri tre elementi. Per Talete è l’acqua perché è il nutrimento di tutte le cose, e i semi hanno natura umida. Si tratta quindi di individuare cosa permane lo stesso nella diversità degli enti. Fino a che Parmenide raggiunge la più alta generalizzazione indicando come principio l’essere, giacché tutti gli enti sono, e poiché il non essere non è, non se ne può neppure parlare. L’essere come fondamento è poi scritto da Heidegger con una barra che lo cancella quando annuncia un pensiero del compimento della metafisica. Il problema del fondamento è stato infine accantonato anche nella matematica, dopo la crisi dei fondamenti inaugurata da Russell. Lacan dunque, nel 1964, si preoccupa invece di fondare, e mette per questo a tema del suo seminario i quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. Sembra si occupi di un problema superato, invecchiato, a cui più nessuno pensa. Il comico e il pudore È chiaro che in questa rifondazione la sua persona viene in primo piano, proprio perché è stato oggetto di un negoziato. Ma proprio il fatto di essere stato oggetto di un negoziato dà una svolta al modo in cui intende il fondamento, rendendolo molto meno desueto di quel che può apparire, perché l’esperienza traversata lo porta a intrecciarlo con il comico. Far sorgere l’oggetto che per sua natura è velato – dice – è l’elemento della più pura comicità e nei rapporti sociali, se vogliamo coglierne la struttura al di là della retorica sui Diritti umani, ogni individuo è negoziabile, perché i rapporti si basano sullo scambio (Seminario XI p.7). Per Lacan il riferimento sullo sfondo è qui Lévi-Strauss quando parla degli accordi matrimoniali basati sullo scambio di donne. Gli scambi di individui però non si limitano alle donne e agli studi antropologici. Per ricordare una vecchia storia, Giuda per trenta denari ha fatto uno scambio che non si è rivelato un buon affare, e d’altra parte in ogni presa d’ostaggi gli individui diventano oggetto di trattativa e di scambio. Bisogna dunque liberarsi dal falso pudore di trattare queste vicende in famiglia, è bene parlarne all’esterno. Proprio qui però troviamo la virata sul significato del fondamento, nel momento stesso in cui Lacan lo articola con il pudore. Riconoscere il comico, dice, “non è fuori dal campo del mio contributo sui fondamenti della psicoanalisi, giacché fondamento ha più di un senso, e non avrò certo bisogno di evocare la Cabala per ricordare che in questo essa designa uno dei modi della manifestazione divina identificato appunto, in tale registro, con il pudendum (p.7). E prosegue: “Sarebbe singolare se in un discorso analitico ci fermassimo al pudendum. Qui in effetti i fondamenti prendraient la forme de dessous, si ces dessous n'étaient pas déjà quelque peu à l’air.” Questa frase bisogna riportarla in francese perché Lacan gioca con il termine dessous, che significa sotto, ma significa anche la biancheria intima. In questo senso andare al fondamento significa un po’ andare a vedere il re nudo, e non è qualcosa, secondo Lacan, che debba intimidire gli psicoanalisti sulla scorta di un falso pudore. Scholem sul trascendente Non credo sia necessario ora fare una deviazione per la Cabala per capire cosa Lacan vuol dire con queste frasi, ma c’è un passaggio di un intenditore come Gershom Scholem che può tuttavia essere interessante riportare per darci qualche coordinata. “Le forme particolari di pensiero simbolico in cui l’assetto fondamentale della Cabala ha trovato la propria espressione – dice Scholem – possono rappresentare poco o nulla per noi. Ma il tentativo di scoprire la vita che si cela sotto le forme esteriori della realtà è di rendere visibile quell’abisso in cui la natura simbolica di tutto ciò che esiste si rivela: tale tentativo è importante per noi oggi quanto lo era per gli antichi mistici. Fintanto che la natura e l’essere umano sono concepiti come Sue creazioni, la ricerca della vita nascosta dell’elemento trascendente in questa creazione formerà sempre una delle preoccupazioni più importanti della mente umana.” Nella nostra tradizione cristiana siamo abituati a pensare che il trascendente è sopra, nell’alto dei cieli. Qui Scholem ci dice come il trascendente sia sotterraneo, nella