Discorso tenuto il 2 marzo 2011 a Milano nel ciclo di preparazione al Convegno di Catania sul tema Modernità della psicoanalisi di Marco Focchi Nel Seminario sui quattro concetti fondamentali della psicoanalisi Lacan definisce l’inconscio dicendo che non ha uno statuto ontico, ma etico. È una formula a cui siamo ormai abituati, che ci sembra di sapere, e la leggiamo o la ripetiamo quasi senza più interrogarla. In realtà è una formula che dice qualcosa d’importante, e sulla quale vale la pena di soffermarsi. Consideriamo che il Seminario sui quattro concetti fondamentali è del 1964, e sono passati pochi anni da quando Lacan ha introdotto il tema dell’etica, e ha tenuto il Seminario sull’Etica della psicoanalisi. La parte principale del Seminario sull’etica, la parte iniziale che costituisce il corpo maggiore del seminario, è dedicato a delineare un elemento eterogeneo rispetto al campo delle rappresentazioni – delle Vorstellungen, di cui parla Freud – rappresentazioni che Lacan rilegge alla luce della sua teoria del significante. Le conseguenze dell’inconscio etico
Siamo tornati spesso in questi anni su questo tema: il Seminario sull’etica è un punto di svolta nell’insegnamento di Lacan perché vi si disegna la prima nozione di quello che diventerà poi il reale. Ma come si presenta? Nelle prime lezioni del Seminario sull’etica vediamo svilupparsi una costruzione antinomica della nozione che va sotto il nome generico das Ding, la Cosa. È interessante notare che Lacan prende il termine tedesco di Freud, e lo mette in contrapposizione semantica con l’altro termine che Freud usa per dire “la Cosa”, che è die Sache. La differenza è che Sache indica le cose con cui abbiamo a che fare quotidianamente, ed è un termine che entra per esempio nell’espressione freudiana Sachevorstellungen, le rappresentazioni di cosa, in contrapposizione alle rappresentazioni di parola, Wortvorstellungen. Sache è quindi un termine collegato all’idea di rappresentazione, e indica le cose rappresentabili. Il grosso del lavoro iniziale di Lacan nel Seminario sull’etica consiste invece nell’isolare una Cosa, das Ding, che è completamente staccata dal campo delle rappresentazioni, e che risulta aliena alle rappresentazioni. Si presenta come una sorta di campo al confine di ciò che può essere rappresentato o rappresentabile, e che si caratterizza per la sua eterogeneità, come una sorta di primo mitico estraneo. L’etica psicoanalitica riguarda quindi essenzialmente quel che Lacan fa emergere come la Cosa, prima matrice della nozione di godimento. Che cos’è però l’etica dal punto di vista della tradizione filosofica? È la disciplina che studia, che riflette su quello che deve essere il nostro comportamento, che prescrive cosa dobbiamo fare per condurre una buona vita. Consiste quindi in un’ascesi, o in insieme di esercizi, diversi secondo gli orientamenti di pensiero, o in una serie di regole da seguire perché la nostra vita si accordi al Bene. Nel Seminario sull’etica invece Lacan fa una vera e propria demolizione del concetto di Bene. Fa una critica, che si sviluppa maggiormente poi nel Seminario sulla traslazione, che stiamo lavorando quest’anno, dove definisce il Bene in Platone come una Schwärmerei, una fantasticheria, una fantasia eccessiva. Mettendo al centro della nozione di etica il das Ding, Lacan la mette quindi al posto del bene di cui fa la critica, e se consideriamo l’insieme delle prime lezioni, vediamo che il suo discorso si muove nel terreno di una certa indeterminazione tra il bene e il male, perché sollevando il velo bene quello che appare è il problema del male, che tutta la teodicea cristiana, da Agostino a Hans Jonas, ha cercato di cancellare. In una lezione, a un certo punto dice: “C’è il bene, c’è il male e c’è la Cosa, c’è das Ding”. Con la Cosa si entra quindi in una sorta di campo di indeterminazione rispetto ai valori consolidati tradizionali dell’etica che si regolano in base al bene e al male. In questa prospettiva ci sono predecessori illustri: Nietzsche per esempio, che ha scritto un libro intitolato Al di là del bene e del male. La riflessione di Lacan, nel Seminario sull’etica, si situa un po’ su questa stessa lunghezza d’onda. Venendo al punto dello statuto etico e non ontico dell’inconscio, vediamo che tutta la problematica dell’etica gira intorno alla costruzione della nozione di das Ding, della Cosa, cioè