Conferenza tenuta a Malaga il 20 gennaio 2017 presso la sede della Escuela Lacaniana de psicoanalisis di Marco Focchi Nella parte del seminario XI su cui dobbiamo lavorare oggi, che comprende le lezioni dieci e undici, Lacan inizia ad affrontare il concetto della traslazione. Riprende infatti questo argomento dopo averne parlato quattro anni prima, quando ha interamente dedicato al tema della traslazione il seminario del ‘60 -’61. Direi che in questa parte del seminario XI Lacan cerca di fare il punto rispetto all’elaborazione avanzata nella fase precedente. Già nel seminario del’60-‘61 infatti aveva individuato due versanti della traslazione, quello incentrato sul supposto sapere, e quello relativo alla presenza, che riprende e sviluppa in queste lezioni del seminario XI. Nell’elaborazione precedente infatti, nella lezione del 3 maggio 1961 del seminario sulla traslazione, Lacan mette già l’accento su quello che indica come il paradosso della funzione dell’analista. Tale funzione si riassume per un verso nell’occupare il posto in cui il soggetto deve poter ritrovare il significante mancante, e il paradosso, o l’antinomia, sta nel fatto che “nel posto stesso in cui siamo supposti sapere, siamo chiamati a non essere niente di più e niente altro che la presenza reale, proprio perché è inconscia.” Come punto d’appoggio del soggetto supposto sapere lo psicoanalista si fa supporto in ultima istanza di quel che Lacan sigla s(A), il significato dell’Altro, e quel che porta l’analizzante nelle sue sedute, una dopo l’altra, è il sogno di accedere al sapere di cui lo psicoanalista è considerato il depositario. C’è però un secondo versante che è quello del desiderio dell’analista, che non rispecchia il significato dell’Altro, ma piuttosto il volto inquietante dell’Altro, che si presenta con il: “Che vuoi?” e che può rivelarsi per esempio nel fenomeno della traslazione negativa, nella forma: “Che vuole da me lo psicoanalista?” Lo psicoanalista in questo caso non appare in relazione al sapere, ma in relazione all’oggetto, e prende corpo qui la presenza dello psicoanalista come qualcosa che non può essere riassorbito dal sapere. Con i termini che non fanno ancora parte del pensiero di Lacan in questi anni, potremmo dire che lo psicoanalista come presenza incarna la parte non simbolizzata del godimento.
Questo aspetto della concettualizzazione di Lacan, che formula la traslazione come desiderio dell’analista, è una risposta alla prospettiva teorica nata con P. Heimann negli anni Sessanta, che faceva della controtraslazione uno strumento dell’interpretazione nella cura. È al tempo stesso anche una risposta a Serge Lebovici che definiva la psicoanalisi come una relazione duale, dove lo psicoanalista si caratterizzerebbe per la sua presenza qui ed ora, non riducendosi a incarnare i personaggi della scena immaginaria dell’inconscio. In queste due lezioni del seminario però Lacan formula il secondo aspetto della traslazione attraverso l’espressione “presenza dello psicoanalista”, che Miller valorizza al punto da farne il titolo stesso dell’intera lezione. Questa definizione è correlata a quella dell’inconscio strutturato come un linguaggio, a partire dalla quale si rinnova il modo di lavorare nel campo freudiano. Lacan dice qui però che la sussistenza del campo freudiano è consolidata dal fatto di essere contrassegnato dalla perdita, e la presenza dello psicoanalista risulta irriducibile proprio per questo, perché è testimone di questa perdita. Ora questa perdita, secondo Lacan, è una perdita secca, senza recupero, senza compensazione in un qualsivoglia guadagno. Questo può risultare piuttosto sorprendente, perché noi siamo abituati, nei nostri discorsi, a parlare del resto come resto fecondo. È un concetto che troviamo già in Freud, per esempio in “Analisi terminabile e interminabile”, dove si parla di Resterscheinungen, manifestazioni residue. Sono fenomeni che appaiono nel comportamento del paziente e segnalano l’incompletezza con cui si svolgono i processi per dominare intellettualmente il mondo mettendo ordine nel caos con principi, regole, leggi. Queste manifestazioni mostrano peraltro come le qualità di una persona si basino su compensazioni e sovracompensazioni, che non sono riuscite a imporsi su tutta la linea di condotta. Per esempio, nella generosità si può rivelare un fondo di taccagneria, nella filantropia possiamo trovare una