di Marco Focchi Il termine perversione, che al tempo di Freud e nel lessico psicoanalitico era comune e di uso corrente, oggi è, in un certo senso, decaduto, è uscito dal vocabolario attuale, non è più considerato un termine politicamente corretto. Nella sua classificazione il DSM ha sostituito il termine perversione con quello di parafilia, che significa un modo di amare collaterale, marginale. Il presupposto da cui questa definizione procede è evidentemente l’esistenza di una linea principale, un mainstream che costituisce un modello dell’amore normale. Se il termine di perversione viene oggi rifiutato è perché in effetti ha in sé, per suo retaggio storico, una connotazione negativa, sicuramente meno neutrale di parafilia. Come la parafilia, la perversione presuppone una norma da cui si dia uno scostamento. La norma da cui la perversione si discosta, quando comincia a emergere alla visibilità sociale, è quella definita dal diritto canonico dove, tra i motivi di nullità del matrimonio nel canone 1095 n°3, è indicata la perversione, e in questo termine è compresa l’omosessualità. Dalla pastorale cristiana e dalla legge civile abbiamo dunque storicamente le linee direttrici che stabiliscono la norma e le sue deviazioni. Sono questi i grandi riferimenti che danno le coordinate per separare, per discriminare, per distinguere quel che era considerato lecito e quel che invece ricadeva nell’illecito. Era lecito quel che era circoscritto alla vita coniugale. Il matrimonio poi era strettamente regolato nelle sue espressioni sessuali, ed era tenut rigorosamente sotto osservazione attraverso la pratica della confessione. La sessualità era giustificata solo in relazione alla sua finalità riproduttiva, mentre veniva considerata infrazione e condannata ogni ricerca di piaceri strani che deviassero dalla genitalità. Tutto quel che si allontanava dalla unione genitale e dalla sua naturale finalità riproduttiva ricadeva nel concetto di contro-natura. Violare la legge di natura era contrario al buon ordinamento del mondo, perché la natura valeva come campione esemplare del diritto. La natura è infatti creata da Dio secondo l’ordine da lui stabilito, e andare contro la natura significa quindi andare contro la legge divina. Motivo per cui a margine della sessualità legittima definita dalle regole matrimoniali, appare tutto un mondo dove pullulano la sessualità infantile, l’attenzione equivoca agli adolescenti, il furore uterino, forme erotizzate di crudeltà che trovano approdo nei consigli disciplinari. Si delineano così le prime figure che compongono la famiglia delle perversioni, trattate come una forma di delinquenza e come una follia morale. Sotto questa luce il sodomita era soltanto un soggetto giuridico, un autore di atti illeciti. Occorre che la medicina si appropri di questo campo fatto apparire originariamente sul piano legislativo, perché quel che era semplicemente un problema giuridico diventi una patologia, e nasca la figura dell’omosessuale come categoria psicologica.
Siamo con questo già nella seconda metà del XIX secolo e, come afferma Foucault in una sua espressione famosa, il sodomita era un relapso, cioè un colpevole ricaduto dnell’eresia, l’omosessuale è invece ormai una specie. Carl Westphal, il medico che diede la prima caratterizzazione dell’omosessuale (1870) lo definiva attraverso una certa particolare qualità della sensibilità sessuale, e una certa maniera di invertire in se stessi l’elemento maschile e quello femminile. Una volta separata l’omosessualità dal modello criminale, i primi a studiarla tra gli psichiatri furono Jean Martin Charcot e Victor Magnan con uno lavoro del 1882 dal titolo Inversion du sens génital et autres perversions sexuelles. Per gli psichiatri l’omosessualità era solo il sintomo isolato di un disturbo generale dovuto a un problema più ampio, compreso in un concetto che la psichiatria francese stava elaborando all’epoca con il nome di dégénérescence. Secondo la teoria della degenerazione che domina la psichiatria francese nella seconda metà del XIX a partire da Bénédict Augustin Morel, la degenerazione è strettamente collegata all’ereditarietà: una tara si trasmette di padre in figlio con sempre maggior aggravamento e si estende ad ampiezza sociale dando luogo al fantasma delle classi pericolose. La teoria della degenerazione fu illustrata letterariamente da Emile Zola, che le diede grande risonanza e che ritroviamo ancora nel film di Jean Renoir del 1938 La bête humaine, tratto dall’omonimo