quel che è separato, estraneo, distante, inaccessibile attraverso le rappresentazioni, il che vuol dire, per Lacan, inaccessibile attraverso i significanti. Sappiamo che per Lacan l’inconscio è strutturato come un linguaggio, che è fatto di significanti. Cosa vuol dire allora che il campo dell’etica riguarda das Ding? Quando Lacan dice che lo statuto dell’inconscio non è ontico, è come se dicesse che l’inconscio non ha un’esistenza concreta, perché ciò che è ontico riguarda l’ente, le cose che esistono, che possiamo avere sotto gli occhi. In un certo senso Lacan, affermando che l’inconscio non ha uno statuto ontico, dice effettivamente questo, ma cosa significa? Anche se può sembrare un problema piuttosto astratto, dobbiamo considerare che ha importanti conseguenze cliniche. Lacan, dicendo che l’inconscio non è qualcosa di concretamente esistente, intende dire che non è qualcosa che esiste già: l’inconscio è piuttosto qualcosa che si produce, che si genera nella dialettica intersoggettiva o, semplicemente nella dialettica analitica, dove non parliamo di intersoggettività. L’inconscio è nella dialettica discorsiva. Dove lo troviamo? Attribuire uno statuto etico all’inconscio equivale a dire che l’inconscio non esiste preliminarmente, ma dipende da una decisione. È un aspetto che possiamo cogliere molto chiaramente se consideriamo la clinica. Pensiamo a tutti i fenomeni che si producono nella clinica: sogni, lapsus, formazioni dell’inconscio, tutto il campo dell’interpretabile aperto da Freud. A volte, non so se vi è mai capitato, viene un paziente e dice: “In questi giorni ho fatto cinque sogni, ora glieli racconto” e infila un rosario di sogni che in pratica non è lavorabile. Oppure prendiamo i lapsus: in linea di principio ogni lapsus è interpretabile, ogni lapsus, se seguiamo il dettato freudiano, ha una determinante inconscia, e ogni volta che un paziente fa un lapsus potremmo, a rigor di termini, proporre un’interpretazione. Ovviamente non lo facciamo, altrimenti non imprimeremmo nessuna direzione alla cura, perderemmo tempo interpretare i sogni accumulati, o i lapsus a ripetizione che chiunque fa parlando. Questo cosa implica? Che una deviazione dalla norma discorsiva diventa un lapsus quando, come analisti, decidiamo che quella deviazione è importante, che mette in gioco qualcosa, che ha a che vedere con la Cosa. Se invece, come analista, io non decido in questo senso, la deviazione dal codice, dalla norma comunicativa è semplicemente un errore, e non ha nessuna portata inconscia, perché io non mi pongo come interlocutore di quel lapsus prendendolo come lapsus. Se non ricevo quella che potrebbe essere un’intenzione inconscia prendendola come tale, allora, semplicemente, non è inconscia. Il momento giusto Sul piano clinico dobbiamo trarre le debite conseguenze del fatto che Lacan definisce l’inconscio come etico. Si tratta infatti di una questione fondamentale: l’inconscio non è un ente. Nella descrizione tradizionale e nella vulgata si poteva immaginare l’inconscio come un sacco da dove tirare fuori i ricordi, le rappresentazioni, i vissuti spariti dall’orizzonte della coscienza, ma dire che l’inconscio non è ontico significa esattamente il contrario, significa dire che non è il sacco delle cose che non appaiono alla coscienza. Potremmo altrimenti immaginare di andare a ripescarle in ogni momento, e che se non le ripeschiamo ora le ripescheremo un’altra volta. In realtà, invece, se un’interpretazione non è colta nel momento opportuno, nel kairos, se non si verifica l’incontro, non è il caso di insistere, perché insistere produce soltanto resistenza. Quando Lacan sostiene che la sola resistenza è la resistenza dell’analista, significa che troviamo resistenza facendo pressione quando non è il momento giusto, quando il paziente non è pronto a ricevere l’interpretazione. Siamo noi che facciamo sorgere la resistenza, generando una cristallizzazione della non comprensione, che diventa poi opposizione. C’è un altro aspetto, accanto a quello clinico. In un seminario come l’XI, traversato da preoccupazioni epistemologiche, in dialogo con il discorso scientifico, dicendo che l’inconscio non è un ente, non è un oggetto, Lacan suggerisce che non è qualcosa che si possa trattare con il metodo scientifico. Per noi oggi è abbastanza acquisito, ma non è sempre stato così, e nella psicanalisi anglosassone