traccia di sadismo, nell’ascetismo possiamo incontrare un’avidità spirituale erede di quella orale, e così via. La manifestazione residua appare sempre in funzione di un rilancio, di una rielaborazione, di un dinamismo della struttura, e l’oggetto “a” di cui parla Lacan possiede questo carattere di resto fecondo. È interessante allora vedere come della presenza dell’analista faccia parte come di un caput mortuum, una scoria inclusa nel concetto di inconscio. Non si tratta quindi, almeno in queste lezioni del seminario XI, di un resto fecondo, ma di una scoria. Questa differenza risponde a un vero e proprio concetto, che Lacan formula alla fine della lezione nella sua risposta a Pierre Kaufmann, quando definisce la scoria precisamente come un resto estinto. La nozione di scoria è interessante in questa fase e particolarmente significativa perché ho l’impressione che segni un punto di passaggio tra due diverse concezioni della fine dell’analisi. La prima è quella del Lacan strutturalista, mantenuta fino agli inizi degli anni Sessanta, e consiste nel dire che l’analisi deve portare il soggetto a riconoscere la mancanza in quanto tale. Si tratta di andare dal desiderio di un oggetto che manca in quanto si sottrae, alla mancanza in quanto tale. È quel che, espresso con il vocabolario freudiano, sarebbe il riconoscimento della castrazione. L’analisi ha qui un terminale d’arrivo dove si verifica una sorta di estinzione, dove c’è un punto senza rilancio. Nella concezione appartenente all’ultimo insegnamento di Lacan, quando parla di identificazione con il sintomo, il sintomo è ripreso invece proprio come resto fecondo, come punto da cui ripartire, come materiale per la rielaborazione e quindi niente affatto come estinto. Nell’analisi condotta a partire dall’inconscio come campo strutturato del simbolico, il punto d’arresto è una mancanza che non ha riferimento a un oggetto, è una pura mancanza, una mancanza che va al suo posto, come nel gioco del quindici, è una mancanza riferita a un ordine. Nell’analisi condotta a partire dal sintomo c’è invece un’idea di trasformazione, e in un certo senso di trasformazione continua, perché la guarigione non è uno stato raggiunto, ma un processo. Nel seminario XI la nozione di scoria segna un punto di soglia tra queste due concezioni. C’è l’idea di un arresto, perché la scoria è un resto estinto, da cui non c’è da aspettarsi rilancio ma, al tempo stesso, se c’è una scoria questo significa che le cose non vanno completamente a posto, non c’è, come nella precedente concezione, una mancanza che si mette in ordine andando al posto giusto. Perché? Lacan lo segnala in un passaggio significativo (p.125) “Se è vero che la psicoanalisi riposa su un conflitto fondamentale, su un dramma iniziale e radicale riguardo a tutto ciò che si può mettere sotto la voce dello psichico, l’innovazione a cui ho fatto allusione, e che si chiama: richiamo del campo e della funzione della parola e del linguaggio nell’esperienza psicoanalitica, non pretende di essere una posizione esaustiva rispetto all’inconscio, giacché essa stessa interviene nel conflitto.” Cosa dice Lacan in queste poche righe? Dice che l’inconscio strutturato come un linguaggio non è tutto l’inconscio. È la prima volta che lo afferma, e lo dice nel seminario in cui comincia, nei capitoli precedenti, a dare una definizione temporale di inconscio come battito di apertura e di chiusura. In altri termini, quel che dobbiamo capire in questo passaggio di Lacan è che non usciamo dal conflitto nevrotico semplicemente con l’interpretazione dell’inconscio, perché il conflitto non è solo tra io e inconscio, ma è interno all’inconscio stesso. Credo possiamo chiaramente leggere qui un riferimento ai paradossi della logica, alle antinomie insolubili, come l’antinomia del mentitore o il paradosso di Russell. La riduzione logica dell’inconscio porta quindi con sé le autonomie irriducibili della logica simbolica, la cui natura è, in ultima istanza, temporale. È ora interessante considerare come nel Seminario XI Lacan pone il problema della traslazione, e come lo pone in relazione agli altri concetti fondamentali che tratta nel seminario, in particolare l’inconscio e la ripetizione. È necessario farlo per muoversi tra le dimensioni contrastanti in cui Lacan definisce la traslazione in queste lezioni. Nella lezione dieci, Lacan ne parla in relazione alla chiusura