vita che fluisce sotto gli aspetti esteriori della realtà, nelle forme simboliche i cui si rivela l’abisso nascosto dell’esistente. Ciò che nella Cabala è il trascendente nascosto subisce in Lacan il trattamento comico di essere preso come pudendum, di una spoliazione in cui la biancheria intima, il dessous, viene messo in bella vista. Nietzsche sulle donne d’età Mettendo così insieme il fondamento, il comico, il pudendum, quello che poteva sembrare il problema desueto del fondamento assume in Lacan un tono quasi nietzscheiano, come possiamo sentire per esempio nell’aforisma 64 de La gaia scienza. “Temo che certe donne invecchiate siano, nell’angolo più segreto del loro cuore, più scettiche di tutti gli uomini: credono alla superficialità dell’esistenza, come fosse la sua sostanza medesima, e ogni virtù e profondità è per loro solo il velame di questa “verità”, il velame molto opportuno di un pudendum: una questione – quindi – di buona creanza e pudore, nulla più!” Il fondamento, come lo prende Lacan, riporta alla superficie, e questo ha senso in particolare se consideriamo che da un po’ Lacan ha cominciato a esplorare i temi della topologia e a sfruttare le proprietà topologiche delle superfici. In fondo le donne scettiche di Nietzsche, che hanno scoperto la mistica del profondo aprendosi senza falsi pudori alla superficie, sono ancora più vicine della Cabala alla nozione di fondamento che Lacan ci propone. Fondare una prassi Quel che si tratta di fondare è comunque una prassi, la prassi della psicoanalisi. Consideriamo anche la scelta dei termini, che in Lacan non è mai casuale. Lacan dice qui prassi, praxis. Avrebbe potuto dire pratica, pratique, che è un termine corrente e più comune. Usa invece un vocabolo di radice greca come prassi, e in greco praxis indica quell’azione che ha in sé il proprio senso, in contrapposizione con poiesis che si riferisce alla transitività dell’azione, il passaggio verso qualcos’altro, la produzione concreta di un oggetto. La praxis indica così le azioni morali in genere, che non sfociano nella realizzazione di un oggetto autonomo e indipendente, come per esempio la politica. Certamente infatti la decisione politica si connota come una praxis. Lacan utilizza praxis considerandolo evidentemente appropriato in modo particolare alla psicoanalisi e definisce la praxis come un modo di trattare il reale per mezzo del simbolico. Vediamo in questa definizione l’antesignana di quel che pochi anni più tardi Lacan definirà come l’atto analitico. Ora: non ci sfugge che il termine prassi è stato messo in circolazione nel pensiero moderno dal marxismo, per indicare l’insieme dei rapporti di produzione e di lavoro che costituiscono la struttura sociale, e Marx sosteneva che è la prassi a spiegare, cioè a fondare, la formazione delle idee. Abbiamo quindi con Lacan un rovesciamento all’idea marxiana: è la prassi che deve essere fondata, ed è su questa linea di pensiero che sorge, per la prima volta nel discorso di Lacan, la domanda se la psicoanalisi sia una scienza. Lacan si pone questa domanda in modo tutt’altro che ingenuo, perché non dà nulla per scontato, parte dall’idea che non abbiamo una definizione di psicoanalisi, se non quella in cui si dice che la psicoanalisi è il trattamento esercitato da uno psicoanalista. Nemmeno della scienza possiamo però dare per scontato di avere una definizione. Una scienza è solitamente specificata dal fatto di avere un oggetto, ma questo oggetto cambia con l’evoluzione della scienza. Per Galilei l’oggetto di studio era il movimento. Non so se possiamo dire la stessa cosa per la meccanica quantistica, e non possiamo certo assumere la pretesa positivista di un’unità della scienza. Anche il riferimento all’esperienza non è decisivo, perché esiste pur sempre l’esperienza mistica. E se la scienza è il campo di una prassi, allora l’alchimia va forse definita come una scienza? Il desiderio dell’analista e la pratica del controllo Il riferimento all’alchimia è la porta attraverso cui, per analogia, Lacan fa entrare in gioco il desiderio dello psicoanalista. Nell’alchimia, infatti, la purezza d’animo dell’operatore era considerata un fattore essenziale. L’operatore alchemico si sentiva come un