romanzo di Zola. Quando apriamo i Tre saggi sulla teoria sessuale e leggiamo all’inizio le riflessioni di Freud sul problema dell’omosessualità, troviamo tra le sue prime preoccupazioni proprio quella di sganciare l’omosessualità dalla categoria della degenerazione, perché nel termine degenerazione evidentemente al tempo di Freud si sentiva la stessa valenza negativa di devianza e di criminalità che percepiamo oggi nel termine perversione. Degenerare significa infatti perdere le qualità del linguaggio, scostarsi da un modello ammodo, sano, retto di carattere e di condotta, scivolare nella degradazione e nella corruzione. Tanto è forte questo modello che in primo luogo Freud sente il dovere di impugnarlo dicendo che non possiamo usare il termine di degenerazione quando non si presentino gravi deviazioni dalla norma e quando la capacità e la prestazione non appaiano gravemente danneggiate. Aggiunge poi che, nello stesso senso, gli invertiti – al tempo di Freud questo termine non è un insulto ma solo una definizione medica – non possono essere qualificati come degenerati perché l’inversione si riscontra spesso in persone che non presentano altre significative deviazioni dalla norma. In secondo luogo Freud decostruisce l’omosessualità come categoria in quanto la diversifica in modi di comportamento assolutamente disparati tra loro. Cita tre esempi, ma si tratta appunto solo di esempi all’interno di una gamma molto variata di sfumature comportamentali. Parla degli invertiti assoluti, per i quali l’oggetto sessuale può essere solo omosessuale e il sesso opposto non diventa mai oggetto di desiderio erotico. Ci sono poi quelli che chiama anfigeni, che possono interessarsi ad ambo i sessi. Presenta infine gli invertiti occasionali. Considera inoltre i diseguali e molteplici atteggiamenti che gli omosessuali possono assumere nei confronti della propria pulsione sessuale, che può essere accettata come ovvia, oppure tollerata, o violentemente rifiutata e vissuta come patologica. L’interessante è però il modo in cui Freud separa la pulsione dell’oggetto. Considera infatti la pulsione sessuale come indipendente dall’oggetto che la soddisfa, che è, in ultima istanza, l’elemento più variabile. Questo è un argomento che avrà il suo sviluppo maggiore nei saggi metapsicologici di qualche anno dopo. Il problema dell’omosessualità è poi articolato con l’affermazione dell’esistenza in ciascuno di una bisessualità psichica. Freud rifiuta qualsiasi forma di stigmatizzazione e di ghettizzazione degli omosessuali, non li separa come una categoria a parte dell’umanità e, a differenza degli psicologi e degli psicoanalisti suoi contemporanei, non li classifica come “anormali” o come malati mentali. Considera, certamente, quale può essere la psicogenesi della omosessualità, per esempio attribuendola all’identificazione femminile derivante da un legame prolungato con la madre, che riappare nell’adolescenza dopo una forte fissazione infantile. Nello stesso modo in cui la psicoanalisi studia la genesi psichica dell’omosessualità, Freud afferma che anche l’interesse sessuale esclusivo dell’uomo per la donna, e viceversa, è un problema che richiede un chiarimento, perché non è affatto ovvio né si può attribuire a un’attrazione fondamentale chimica, cioè a qualcosa di naturale (I tre saggi p.460). Posta come pietra angolare della visione freudiana la separazione fra pulsione e oggetto, il tipo di legami che si creano diventa un problema di scelta d’oggetto, in nessun modo attribuibile a qualsivoglia inclinazione naturale. Per questo motivo, come Freud scrive ne I tre saggi (p 460) che l’indagine psicoanalitica si rifiuta con grande energia di separare gli omosessuali come un gruppo di specie particolare rispetto alle altre persone. È famosa una lettera che Freud scrive nel 1935 in risposta alla madre di un ragazzo omosessuale: “Cara signora, deduco dalla sua lettera che suo figlio è omosessuale. Sono molto colpito dal fatto che non usi mai questo termine nel darmi le informazioni su di lui. Posso chiedere perché lo evita? L’omosessualità non è certo un vantaggio, ma non c’è nulla di cui vergognarsi, non è un vizio, non è degradante, non può essere classificata come una malattia, riteniamo che sia una variazione della funzione sessuale, prodotta da un arresto dello sviluppo sessuale. Molti individui altamente rispettabili di tempi antichi e moderni erano omosessuali, tra di loro c’erano grandi uomini (Platone, Michelangelo, Leonardo Da Vinci). È una grande ingiustizia