dell’inconscio. Nella lezione undici la presenta invece come la messa in atto della realtà dell’inconscio, il che apparentemente è il contrario. Dobbiamo quindi esplorare queste due dimensioni per capire quale orizzonte sta aprendo Lacan con queste affermazioni. Per quanto riguarda la traslazione come chiusura è un tema che ha già una lunga storia nel pensiero psicoanalitico. Freud parlava del traslazione come di una resistenza, come di ciò che interrompe la comunicazione dell’inconscio. Se un desiderio, aggressivo o erotizzato, si fissa sull’analista, è più difficile esprimerlo. Lacan riprende questo aspetto nei suoi primi seminari, mostrandolo nello schema L. Spiega come il soggetto articoli la verità di quel che dice passando attraverso il luogo dell’Altro. Nello schema L la linea che congiunge S con A è quella del simbolico, lungo la quale è possibile sviluppare l’articolazione della verità. Questa linea è però traversata e tagliata dalla linea va da a verso a1 della relazione immaginaria. Questa linea è una barriera, quella dell’immaginario, che mette in relazione l’immagine dell’io con gli oggetti libidici. Su questa linea si colloca per Lacan la traslazione come fenomeno immaginario, sovrapponendosi alla dimensione illusoria dell’amore tra l’io e gli oggetti. La relazione tra l’io e gli oggetti è situata da Lacan come ostacolo rispetto alla realizzazione simbolica. L’analista, se non si posiziona bene nelle coordinate simboliche, e scivola verso l’asse immaginario, viene dunque a funzionare come agente della resistenza, perché si colloca sull’asse immaginario a ̶ a1. Questo è il modo, molto chiaro, semplice, fruibile, in cui Lacan legge la traslazione come resistenza nel Seminario II. Ed è lo stesso tema che riprende nel Seminario XI, ma evidentemente con significative differenze. Nel Seminario II, infatti, l’ostacolo è posto nel registro immaginario, e l’idea centrale è che il simbolico funzionerebbe regolarmente procedendo sul suo binario se non ci fosse l’interferenza del registro immaginario. Abbiamo ora visto che nel Seminario XI Lacan parla dei conflitti interni all’inconscio stesso, le antinomie insolubili della logica quando il linguaggio, il simbolico, è preso nel suo formalismo. L’ostacolo in questo caso non viene dunque dall’esterno, da un’interferenza, dall’interposizione dell’immaginario, ma è inerente all’inconscio stesso. La scoria è allora questo punto di intoppo, e l’ambiguità della scoria è legata al fatto che, se da un certo punto di vista appartiene all’inconscio, da un altro punto di vista è assolutamente eterogenea all’inconscio, è un’opacità non interpretabile dell’inconscio. Lacan si riferisce all’opacità del trauma (p.127) che potrebbe essere considerata come responsabile del limite dell’interpretazione. Qui, nel passaggio di potere dal soggetto all’Altro, luogo della parola, potremmo vedere il momento di nascita della traslazione. In effetti avviene così, ma non possiamo limitarci a questo, dice Lacan, perché in realtà l’Altro è presente già prima di questo passaggio di consegne, ed è il momento in cui si verifica la chiusura a essere la causa della traslazione. L’Altro è presente in modo latente prima della rivelazione soggettiva, come interpretazione, e l’interpretazione della psicoanalisi semplicemente si sovrappone a ciò che l’inconscio ha già provveduto a interpretare. Questo tema è stato particolarmente sviluppato da Jacques-Alain Miller a partire dalle giornate d’autunno dell’ECF del ’95 con la conferenza “L'interprétation à l’envers", ripresa poi nella conferenza “Adiós al significante”. L’inconscio interpreta, e quando si blocca provoca la traslazione, che è come una chiamata all’interpretazione, ma che in realtà anziché essere un passaggio di poteri all’inconscio, è la sua chiusura. Ed è a fine lezione che Lacan, per spiegare la causa della chiusura dell’inconscio, tira fuori l’oggetto a, quasi senza che nulla preparasse a vederselo capitare lì. In fondo, leggendo il seminario, prima dobbiamo capire che la chiusura viene in modo immanente al linguaggio, alle sue antinomie logiche, e poi, d’improvviso, vediamo capitarci lì l’oggetto a che non appartiene al linguaggio. Il fatto è che, in questa fase, l’oggetto a è invece un aspetto del linguaggio, una parvenza. Lacan riflette a lungo sull’oggetto a e sul fatto se sia interno o eterogeneo all’inconscio, prima di decidere, nell’ultimo