c’è ancora chi considera che la psicoanalisi costituisca un approccio scientifico all’inconscio. Mettendo in gioco il piano etico Lacan dice chiaramente che le cose stanno diversamente. Cosa vuol dire questo? Vuol dire che se l’inconscio non è un oggetto scientifico, non lo si può trattare con la modalità del calcolo. Se non è qualcosa che c’è già, non può neanche essere calcolato. La forza motrice dell’esperienza analitica è il contrario di quello che c’è già, è il nuovo, quel che non ha ancora nome, quel che nella nota che vi ho trasmesso ho chiamato il campo delle sorprese del reale. Novità e sorpresa Soltanto se non consideriamo l’inconscio come calcolabile, come attingibile attraverso calcolo, –foss’anche il calcolo dell’interpretazione – soltanto in questa misura consentiamo che entri in gioco nell’esperienza un reale non già contrassegnato, inatteso, o che non arriva dov’è atteso. Noi trattiamo e muoviamo la realtà psichica attraverso il fenomeno della sorpresa, fenomeno conosciuto, – ne aveva parlato già Theodor Reik. Lacan ha dato grande importanza al fenomeno della sorpresa, la sorpresa in cui è l’analista a essere sorpreso. Il titolo originale del libro di Reik era infatti: Der Überräschte psychologue, lo psicologo sorpreso. È chiaro che, per altro verso, si tratta di prendere di sorpresa il paziente con cose che non si aspettava, che non aveva previsto, ma è interessante considerare come l’analista stesso in fondo sia preso di sorpresa dall’inconscio, e debba essere pronto a cogliere il momento del kairos. Vediamo quindi sorgere, nella definizione dell’inconscio che dà Lacan, una contrapposizione tra il calcolabile, il mondo del calcolabile, ciò su cui si può operare attraverso il metodo scientifico, e ciò che calcolabile non è, ed è appunto il campo delle sorprese del reale. Il reale è trattabile solo attraverso la sorpresa. È un po’ come andare a caccia: la selvaggina va presa di sorpresa. Ginzburg diceva che il primo modello della narrazione proviene dalla caccia, dall’uomo che torna dalla battuta e comincia a raccontare la sua esperienza con la preda, l’appostamento, l’inseguimento, la cattura. Una donna che fa girar la testa ai geni Vorrei prendere un esempio semplice di come il nuovo funzioni attivamente nell’esperienza dell’inconscio, e vorrei parlarvi di come ha operato nell’incontro di Freud con Mahler, peraltro piuttosto noto, anche se non se ne raccontano mai i dettagli. Mahler è il musicista che alle soglie della modernità schömberghiana, il tema che c’interessa per il convegno di Catania per l’appunto: Modernità della psicoanalisi. Sapete com’è andata la storia: Mahler aveva avuto dei problemi, e aveva contattato Freud per sottoporglieli. Che problemi aveva avuto? Mahler aveva una moglie che si chiamava Alma Schindler, una donna molto vivace, che aveva avuto sedotto metà dei geni presenti nella Vienna d’inzio secolo. Era stata amante di Gustave Klimt, era stata amante di Arnold Schönberg, era stata amante di Alban Berg, insomma era una donna a cui piacevano gli artisti di spicco. Ci sono donne così, e siccome nessun genio è mai il genio totale e definitivo, Alma ha avuto bisogno di consumarne molti. Dopo aver alimentato la fiamma erotica di questa straordinari creatori, incontra Mahler, che aveva vent’anni più di lei. Per conquistarla Mahler deve vincere una sorta di braccio di ferro con Gustave Klimt, che ancora avanzava pretese su di lei, e la sposa. A quel punto Mahler ha quarantadue o quarantatre anni, Alma ne ha ventidue. A partire dal momento in cui la sposa – è un fatto abbastanza tipico quando tra un uomo e una donna c’è una differenza d’età così importante – Mahler non vuole più altro che chiuderla in casa, è ossessionato all’idea di farla sua in modo esclusivo, e vuole farne la madre dei suoi figli. Per un po’ le cose funzionano ma, ben presto, la donna che aveva infiammato i sensi a mezzo mondo letterario e artistico di Vienna si sente stretta nella parte di donna di casa. Le capita così di imbattersi in un altro genio – bisogna dire che in quegli anni a Vienna non mancavano. Alma incontra Walter Gropius, fondatore del Bauhaus, e nasce un amore folgorante. Non occorre dire che Mahler ci resta molto male. In preda a incubi che gli impediscono di dormire va da Freud e gli racconta la sua ossessione per Alma. Solo che, parlando di Alma, invece di dire Alma dice Maria. Freud