iniziato, introdotto in un processo segreto e sacro per il quale la segretezza era fondamentale, e si metteva in una condizione spirituale adeguata, preparando l’anima a una crescita che ne orientava le energie verso l’alto. Cosa deve essere allora il desiderio dello psicoanalista perché operi in modo corretto? Sappiamo che da questa domanda dipende anche l’orientamento generale della pratica del controllo che, diversamente da come avviene nell’IPA, nel Campo freudiano non si limita a essere la correzione da parte di un esperto degli errori del principiante. È chiaro poi che la pratica del controllo dipende anche dalla concezione che ci facciamo dell’inconscio. Un conto è se, come accadeva nella psicoanalisi degli anni Sessanta, si mette tutto l’accento sul passato e si considera l’inconscio nella prospettiva di un determinismo verticale. Il passato allora è una sorta di motore immobile da cui scaturisce tutta la dinamica dell’inconscio, occludendo ogni possibilità d’invenzione, di novità. Altro conto è se l’inconscio si articola con un soggetto dell’inconscio, se si costituisce in una scelta, se si apre al possibile, e quindi a quel che non è già scritto. Lo spinozismo di Lacan, in fondo, si ferma proprio qui, sul fatto che ci sia una scelta costitutiva del soggetto. Conosciamo l’esempio famoso di Spinoza che, per negare l’idea della libertà, fa l’esempio del sasso: siamo come un sasso lanciato, che pensa di muoversi di sua iniziativa solo perché ignora le forze che gli hanno dato la spinta. Una nuova concezione dell’inconscio La revisione dell’inconscio che Lacan mette al lavoro nel Seminario XI riguarda l’aspetto temporale. L’inconscio strutturato come un linguaggio – Lacan rievoca questa formula nella seconda lezione – è l’inconscio di una combinatoria. Il riferimento sullo sfondo è Claude Lévi-Strauss, il quale mostra nei suoi lavori antropologici come precedendo qualsiasi esperienza il campo in cui si inseriscono le esperienze collettive è organizzato da prima che il soggetto vi si inserisca. L’inconscio come discorso dell’Altro viene dall’Altra scena freudiana, ma sente anche l’influenza di questa organizzazione simbolica preliminare di Lévi-Strauss. La funzione totemica stessa, a cui Freud si è riferito, viene criticata da Lévi-Strauss e mostrata per quel che è: semplicemente una funzione classificatoria. Questa classificazione non è solo una distribuzione di oggetti in diverse categorie, ma è propriamente una modalità di regolazione degli scambi, una grammatica che determina le mosse possibili e quelle invece non consentite. È, a tutti gli effetti, una legge preliminare al soggetto, in cui il soggetto deve trovare la propria collocazione. In questo senso l’inconscio strutturato come un linguaggio è propriamente una macchina, con nessi e movimenti predeterminati. Se l’inconscio fosse solo questo sarebbe del tutto analogo al modello standard deterministico da cui già Freud aveva preso le distanze, e in cui la psicologia dell’Io invece, nella propria ambizione di entrare nella scia della scienza, viene pienamente a inscriversi. Per questo Lacan, nel momento in cui si domanda se la psicoanalisi sia una scienza, sente il bisogno di riformulare, di ripensare il suo concetto di inconscio. È quindi nel Seminario XI che l’inconscio diventa temporale, implicando un ritmo con dei battiti di apertura e chiusura. L’inconscio, dice Lacan, non è ontologico, non è cioè ascrivibile a qualcosa di già esistente, è piuttosto il non-realizzato, è qualcosa che spinge per venire all’esistenza e che si manifesta per un attimo in una pulsazione evanescente. Le quantità negative e la causa Cosa interviene perché Lacan senta il bisogno di riformulare in modo così radicale la nozione di inconscio? Quel che porta a questa svolta parte dalla riarticolazione della nozione di oggetto sviluppata nel Seminario dell’anno precedente sull’angoscia, dove l’oggetto viene posto come oggetto causa anziché come oggetto intenzionale. Se prima l’oggetto era considerato in base alla metonimia, un oggetto in fuga sempre inseguito e mai afferrabile, articolato in base alle coordinate del simbolico, ora appare come una spinta, più sul versante pulsionale, come un’interferenza e una