perseguitare l’omosessualità come un crimine – e anche una crudeltà. Se non mi crede legga i libri di Havelock Ellis. Mi chiede se posso aiutarla intendendo dire se posso sopprimere l’omosessualità e fare in modo che al suo posto subentri l’eterosessualità. La risposta in linea generale è che non posso prometterlo. In un certo numero di casi riusciamo a sviluppare i semi degradati dalle tendenze eterosessuali che sono presenti in ogni omosessuale ma nella maggior parte dei casi non è possibile. Dipende dal tipo e dall’età dell’individuo. Il risultato del trattamento non può essere previsto. Quel che l’analisi può fare per suo figlio è un’altra cosa. Se è infelice, nevrotico, lacerato dai conflitti, inibito nella vita sociale, l’analisi può portargli armonia, pace mentale, piena efficenza, sia che rimanga omosessuale, sia che diventi eterosessuale”. Si tratta in questa lettera di una visione lucida, moderna, aperta, consapevole su un tema in quegli anni difficile da trattare pubblicamente se pensiamo che nel 1952 l’omosessualità, inserita nella prima versione del DSM, era descritta come un disturbo antisociale della personalità e qualificata come una sottocategoria delle deviazioni sessuali. Questa definizione, pretesa oggettiva per l’impostazione stessa del DSM, naturalmente naturalmente apre un fronte di discussione perché si fonda su definizioni legate al pregiudizio sociale, ovvero alla configurazione simbolica di un’epoca, più che su un’osservazione scientifica che in questo campo non ha nessuna pertinenza. Il dibattito sull’omosessualità prosegue infatti nell’ambito medico e psichiatrico fino ai famosi moti di Stonewall nel 1969, che costituiscono il mito di fondazione del movimento gay. Stonewall rende manifesto il passaggio dell’omosessualità da problema medico a problema politico e a movimento di pressione sociale, un movimento che porterà alla derubricazione dell’omosessualità come categoria clinica dal DSM nel 1973, lasciando soltanto la menzione di omosessualità egodistonica, per sparire poi completamente nella IV versione del DSM nel 1994. Vediamo quindi la lucidità della visione di Freud nel 1935 quando nessuna pressione politica spingeva in quella direzione, e andava anzi piuttosto in senso contrario. L’istituzione psicoanalitica non seguì tuttavia l’orientamento di Freud, a cominciare dalla figlia Anna, che sull’argomento ebbe sempre un atteggiamento conservatore, considerando senza mezzi termini l’omosessualità come una malattia. Sul piano istituzionale è però Ernest Jones a prendere le decisioni che hanno segnato la via imboccata dall’IPA. Nel 1920 l’associazione olandese di Psicoanalisti ricevette infatti la richiesta di adesione da parte di un medico noto per la sua attività omosessuale. Gli olandesi prima di rispondere consultarono Jones, il quale in una lettera a Freud spiega che la sua risposta è stata di sconsigliarli, secondo lui a ragion veduta, giacché il medico in questione era stato scoperto e condannato al carcere. Jones chiede quindi a Freud se secondo lui siano sempre da respingere le domande di affiliazione provenienti da candidati dichiaratamente omosessuali. Freud risponde con una lettera, firmata insieme a Otto Rank, di essere in disaccordo, perché ritiene non si possano escludere queste persone senza altre valide ragioni che non quelle della loro omosessualità. Dichiara infatti di non condividere affatto l’idea che gli omosessuali vengano perseguiti legalmente. L’omosessualità, afferma Freud, deve quindi essere considerata un fattore neutro dal punto di vista della valutazione dei candidati. Nel dicembre 1921 il problema viene discusso nel comitato direttivo dell’Associazione psicoanalitica, dove si scontrano la linea viennese, sostenuta da Ferenczi, Rank, Freud, favorevoli all’integrazione degli psicoanalisti omosessuali, e quella berlinese, condotta da Karl Abraham, il quale considera che agli occhi del mondo l’omosessualità sia un crimine ripugnante, e che se venisse addebitato a qualcuno dei membri dell’Associazione vi farebbe ricadere il discredito. In seguito a questo dibattito e a partire da questa data l’omosessualità è bandita dalla formazione psicoanalitica sulla base di una regola non scritta. Anna Freud viene di rinforzo, molti anni dopo, a questa posizione, e anche la corrente kleiniana, che ha una visione meno rigida, considera l’omosessualità una grave patologia di tipo psicotico che non solo è modificabile, ma che deve essere modificata. Su questa linea si schierano analisti