gli chiede chi sia mai questa Maria. “È mia madre!” risponde Mahler. Freud allora ha gioco facile. Gli spiega la faccenda di Edipo, e sembra che Mahler rimanga folgorato dalla rivelazione. L’incontro tra Freud e Mahler si riduce a una passeggiata nel Prater, il parco di Vienna, durata quattro ore, dopo di che qualcosa deve essersi mosso nell’inconscio di Mahler. Rinnovare l’interpretazione È chiaro che questo tipo di interpretazioni poteva funzionare allora, agli inizi del secolo, quando nessuno sapeva cosa fosse l’Edipo. Dicendo a qualcuno nella situazione di Mahler: “Dietro sua moglie lei in realtà desidera sua madre”, si provocano allora non solo dei movimenti inconsci, ma delle scosse telluriche. Adesso ovviamente le cose non funzionano più così, e il nuovo non passa certo più per i significanti edipici. Questo non vuol dire che per noi l’Edipo sia disattivato. Qualche anno fa, è vero, abbiamo avuto delle giornate di lavoro con il titolo Al di là dell’Edipo e, in fondo, l’Edipo è un po’ come la teoria della relatività ristretta, e ora abbiamo un campo più ampio. Nell’esperienza con i nevrotici tuttavia incontriamo ancora l’Edipo, solo che non lo facciamo più passare per queste forme di spiegazione ormai trite e ritrite, che si trovano su tutti i giornali di grande divulgazione. Lo facciamo passare per dei binari molto particolari, che toccano la singolarità del soggetto, che non fanno appello alla teoria. Il grande rinnovamento di Lacan rispetto all’interpretazione è consistito nel determinare la priorità del significante sul significato, la priorità della sintassi sulla semantica. Non è soltanto il fatto che l’inconscio è strutturato come linguaggio, perché è necessario vedere nel concreto cosa implicano le formule di Lacan. L’inconscio è strutturato come un linguaggio, dove noi consideriamo che ci sia una priorità della sintassi sulla semantica, vuol dire che non possiamo più fare un’interpretazione che sia semplicemente una spiegazione. L’interpretazione non può limitarsi a raccontare il fantasma che sta dietro a una determinata manifestazione dell’inconscio, non può più soltanto rivelare cosa c’è dietro lo scenario. Non possiamo più operare così perché le interpretazioni passano per delle sfumature, per dei dettagli, e il solo modo di dare incisività all’interpretazione è badare alla forma, dare priorità alla forma rispetto al contenuto. Per questo Miller ha potuto fare un seminario intitolato: Uno sforzo di poesia. È vero infatti che nel nostro lavoro c’è qualcosa che costeggia l’arte. Operiamo in un campo fatto di contingenze, che richiede inventiva, e l’interpretazione è piuttosto un’arte che non una tecnica, e deve trovare forme specifiche, finezze, perché il diavolo è sempre nel dettaglio, come dicono gli inglesi. Naturalmente, perché si possano verificare momenti d’eccezione, è necessaria una routine. Nel testo di Miller che avevo proposto come riferimento per trattare l’argomento del “nuovo”, questo aspetto è ben delineato. La pratica analitica richiede regolarità negli incontri, nella frequenza e nella modalità. Si costituisce così il quadro di una certa ripetizione, rispetto alla quale l’affioramento del nuovo si presenta come violazione del quadro stabilito, come trasgressione. Questo ci riporta ancora al Seminario sull’etica, perché è qui che Lacan mostra come la Cosa non possa essere raggiunta dalle rappresentazioni, e come vi si possa accedere soltanto attraverso la trasgressione, forzando le vie della rappresentazione. Il quadro ordinario, ripetitivo che creiamo nell’esercizio della pratica analitica, è fatto per dar luogo a queste forme di trasgressione di violazione del codice, un po’ come nel motto di spirito. L’esempio princeps del neologismo che produce un elemento fuori codice è il famoso “familionario”, che ormai per noi non è più un neologismo, è una parola entrata nel nostro codice, nel nostro lessico. Nel momento però in cui un termine del genere si produce come battuta, mette in gioco un elemento fuori codice, un elemento nuovo. Anche qui vedete come funzionano le cose quando è in gioco la soggettività. Una battuta infatti non la potete ripetere due volte, non fa più ridere, perché diverta occorre l’effetto sorpresa, occorre che chi racconta le battute le anche sappia raccontare. Il riso non sgorga dalla forza in sé della storiella, dalla sua logica intrinseca. Sappiamo