rottura di continuità del piano simbolico. Nella riformulazione della nozione di inconscio che avvia nel Seminario XI Lacan parte così proprio dal concetto di causa che ha sullo sfondo questo nuovo concetto di oggetto, anche se dire concetto qui è piuttosto abusivo, perché l’idea che Lacan sostiene qui è che la funzione della causa, quanto più cerchiamo di afferrarla, di prenderla nelle maglie del Begriff, tanto più evade, tanto più ci sfugge. Nel dirlo è in buona compagnia, perché prende appoggio sul saggio di Kant Tentativo per introdurre nella filosofia il concetto della quantità negativa, un testo del 1763, uno degli scritti pre-critici di Kant. Si tratta di un riferimento assolutamente importante, perché la tematica dell’inconscio come fenomeno di discontinuità che Lacan sviluppa nel seguito del seminario nasce proprio da qui, e credo quindi sia necessario entrare un po’ nella logica di questo testo di Kant. L’analisi di Kant parte da una distinzione fondamentale tra due modi di opposizione in cui una cosa annulla l’altra. La prima opposizione è quella logica, dove si afferma e si nega al tempo stesso un predicato per una cosa. Un corpo in moto è qualcosa, un corpo non in moto è pure qualcosa. In entrambi i casi si tratta di qualcosa di pensabile e anche di esistente. Ma un corpo che sia in moto e al tempo stesso non in moto incorre nel principio di contraddizione, e non solo non è pensabile ma neppure esiste. Nella sua fondazione dell’aritmetica infatti Frege sigla con l’insieme vuoto, cioè come inesistenza, l’ente non identico a se stesso, ovvero ciò che ricade sotto il principio di contraddizione. La seconda opposizione considerata da Kant, e qui sta la novità che introduce, è quella reale. Nell’opposizione reale due predicati si contrappongono, ma non in virtù del principio di contraddizione. L’esempio è quello di un corpo spinto da una forza in una direzione, e da una forza uguale in direzione contraria. Ne risulta che il corpo rimane in quiete, perché le due forze si annullano reciprocamente, ma non perché si contraddicano logicamente. La situazione che ne risulta è quindi pensabile. Kant chiama zero=0 questo risultato, attribuendole il significato di negazione, di mancanza, di assenza. La differenza fondamentale che Kant pone in risalto è che nell’opposizione logica conta solo la relazione in cui i predicati si annullano a vicenda, vale a dire che contano le conseguenze della contraddizione e non importa quale dei due predicati sia affermativo e quale negativo. Nell’opposizione reale ci si fonda invece sulla relazione reciproca tra due predicati della stessa cosa, ma uno non nega ciò che è affermato dall’altro: entrambi sono affermativi, nell’esempio kantiano entrambe le forze spingono positivamente il corpo, anche se in direzioni opposte. Un altro esempio di Kant: se ho un credito di cento talleri, e al tempo stesso un debito per una somma equivalente, mi ritrovo senza il becco di un quattrino in tasca, perché il credito e il debito sommati danno come risultato zero. Il niente con cui mi ritrovo è tuttavia un niente relativo, conseguente al duplice movimento di capitale che mi fa ritrovare con le tasche vuote. L’annullamento che deriva dalla contraddizione logica è invece assoluto. Kant moltiplica gli esempi, ma punto saldo è che il concetto di quantità negativa nasce dall’opposizione reale: una quantità è negativa nei riguardi di un’altra quando non può essere unita a essa se non per opposizione, in modo che l’una annulli nell’altra il proprio valore. Nessuna delle due quantità è negativa in modo assoluto, ma ognuna sempre in relazione all’altra. Kant estende man mano la sua analisi entrando nel campo morale: il dispiacere è solo assenza di piacere? No, è una causa positiva che annulla in tutto o in parte il piacere derivante da un’altra causa che si può chiamare piacere negativo. Kant fa qui un esempio che ai nostri occhi risulta poco attuale: una madre che ha perso un figlio in guerra prova un piacere per l’orgoglio di patria perché il figlio ha combattuto e perso la vita per una nobile causa, ma questo piacere è contrastato dal dolore per la perdita del figlio. Naturalmente questo esempio poteva forse funzionare per una madre