insegnamento, che è una parvenza. Ma qui è un aspetto del linguaggio nei suoi punti di impasse. È, come si esprime Miller in “Adiós al significante”, “Un tentativo di scrivere il godimento nel sistema di produzione del significato”. È a questo proposito che interviene lo schema della nassa, per spiegare come l’oggetto a funzioni come otturatore dell’inconscio. Lo schema della nassa rovescia quello tradizionale del sacco perché considera il soggetto all’interno – sovrapposto allo schema ottico degli specchi – mentre l’Altro invece sta fuori. L’otturatore svolge quindi la stessa funzione dello schermo immaginario nello schema L: si interpone tra S e A ma, come abbiamo visto, non è la stessa cosa. Qui non abbiamo un funzionamento automatico dell’inconscio. O meglio, l’abbiamo finché non si inceppa producendo la traslazione. S’inceppa l’automatismo della ripetizione. Appare qui un tema che è stato particolarmente sottolineato da Miller e ampiamente ripreso nel Campo freudiano: quello della differenza tra traslazione e ripetizione. Se consideriamo la concezione della ripetizione che sviluppa poi Lacan, capiamo anche perché non possiamo semplicemente sovrapporre traslazione e ripetizione. Lacan non considera la ripetizione semplicemente come il riproporsi di una condotta stereotipa ̶ che sarebbe in fondo la ripetizione di qualcosa di identico, di un elemento identico a se stesso ̶ ma la vede come ripetizione che manca sempre la presa su qualcosa che si sottrae. Questo significa che la ripetizione si articola nella differenza, non nell’identità. Sappiamo come in “Ricordare, ripetere, rielaborare” Freud articola il fenomeno della ripetizione: il paziente inizia ad associare sotto l’effetto di una traslazione positiva che lo spinge a far emergere i ricordi, come farebbe in una seduta di ipnosi. Non appena però la traslazione si fa negativa o eccessivamente accentuata, immediatamente i ricordi si bloccano e lasciano il posto alla messa in atto. Il paziente, invece di ricordare, agisce nello stesso modo in cui faceva a suo tempo, per difendersi, mettendo la ripetizione al servizio della resistenza. Da cosa si difende? Per un verso si difende dalla mancanza, dalla castrazione perché è noto che la via per ottenere l’appagamento del desiderio passa per la castrazione, ovvero per un prezzo da pagare. Ed è questo il motivo per cui al movimento della ripetizione sfugge sempre ciò su cui tenta di serrare la presa: l’oggetto si sottrae perché il soggetto non può pagare il prezzo implicato nel fatto di coglierlo, prezzo che è il vuoto della mancanza o l’orrore dell’eccesso. La traslazione come messa in atto della realtà dell’inconscio è il contrario della traslazione come resistenza e come chiusura. In entrambe le lezioni Lacan esplora la contraddizione che segnala, consistente nel fatto che la traslazione è per un verso ostacolo alla rimemorazione, per altro verso è ciò che bisogna aspettare per poter interpretare. In queste due lezioni Lacan tenta di dipanare questa contraddizione collegando i due versanti della traslazione agli altri due concetti fondamentali dell’inconscio e della ripetizione. Per un verso l’inconscio pensato non più solo in relazione alla struttura del linguaggio, ma considerato in relazione al tempo, come pulsazione di apertura e di chiusura, come ciò che si sottrae appena apertosi, si correla alla traslazione come resistenza ̶ mentre per un altro verso, proprio perché blocca l’automatismo dell’inconscio, la traslazione appare connessa, su un altro piano, con la ripetizione come messa in atto, una messa in atto che non avviene sulla scena della vita ma su quella della relazione psicoanalitica, e che proprio per questo si configura come messa in atto dell’inconscio. La messa in atto nel testo di Freud è espressa dal termine tedesco agieren ̶ che traduciamo con acting out. Lacan valorizza in qualche suo commento il significato teatrale che hal termine inglese: acting out è la messa in scena. Non dobbiamo prenderlo però nel senso della rappresentazione. L’acting out non è la copia di un originale che vi si rispecchia. L’accento va messo piuttosto sull’idea di attivazione. Quel che nel ricordo è solo rappresentato, evocato, nell’acting out prende vita. La performance dell’attore non è di mimare un personaggio, ma di dargli vita, come aveva ben capito Stanislavskij e dopo di lui la scuola dell’Actor Studio. Rovesciando le cose Brecht