bene che se una storiella bellissima, spassosissima, viene riferita da qualcuno che non la sa raccontare, non fa ridere. Oltre alla storiella divertente occorre infatti l’arte di creare attesa, sospensione, sorpresa. Tornando all’interpretazione, come dicevo, non possiamo più passare per i significanti edipici obsoleti, e non perché l’Edipo non funziona più, ma perché sul piano sociale non esprime più un desiderio inconscio. Sul piano sociale Edipo è ormai storia nota, anche se i desideri edipici hanno ancora presa nel funzionamento individuale, soggettivo. Nel momento però in cui non sono più spendibili socialmente, non sono più trainanti neanche nella cura. Ripensare i criteri della clinica L’interrogativo che dobbiamo porci, credo, è che cosa costituisce il “nuovo” per noi oggi? Che cos’è il nuovo? Qual è la forza trainante per l’esperienza analitica nella modernità? Con questa domanda effettivamente tocchiamo il tema a cui ci invita il Convegno di Catania. Noi abbiamo studiato l’al di là dell’Edipo, abbiamo riformulato il linguaggio freudiano attraverso una rilettura di Lacan e dell’esperienza psicanalitica nel suo insieme, siamo usciti dagli schemi, dai quadri classici in cui la psicoanalisi è stata vista fino agli anni Novanta, quando il ritornello era che la psicoanalisi è una grande teoria ma sul piano clinico non funziona. Ovvio che sembrasse non funzionare quando si cercava misurarne gli effetti con i criteri di una scienza. Oggi siamo usciti da questi schemi, e la Scuola di Lacan ha dato un grande slancio in direzione di un ripensamento sostanziale dei criteri della clinica. La scuola di Lacan ha sostenuto il desiderio nei confronti della psicoanalisi negli anni Settanta e fino a metà degli anni Ottanta, mettendo alla prova il patrimonio storico di cui siamo eredi: è stata una grande spinta di rinnovamento. Si fa presto però a ricadere nei pregiudizi, nel risaputo. Subito ci si impossessa della teoria attraverso gli slogan, e tutti credono di sapere già cosa facciamo. Quel che si dice di noi allora è che facciamo sedute brevi, con un taglio fortemente intellettualizzato, con un linguaggio oscuro. Le abbiamo sentite mille volte queste cose, anche se poi in realtà noi facciamo cose completamente diverse. Ma non importa, i pregiudizi si ricostruiscono rapidamente. L’interfaccia tra la clinica e il sociale Dico questo per suggerirvi che dobbiamo esplorare anche l’interfaccia con il sociale. Proprio perché la nostra clinica non si occupa di oggetti maneggiabili attraverso delle tecniche, ma mette in gioco la soggettività, dobbiamo sapere che la soggettività è permeabile, plasmabile, condizionabile dall’opinione. E certamente dobbiamo saperlo particolarmente bene noi in Italia, vale a dire in un paese dove i media sono quello che sono. Non possiamo fare l’operazione platonica che separa l’opinione dalla verità. Dobbiamo considerare la presa che l’opinione ha nel plasmare la soggettività e farci i conti. Uno dei quesiti che ci può guidare per la tematica di questo Congresso sulla modernità della psicoanalisi riguarda il tipo di narrazione con cui la psicoanalisi si interfaccia con il discorso sociale. Negli anni Sessanta gli psicoanalisti avevano un rapporto con i mezzi di comunicazione, erano presenti nel discorso sociale, e avevano un loro modo di raccontare la psicoanalisi. Ero bambino allora, ma ricordo ancora i loro nomi: c’era per esempio un certo dottor Miotto, che mia madre ascoltava sempre alla radio. Ho saputo sin da bambino cos’era la psicoanalisi perché mia madre ascoltava il dottor Miotto, che probabilmente scriveva anche su qualche giornale femminile. All’epoca un giornale femminile, non saprei più dirvi quale, teneva una rubrica dal suggestivo titolo: “Il sofà dello psicoanalista”. Occorre in effetti coltivare una sorta di protrettica della psicoanalisi. Non possiamo trascurare quest’aspetto, perché non facciamo una scienza da laboratorio, non ci chiudiamo in una cantina a fare degli esperimenti per poi saltar fuori a raccontare alla stampa le nostre scoperte. La nostra attività clinica morde direttamente sul sociale e le opinioni che circolano nel sociale fanno parte del materiale o delle resistenze con cui ci troviamo a lavorare. È quindi necessario per noi considerare il tipo di narrazione della psicoanalisi che facciamo circolare. Che cosa veramente è la psicoanalisi? Non