di vaglio come Edmund Bergler, che ha dedicato un grosso volume all’omosessualità spiegando come si tratti una patologia guaribile e sulla quale è necessario intervenire per guarirla. Nella letteratura psicoanalitica di questo tipo si tenta, in fondo, di riprendere l’omosessualità come tema di trattazione scientifica, come qualcosa di riducibile all’oggettivo, al fatto constatabile. Proprio le polemiche che hanno accompagnato la definizione e la classificazione dell’omosessualità mostrano però con la massima chiarezza come tutto quello che riguarda la sessualità sia una questione in prima battuta politica. È così per l’omosessualità come è stato così, e lo è ancora, per la definizione della condizione femminile. Consideriamo per esempio che Julius Moebius, psichiatra di chiara fama, deve gran parte della sua notorietà a un libro pubblicato nel 1900 con il titolo L’inferiorità mentale della donna, dove sostiene che, senza intenzione di offesa, ma basandosi solo su dati clinici, la donna è un essere biologicamente minus habens e che di conseguenza è assolutamente inopportuno affidarle qualsivoglia incarico pubblico. È stato necessario, pochi anni dopo, il movimento della suffragette per scardinare questa falsa scienza, basata non sull’osservazione ma sul pregiudizio sociale. Può essere facile per noi, in un mondo che ha acquisito una visione radicalmente diversa, ironizzare sulla visione ristretta di uno psichiatra nato nel XIX secolo, ma consideriamo che il 1900 è anche la data di pubblicazione de L’intepretazione dei sogni di Freud che, come abbiamo visto, aveva ben altra larghezza di prospettive. In Occidente ci sembra di poterci considerare progressisti, perché non mandiamo in giro le donne velate, ma in realtà la posizione della donna non è qualcosa che possa essere messa nella prospettiva di progresso continuo e costante. Nell’aristocrazia a cavallo tra il XVII e XVIII secolo, la donna, s’intende la donna di famiglia aristocratica, era molto più libera di quanto non sia stata con l’avvento della borghesia nel secolo XIX. I matrimoni erano accordi economici e patrimoniali tra famiglie e, una volta nato il primo erede legittimo, ciascuno dei due coniugi era libero di seguire la propria ispirazione. Era noto infatti il personaggio del Cicisbeo, di cui oggi ridiamo perché abbiamo letto Parini, ma che allora era una figura assolutamente seria e riconosciuta. L’epoca borghese e vittoriana è stata senz’altro più restrittiva sui costumi femminili che non l’epoca aristocratica. Si capisce dunque perché, in questa prospettiva, l’eliminazione dell’omosessualità dal DSM nel 1973 sia stata decisa nell’Associazione Psicoanalitica Americana attraverso una votazione. Nell’impossibilità di assumere una decisione scientifica ci si rivolge all’opinione della maggioranza, si procede cioè secondo le modalità della politica. Nell’APA il tema è rimasto controverso fino alla decisa presa di posizione di analisti dichiaratamente omosessuali fra i quali spicca la posizione di Ralph Roughton, che hanno contribuito con le loro prese di posizione e con le loro pressioni a sbloccare i criteri rimasti vincolati alla regola non scritta dai tempi di Jones. Nella sua Scuola di Lacan la posizione era piuttosto aperta. Lacan prendeva in analisi omosessuali senza la pretesa di rieducarli, e nella sua Scuola vigeva per gli omosessuali il principio dell’integrazione sia come analisti della scuola (AE) sia come analisti membri (AME). Per quanto riguarda poi la visione teorica, diversamente da Freud Lacan considera l’omosessualità come una perversione, ma in un quadro dove ogni forma di desiderio umano presenta un carattere perverso. Infatti nella misura in cui la nevrosi è la negativa della perversione, è chiaro che il carattere perverso del desiderio si trova presente in qualsiasi manifestazione della sessualità. La discussione più ampia che Lacan dedica all’omosessualità si trova nel seminario V. La linea che prende qui Lacan va considerata in relazione al quadro teorico generale in cui sta lavorando. Il seminario V è infatti quello in cui si definisce la metafora paterna, e in cui l’Edipo viene ad assumere un ruolo centrale nel definire la norma sessuale. L’Edipo assume quindi un valore normativo e la posizione sessuale si precisa in relazione all’esito dell’Edipo. L’esito normale è quello in cui il bambino, che inizialmente si identifica con il fallo materno, cioè con ciò che la madre desidera, viene staccato da questa identificazione dall’intervento del