prussiana di due secoli fa, ma sembra poco proponibile per una madre, anche se non eccessivamente apprensiva, dei nostri giorni. Nella stessa prospettiva il demerito non è un’assenza di merito ma un merito negativo: per infrangere una legge positiva, come l’amore per il prossimo, occorre una forza interiore che nasce da un preciso movente. Anche questo esempio è forse funzionale dal punto di vista della rigida morale kantiana, e Kant sicuramente non aveva idea dell’ambivalenza di odio e amore messa in luce da Freud. Kant estende, esplora, amplia le applicazioni possibili delle conseguenze dell’opposizione reale, che resta la colonna fondamentale su cui si basa tutto il suo ragionamento, ma la parte che interessa Lacan viene alla fine del saggio ed è abbastanza sorprendente. Dopo questa ricca e dettagliata spiegazione della nozione di opposizione da cui deriva il concetto di quantità negativa Kant, affettando modestia, dice che si tratta di qualcosa che riconosce di non capire. Interviene qui il concetto di causa come interessa a Lacan. Comprendo bene – dice Kant – in che modo una conseguenza logica venga posta da una causa secondo le regole dell’identità, poiché la conseguenza si ritrova nella causa analizzando i concetti. L’immutabilità consegue dalla necessità, perché se qualcosa è necessario deve permanere, e se deve permanere non può mutare. La divisibilità consegue alla composizione, perché se qualcosa consiste di un aggregato di elementi deve poter essere suddiviso in questi stessi elementi. In questi casi la conseguenza è veramente identica a uno dei concetti parziali della causa. Quel che risulta difficile capire invece, è come una cosa nasca da un’altra cosa senza seguire il principio di identità. Kant sta dunque distinguendo tra causa logica, dove il rapporto di conseguenza si capisce logicamente seguendo il principio di identità, e causa reale, dove il rapporto, pur facendo parte dei concetti veri, non può essere giudicato in nessun modo. Il quesito non risolvibile è: in che modo, essendoci una cosa, ce ne può essere un’altra? La causa reale non è mai una causa logica: la pioggia non viene posta dal vento in conformità con il principio d’identità. C’è un parallelismo tra opposizione logica e opposizione reale e causa logica e causa reale. Non si capisce come il moto di un corpo possa annullare quello di un altro mentre non c’è contraddizione logica tra i due moti. Conoscendo il seguito della riflessione di Kent vediamo cosa si sta cucinando in questi pensieri: la risposta agli interrogativi che nascono qui sarà possibile solo quando Kant avrà scritto La critica della ragion pura, quando cioè avrà formulato la nozione di giudizio sintetico a priori. Per ora quel che non passa attraverso il concetto di identità, cioè attraverso dei giudizi analitici, resta enigmatico, e per quanto si possa suddividere il concetto del rapporto tra una causa reale e una cosa che venga da essa posta o annullata, le nostre conoscenze terminano nei concetti semplici e non più divisibili di cause reali i cui rapporti con le conseguenze non possono essere ulteriormente chiariti. La causa è dove la catena significante zoppica È questo il punto in cui Lacan incontra Kant: dove la causa reale crea una frattura rispetto al principio di identità. A partire da qui Lacan formula la frase spesso citata “il n’y a de cause que de ce qui cloche”. L’espressione interviene quando Lacan dice che l’inconscio freudiano si situa nel punto in cui, tra la causa e ciò che colpisce, c’è sempre qualcosa che zoppica. Abbiamo in questa formulazione un’implicaziome che va al di là dei meccanismi dell’inconscio strutturato come un linguaggio, cioè dell’insieme dei significanti, delle regole, degli ordini, dei testi che funzionano già prima che il soggetto vi si collochi. Sappiamo bene d’altra parte come questi meccanismi funzionano, poiché seguono le precise leggi di combinazione dei grandi assi della metafora e della metonimia attraverso cui i significanti si articolano o si sostituiscono gli uni con gli altri. La prima formalizzazione dell’inconscio per Lacan è in fondo la ripresa delle modalità espressive del sogno spiegate da Freud attraverso lo spostamento e la condensazione, filtrate