è un problema che nasce oggi: se ci pensate negli anni Venti il dibattito degli psicanalisti si confrontava con l’ipnosi. Il grande obiettivo era distinguersi dagli ipnotisti, e asserire che la traslazione è diversa dalla suggestione. Oggi come oggi siamo forse meno sensibili a questo problema, forse siamo anche disponibili ad ammettere che nella traslazione c’è una componente di suggestione, e questo non ci impressiona particolarmente, ma allora era importante, perché occorreva definire un’identità della psicoanalisi diversa da quella dell’ipnosi. D’altra parte Freud aveva cominciato con l’ipnosi, e cominciando a sviluppare i concetti della psicoanalisi sentiva i residui della sua esperienza con l’ipnosi, ed è stato necessario definire i confini. L’identità della psicoanalisi nel suo primo passo si è precisata differenziandosi dall’ipnosi. C’è una fase successiva, negli anni Cinquanta, in cui la psicoanalisi sta avendo un grande successo, le si rivolgono molte domande, e al tempo stesso sono presenti sulla scena figure geniali, come Franz Alexander, che apre le porte al grande pubblico dei pazienti. Deve curarli in fretta, perché nel suo centro a Chicago ha tantissime richieste, e quindi inventa una sorta di psicoanalisi abbreviata, di psicoterapia breve, e nel circolo d’elite degli psicoanalisti questo non piace. Inizia quindi una fase in cui viene sentita la necessità di differenziarsi dalle nascenti psicoterapie che cercavano di proporre degli adattamenti della psicoanalisi, che cominciavano a mescolare un po’ di piombo con l’oro puro della psicoanalisi. Nasce quindi il grande dibattito sugli standard. Gli standard non sono connaturati all’invenzione freudiana. La determinazione degli standard del setting, definiti in base al numero settimanale di sedute, alla loro durata, e cose simili, che oggi al nostro orecchio suonano desuete, non appartengono al pensiero freudiano e sono un frutto del dibattito successivo, necessario al tempo per dire che cosa veramente è la psicoanalisi e differenziarla delle psicoterapie che stanno cominciando a cingerla d’assedio. Il dibattito sugli standard viene dopo quello sull’ipnosi e ha le stesse finalità: definire l’identità della psicoanalisi. Questi problemi non sono qualcosa che ci siamo lasciati alle spalle. Ricorderete che il nostro convegno a Milano del 1992 aveva come titolo “L’identità freudiana della psicoanalisi”. Perché c’eravamo dati questo tema? Perché ci stavamo ancora interrogando sull’identità della psicoanalisi? Volevamo asserire l’identità freudiana della psicoanalisi perché esitavamo. Sappiamo che c’è il ritorno a Freud di Lacan, e questo è un punto di riferimento, un’apparente sicurezza, o almeno così poteva sembrarci allora. Nel 1992 non avremmo infatti mai potuto chiamare la nostra Scuola: Scuola Lacaniana di Psicoanalisi. Questo è venuto dopo. Nel 1992 pensavamo che l’identità della psicoanalisi dovesse essere freudiana e basta. Ricordo che io e qualche altro avevamo brevemente discusso con Miller sul nome da dare a qualche istituzione che stavamo creando, e lui aveva precisato che gli sembrava necessario attenersi all’aggettivo “freudiano”. Qual era il problema allora? In primo luogo era che non avevamo ancora valorizzato l’ultimo insegnamento di Lacan, che prende le distanze da Freud, e poi era anche che qualcuno aveva utilizzato l’aggettivo “lacaniano” per qualificare la propria Scuola, era l’École lacanienne. Avevamo insomma sentito la necessità allora di ribadire che la psicanalisi era freudiana o non era. Da allora sono poi successe molte cose. Ai miei occhi è chiaro che nella storia della psicoanalisi il problema di definire l’identità della psicoanalisi è funzionale per forgiare, per formare, per chiarirci una narrazione della psicoanalisi che abbia anche una funzione protrettica. È una fase che non è ancora superata, che non sarà mai superata. Oggi ci troviamo in un momento in cui tutti credono di sapere già cos’è la psicoanalisi. Credono di sapere già cos’è e quindi pensano che non interessi più, perché non ne riescono più a vedere la novità. Dal fondamento trascendente all’evidence based David Lodge – lo scrittore inglese che piace tanto a Umberto Eco, e che nei suoi romanzi sa raccontare le proprie storie sullo sfondo, sempre aggiornato, di ciò che fa tendenza – negli anni Ottanta scriveva romanzi dove la cosa intrigante in cui