proponeva la teoria dell’estraniamento, ma il problema non è immedesimazione o l’estraniazione, è l’attivazione, che avviene in entrambi i casi. La traslazione non riproduce quindi una sterotipia della condotta, ma rende presente e vivo un problema all’interno della relazione psicoanalitica, dove può essere ripreso e affrontato. Dobbiamo infatti valutare i due versanti, che Lacan considera nel Seminario XI a proposito della ripetizione: quello della tyche e quello dell’automaton. Per un verso nell’automaton abbiamo la presenza del meccanismo simbolico, della domanda che si ripete e riformula per incontrare sempre uno scacco. Per quanto però la ripetizione sia presa per il versante del simbolico, Lacan la collega al suo motore, dove troviamo la funzione dell’oggetto perduto e sempre inseguito. Lacan dice di questo che la funzione della tyche, del reale come incontro, che è essenzialmente incontro mancato, si presenta per la prima volta nella storia della psicoanalisi nelle forme del trauma. Parlando del trauma vediamo chiaramente la relazione con l’oggetto perduto. È il versante del trauma dove incontriamo la mancanza: doveva esserci qualcosa, e invece manca. È solo un lato del trauma, perché l’altro, come sappiamo, è l’eccesso. Per un verso dunque la ripetizione è mossa dalla ricerca, dall’inseguimento dell’oggetto, per l’altro evita sempre l’incontro con l’oggetto traumatico, che è il reale come sessuale. È l’insuccesso dell’incontro, l’impossibilità di realizzare il buon incontro: la tyche è infatti l’incontro mancato, l’impossibilità dell’incontro felice. Ora, se la ripetizione evita e manca sempre il proprio bersaglio, la traslazione al contrario, nella messa in atto, presentifica, e in un certo senso crea il buon incontro che la ripetizione non può mai far sorgere. Quel che la ripetizione evita, la traslazione presentifica. Questo è il principio che emerge in queste due lezioni. Quel che Lacan valorizza è la differenza tra automaton e tyche. La tyche diversamente dall’automaton, implica una decisione, e questo nell’esperienza psicoanalitica è fondamentale. I primi psicoanalisti, nell’orientamento della psicologia dell’io, credevano che una volta prodotto l’insight, automaticamente le cose per il paziente avrebbero dovuto cominciare a funzionare. Noi sappiamo che non è così, e ciò che si trasmette al paziente attraverso l’interpretazione richiede un’elaborazione, ma soprattutto richiede un’assunzione soggettiva. È quel che in altro modo Lacan dice in “Posizione dell’inconscio” quando afferma che l’inconscio si può aprire solo dall’interno. Questo significa che lo psicoanalista può anche cogliere una logica, può anche intravedere dei fantasmi, ma tutto ciò non serve a niente se questa logica e questi fantasmi non li fa sentire al paziente, se non trova i significanti, cioè la chiave, attraverso cui farli risuonare per il paziente. È uno dei motivi per cui la psicoanalisi dell’io è andata in panne con la clinica: aveva una concezione dell’interpretazione come spiegazione. Partendo da una posizione epistemiologica che collocava la psicoanalisi nell’ambito delle scienze naturali, prendeva posizione, tra Erklärung e Verstehung, per la Erklärung cioè per la spiegazione di carattere scientifico, che risulta sempre esterna al soggetto, come può esserlo la descrizione in termini medici di una malattia. La concezione dell’interpretazione come spiegazione si fonda su una precisa premessa, secondo la quale lo psicoanalista ha la posizione di asserire: “Io ti dico la verità”. Possiamo sviluppare la posizione epistemologica implicita in questa frase: “Io, psicoanalista, avendo un conoscenza scientifica dell’inconscio, vedo cose che tu, paziente, non puoi vedere, e te le comunico come verità”. Per Lacan, l’enunciato interpretativo non è affatto: “Io ti dico la verità”, ma piuttosto: “Tu dici la verità”, e la dici proprio quando pensi di ingannarmi, proprio quando pensi o temi di mettermi fuori strada. È la famosa storiella di Freud: “Perché mi dici che vai a Lemberg per farmi credere che vai a Cracovia, mentre vai davvero a Lemberg?” Lacan riprende qui infatti la struttura della menzogna nel linguaggio, risalente al paradosso di Epimenide cretese, secondo il quale tutti i cretesi mentono, ma anche lui è cretese, e questo dà luogo al paradosso del mentitore studiato da Russell. Se dico: “Io mento” dico la verità o sto mentendo? Si