dalla logica della linguistica di Saussure e di Jakobson. Spingendo in direzione della formalizzazione, in un’epoca in cui era ancora un termine raro, Lacan definisce algoritmo il rapporto stabilito da Saussure tra significante e significato. Oggi parliamo comunemente di algoritmi, e cerchiamo di difendercene: dobbiamo schivare gli algoritmi di Google, ripararci da quelli di Facebook, che hanno aperto le porte a Cambridge Analytica. L’algoritmo è una procedura automatica, e a un certo punto anche Miller si era chiesto perché chiamare algoritmo il matema S/s. Si risponde in un articolo pubblicato in Ornicar? n° 16. “Perché l’algoritmo definisce una procedura automatica che accetta ogni segno come dato iniziale e invariabilmente lo fende in due. Opera, e riesce, perché tutto quel che fa significante resiste alla significazione. Tentate e vi persuadete che un linguaggio si definisce a partire da quel che non si comprende. È il motivo per cui l’algoritmo saussuriano è di un tipo che non trova in Church, Turing, Markov: non offre nessuna soluzione, se non di continuità, tra significante e significato, e solo presenta questioni, rende problematico ogni segno”. Dopo la riformulazione dell’inconscio presentata nel Seminario XI direi non c’è più bisogno di questa difesa di ufficio, di questo chiarimento sul carattere non automatico dell’inconscio strutturato come linguaggio. Quando Lacan dice nel seminario (p.23) che la causa “si distingue da quel che c’è di determinante in una catena, in altri termini dalla legge” sta seguendo la traccia di Kant nella distinzione tra causa logica e causa reale. La causa praticamente introduce uno iato nella concatenazione della legge, è il punto d’inciampo nella sequenzialità lineare della legge. Nel corso del 2006-2007 Le tout dernier Lacan, Miller ha delineato la differenza tra l’inconscio transferenziale e l’inconscio reale, facendo riferimento alla Prefazione all’edizione inglese del Seminario XI. Ha definito l’inconscio reale come esterno al soggetto supposto sapere, esterno alla macchina significante che produce senso, che basta far girare perché ne dia quanto se ne vuole (Quarto n. 88-89, p.9). Direi che le premesse di questo inconscio reale, che è omologo al trauma più che alla concatenazione S1- S2, si trovano già in queste prima lezioni del Seminario XI. Evidentemente qui Lacan non parla di inconscio reale, non utilizza questo termine, ma cosa altro sta dicendo quando parla di non-realizzato? A cosa altro si riferisce quando sostiene che: “L’inconscio, innanzitutto, ci si manifesta come qualcosa che resta in attesa nell’area del non-nato, e non c’è da stupirsi che la rimozione vi riversi qualcosa”. E ancora, Lacan si riferisce all’ombelico del sogno di cui parla Freud, che è il termine ultimo, il centro sconosciuto, non è altro che lo iato, la beance, la discontinuità introdotta con la causa reale. L’accento quindi non è più posto sullo scorrimento, sul funzionamento della catena significante, sull’inconscio come discorso dell’Altro la cui fluidità è garantita dalle leggi che ne sostengono la grammatica, ma piuttosto sull’intoppo, sull’inciampo, non sulla prevedibilità del meccanismo, su quel che coglie di sorpresa, quella sorpresa per la quale Lacan rimanda al primo che l’ha segnalata, Theodor Reik, dove è articolata come ciò in cui il soggetto si sente superato, trovando più e meno di quanto si aspettasse, incontrando qualcosa di un valore unico, una trovata per l’appunto. In Italia abbiamo l’espressione: “Se non è vero è ben trovato!”. Direi che calza molto bene per esprimere la direzione in cui ci porta Lacan con questo seminario. Non siamo più sulle tracce di una verità che colmi le lacune e gli spazi lasciati in bianco nel racconto della nostra storia, ma nell’inciampo in cui ci troviamo a inventare qualcosa che non colma le lacune, piuttosto che se ne serve. In questa prospettiva il trauma è un buco in cui effettivamente, come dice Lacan, il nevrotico fa ricadere ciò che rifiuta attraverso la rimozione, mentre attraverso l’analisi il soggetto può prendere il filo del non-realizzato, e questo serve per condursi fuori dal labirinto della nevrosi.
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