i personaggi si lasciavano coinvolgere era la psicanalisi, era l’inconscio. Poi man mano, negli anni Novanta ha cominciato a scrivere storie dove il terapeuta era una psicologa cognitivista. Lodge è sempre al passo con i tempi, segue le novità, e la novità negli anni Novanta era il cognitivismo. È chiaro perché: perché è accordato con la scienza, perché è in sintonia con le esigenze dell’amministrazione, e la scienza è oggi quel che fa opinione. Nei media in Occidente qualcosa è vero se lo dice la scienza. La scienza è nata separando verità e certezza, ma i mezzi di comunicazione, le grandi fucine dell’opinione le rimettono insieme, e cercano il suggello della verità nelle garanzie di certezza che la scienza può offrire. Furoreggiano quindi le neuroscienze e tutto quel che è correlato con le neuroscienze che sono la cosa che tira. Negli anni Sessanta alla radio l’esperto era il dottor Miotto, oggi su qualsiasi canale di divulgazione culturale, l’esperto che sentite interpellato è il neuroscienziato. La gente ritiene di sapere già cos’è la psicoanalisi, e anche se noi spieghiamo che è una cosa diversa da quel che si ritiene comunemente, non importa, la radio racconta un’altra storia. Se fino a un po’ di anni fa il nostro obiettivo era di costruire l’identità della psicoanalisi, perché la gente ancora ci chiedeva cos’è la psicoanalisi, adesso credo che dobbiamo fare il movimento contrario, e decostruire quel che si è cristallizzato come oceano di falsa scienza sulla psicoanalisi. In questo senso vedo due direttrici. La prima riguarda un ripensamento necessario per noi, ed è quel che abbiamo fatto nel Congresso di Commandatuba parlando di una psicoanalisi senza standard, ma non senza principi: abbiamo così messo in discussione la nostra modalità di lavoro. Ci siamo sempre detti che noi lacaniani non abbiamo il vincolo degli standard, non abbiamo il tempo fisso delle sedute, non abbiamo un numero settimanale prestabilito. Ci siamo però chiariti, a Commandatuba, i principi necessari per guidare la nostra azione. Questa ci ha dato un grande impulso verso il successivo passo della psicoanalisi applicata. Se ci fondiamo su dei principi, li possiamo portare dappertutto, in qualunque istituzione andiamo. Non siamo vincolati al setting con il sofà. Per essere lacaniani non ci serve portarci dietro la poltrona e il lettino. Avere dei principi anziché degli standard è da questo punto di vista molto più pratico, e ci dà una libertà d’intervento molto maggiore nei luoghi istituzionali che un po’ di anni fa sembravano preclusi alla psicoanalisi. L’attuale momento di riflessione, di chiarimento su quel che facciamo e su come lo facciamo, ha aperto il campo di quel che nel nostro gergo chiamiamo psicoanalisi applicata, dandole un grande impulso, una notevole spinta. L’altra direttrice sarà a tema nel Congresso di Buenos Aires l’anno prossimo, che ha questo titolo un po’ strano “L’ordine simbolico del ventunesimo secolo” con un sottotitolo per precisare che l’ordine simbolico non è più quello di una volta, tanto che dovremo misurarne le conseguenze per la cura. L’argomento del Congresso ci invita dunque a pensare una narrazione che tenga conto dell’ordine simbolico nel ventunesimo secolo, quello in cui ci troviamo. Per alcuni aspetti è un argomento di cui abbiamo già cominciato a parlare nel Congresso di Roma del 2006. L’ordine simbolico nel ventunesimo secolo non è più quello che si fonda sul Nome del Padre come trascendente, come interfaccia tra famiglia e il sociale. Per noi può essere un dato acquisito, ma considerate che una parte non irrilevante di analisti ritiene che l’indisciplina, l’ingovernabilità dei giovani, le turbative dell’ordine pubblico, tutte queste cose vadano risolte ritornando alle vecchie forme di autorità. Noi chiaramente abbiamo preso una strada diversa. È quel che ci siamo detti a Roma e va bene. Dobbiamo però ora allargare un po’ il grandangolo, dobbiamo cercare di capire cosa succede dopo il declino del Nome del Padre, e cosa prende il posto delle autorità tradizionali. Il declino del Nome del Padre d’altra parte comincia con Lutero, non è storia di ieri, comincia quando vengono prese di petto le autorità imperiale e papale dell’epoca. Questo declino, che ci lascia orfani delle forme tradizionali dell’autorità, trova poi una sua compensazione attraverso il discorso scientifico. Privati del