tratta, come sappiamo, di un’antinomia indecidibile. Naturalmente questo è un paradosso solo nel formalismo logico, perché se dico: “Io mento” nel linguaggio quotidiano, questo è un enunciato perfettamente valido, comprensibile e sensato. Significa che ti ho mentito fino a ora e ti mentirò ancora, e nel momento in cui ti dico: “Ti prometto che non ti lascerò mai” stai attenta, perché ti sto mentendo! Basta quindi collocare nel tempo l’enunciato perché perda tutto il suo carattere paradossale. Lacan fa però un’altra operazione: separa l’enunciato dall’enunciazione. L’enunciato è: “Io ti inganno”, mentre sulla linea dell’enunciazione c’è: “Io mento”. Dunque semplicemente dicendo: “Io ti inganno” dichiaro la mia intenzione di mentirti. Ma è appunto su questo che Lacan prende appoggio per basare la logica dell’interpretazione. Lo psicoanalista aspetta infatti il soggetto proprio lì dove dice: “Io ti inganno” per inviargli il suo messaggio in forma invertita e mostrargli: “Proprio quando dici di ingannarmi mi stai dicendo la verità”. Chiaramente questo tema diventa centrale nel momento in cui Lacan sta cercando in Cartesio la definizione del soggetto inconscio, in Cartesio dove si pone il problema di una certezza separata dalla verità, la quale verità viene delegata a un Dio che non inganna. Nella ripresa che fa Lacan di questo tema tutto si rovescia: non è l’Altro a ingannare, l’Altro è piuttosto quello che è ingannato. È interessante riprendere il tema dell’inganno perché è un argomento che traversa tutto il seminario, interrogando attraverso Cartesio il percorso verso una certezza senza verità, che proprio perché punta all’assoluta certezza, rigetta nell’Altro che non inganna la garanzia della verità. In ultima istanza, in Cartesio, c’è un Altro dell’Altro, come nota Miller (Extimité 28/5/86) c’è un Altro dell’Altro che è Uno, è il vecchio Uno biblico, ed è per questo che la psicoanalisi non è cartesiana. Nella psicoanalisi, infatti, non troviamo questa garanzia dell’Altro dell’Altro e, anzi, possiamo dire che l’esperienza psicoanalitica si svolge piuttosto come prova che quest’Uno non c’è. Quel che c’è è lo psicoanalista, che garantisce la propria presenza, garantisce il valore di quel che si fa. Si tratta di capire cosa significa in questo caso la garanzia. Se la garanzia è intesa nel senso della completezza, allora si ricade nell’equivoco in cui lo psicoanalista fa il Padre, e sappiamo che una certa lettura di Freud può prestarsi a questo. Se l’analisi freudiana può essere per certi suoi aspetti in funzione del Padre, non lo è però sicuramente l’analisi come la intende Lacan. È interessante vedere come Lacan prenda a modello dell’inganno l’amore. L’amore è il campo per eccellenza dell’inganno, dice, e per di più, è il campo dove l’inganno è riuscito. In che senso? Lacan lo spiega così: “Nel persuadere l’Altro che ha quel che può completarci, ci assicuriamo di poter continuare a misconoscere quel che ci manca.” (Sem. XI p.131) Direi che il termine cruciale in questa frase è “completezza”, è l’idea che l’altro abbia quel che può completarci. Si aprono qui due vie rispetto a come possiamo intendere l’amore, due vie che Miller ha indicato come quelle dell’amore-ripetizione e quelle dell’amore-invenzione. Nella prospettiva freudiana l’amore è essenzialmente ripetizione ̶ giacché amare significa reincontrare un oggetto arcaico reso riconoscibile da un tratto. Amiamo fondamentalmente la madre, e amiamo le donne che ce la ricordano. O non la sopportiamo, e amiamo le donne che sono il suo opposto. C’è come una sorta di automatismo, come per l’Uomo dei lupi, per il quale l’amore scatta quando vede una donna del popolo accucciata, come la Gruša. È l’idea dell’amore quando l’Altro contiene l’Altro dell’Altro, ovvero quel che può completarlo. Ma se l’Altro è barrato, allora ha spazio l’invenzione, allora l’amore è come nel canto dei poeti, che danno il nome a quel che non c’è, Dante allo sguardo di Beatrice, Leopardi al sorriso di Silvia, o, come dice splendidamente Gongora “Manda Amor en su fatiga Que se sienta y no se diga, Pero a mí más me contenta Que se diga y no se sienta.” E direi che questi versi, che pongono l’amore tra la fatica e le parole, parlano del confine dell’amore con la pulsione, che resta sullo sfondo del seminario XI, e che riemergerà con forza nel seminario XX.
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