fondamento posto in un Nome del Padre trascendente, privati di un al di là su cui porre solidamente le basi delle nostre costruzioni sociali, privati di una fonte indubitabile della verità, il pensiero si rivolge all’unica fonte in grado di fornire non verità ma certezza, cioè il discorso scientifico. Hobbes era un grande ammiratore di Galiei, e tutto il progetto politico illuminista, da Bentham a Pareto a Marx a Rawls, si rivolge al discorso scientifico come unica fonte di certezza. Se viviamo in un’epoca dominata dallo scientismo è perché la sola fonte di certezza attendibile è il discorso scientifico. Si ritiene allora che tutto debba passare per quella matrice, debba formarsi su quel modello. Salta fuori da qui allora l’idea che se qualcuno è omosessuale è perché ha qualche gene diverso, se è timido è perché c’è una molecola che lo inibisce, se è innamorato è perché è in bagno di ossitocina. Tutto deve quindi passare per le filiere del metodo scientifico, o di qualcosa che lo mima. Tutto deve passare attraverso le procedure evidence based, fondate sulla prova. La medicina è edificata su una montagna d’innumerevoli esami, non c’è più spazio per la figura del medico che con la sola autorità del suo sapere fa una diagnosi e stabilisce la cura. Una possibilità di riaprire l’inconscio Che l’ordine del ventunesimo secolo non sia quello di una volta vuol dire quindi da un lato che è caduto il riferimento a una fonte di sicurezza, di garanzia trascendente incarnata dal Nome del Padre, qualunque forma esso prenda, e dall’altro che c’è una riduzione, un appiattimento della totalità delle opinioni su una certezza che deve portare il marchio della scienza. Questo si vede anche nella psicoterapia, perché il grande successo, la novità del cognitivismo è che è formatizzato in un modo tale da essere spendibile come metodo che ha una parvenza scientifica: un certo numero di sedute – si dice – portano a un obiettivo definito, e anche chi viene da noi, chi viene a sentire un analista ormai ragiona in questi termini. Proprio questa sera ho visto una persona, un imprenditore, che mi ha detto: “Vengo da lei molto volentieri, però sono in difficoltà, perché sono abituato a ragionare in termini di obiettivi da raggiungere, e qui qual è il punto a cui devo mirare?” Il problema è che se lo sapessimo prima non faremmo neanche l’analisi. L’obiettivo, più che prestabilirlo, lo si incontra. Venti anni fa non avreste potuto sentire un discorso così, perché mi sembra che non ce ne fossero le condizioni. Non che non vivessimo in un’epoca già improntata dallo scientismo, ma gli anni Novanta hanno portato una svolta determinante in questo stesso modo di pensare. Gli anni Novanta erano stati proclamati il decennio del cervello, e per quanto le aspettative che si erano create siano andate a vuoto – e questo è riconosciuto non da solo noi, ma dalle persone che ci hanno lavorato, perché si fa il brain imaging, si utilizzano tante tecniche, ma sul piano delle prospettive terapeutiche di questa ricerca si pesta acqua – queste prospettive tuttavia tengono ancora saldamente le loro posizioni, non tanto per i risultati che hanno ottenuto sul piano dell’efficacia terapeutica, quanto piuttosto per la grandissima efficacia ottenuta sul piano dell’opinione, e questo si vede per le richieste con cui ci arrivano le persone. Non voglio mettere in questione le domande, o le nuove forme di sintomi, tutte queste cose vanno bene, parlo del modo in cui sono formatizzate le richieste. È un modo che richiede un tempo di preparazione molto maggiore perché una persona possa entrare nell’ordine di idee – quando è possibile – di una parola che lasci spazio all’inconscio. Una volta sembrava quasi automatico. Naturalmente non lo era, però sembrava così perché la gente era più predisposta ad andare in direzione di un lavoro non necessariamente commisurato a un obiettivo predefinito. Oggi c’è un tempo di lavoro per produrre questa condizione e a volte lo spessore dell’opinione è una corazza molto più difficile da penetrare di quanto possa sembrare. Parlare della modernità della psicoanalisi, come faremo a Catania, credo voglia dire anche questo: considerare le diverse condizioni per dare al soggetto la possibilità di un’apertura dell’inconscio.
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Settembre 2024
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