Nome del Padre. Rendendogli impossibile continuare a essere il fallo, il Nome del Padre lo porta a separarsene per esercitarne il titolo. Rinunciando ad essere il fallo della madre il bambino acquisisce il titolo del suo esercizio. Cosa succede però se l'intervento paterno non funziona a dovere, se non è ascoltato, se non accade in modo adeguato? È attraverso quest’inciampo nel funzionamento del Nome del Padre che Lacan spiega i fenomeni clinici riscontrabili nell’omosessualità, come il rapporto “profondo e perpetuo” che il soggetto mantiene con la madre. Questa situazione si verifica quando la madre si è occupata del bambino molto più del padre, quando ha avuto troppo a lungo una funzione direttiva sulla sua educazione. Questa prolungata attenzione al bambino invece di portare all’esercizio del titolo fallico – che implica un’integrazione della castrazione – porta a una sopravvalutazione dell’oggetto tanto che viene a formare un requisito indispensabile nel partner sessuale. Ovvero: l’intervento paterno non è che non sia avvenuto, semplicemente è la madre che gestisce la situazione. Lacan considera il caso di un padre troppo innamorato della madre, che proprio per questo cade sotto il sospetto di non averlo, e di rimettere alla madre del decisioni chiave. Il bambino così, invece di cercare il valore fallico nella donna che ne è priva e che proprio per questo può incarnarlo, lo cerca nell’appendice del corpo del partner. Dove nella situazione normale il padre interviene nella dialettica edipica per fare la legge della madre, con l’omosessualità è la madre che, in un momento decisivo, ha fatto la legge del padre. Nel momento cioè in cui l’intervento del padre dovrebbe tagliare alla radice ogni possibilità di identificazione con il fallo, il soggetto trova nella madre il sostegno e il rinforzo necessari per bloccare questa soluzione. Nel momento in cui il soggetto dovrebbe trovarsi in una crisi in cui non sa più a che santo votarsi e per questo far appello all’identificazione paterna, trova invece la propria sicurezza nella madre. È cioè la madre ad avere in mano le chiavi della situazione e non se la lascia togliere. Lacan precisa: questo non vuol dire che il padre non sia entrato in gioco. È una precisazione necessaria per distinguere dalla situazione della psicosi, dove il padre non ha nessun ruolo, non entra neppure in partita, dove il Nome del Padre è per l’appunto precluso. Nel caso dell’omosessualità il divieto c’è stato ma ha fallito, e per questo è stata la madre a fare la legge. La castrazione si è inscritta ma è stata respinta, sconfessata. Nella prospettiva così delineata l’omosessualità è inquadrata nelle coordinate edipiche, è vista in rapporto alla struttura significante, dove il fallo svolge un ruolo centrale e dove il Nome del Padre è la colonna di tutta l’operazione. L’Edipo in quanto senso funge da discrimine tra normalità e deviazione. Questo è il quadro dove il Nome del Padre funziona pienamente e dove e ha il posto legislativo che nella psicoanalisi delle origini gli veniva attribuito sul modello della struttura-famiglia ottocentesca, dove la ripartizione dei ruoli tra uomo e donna riservava al primo la sfera pubblica, il rapporto con il mondo e con le istituzioni, alla seconda la sfera domestica e tutto quel che riguarda l’intimità e l’affettività. Inutile dire che oggi non è più così. Non è tanto una questione di declino del Nome del Padre, è che il Nome del Padre non funge più da confine tra il pubblico e il privato. Non è più l’Edipo a trattare la norma e a disegnare il discrimine tra “retta via” e deviazione. Negli anni Settanta Lacan ha infatti cominciato a parlare di deviazione generalizzata. Questo significa che per tutti vige l'esilio dal rapporto sessuale. L’Edipo riuscito, l’Edipo giunto a compimento sarebbe idealmente infatti la misura della relazione tra uomo e donna. Ma sappiamo che l’Edipo non è mai realizzato, e non per qualche insufficienza o carenza nell’evoluzione soggettiva, ma strutturalmente. Quando Lacan dice che non c’è rapporto sessuale dice esattamente questo: che non c’è Edipo pienamente realizzato, che l’Edipo è solo un ideale e che la realtà non lo contempla. Non esiste quindi accesso al partner sessuale come totalità, si ha sempre solo rapporto con oggetti parziali e in questo senso si può parlare di perversione generalizzata. Nel seminario subito successivo al V, ne Il desiderio e la sua interpretazione, Lacan mette l’accento in particolare sul fantasma come ciò che inquadra la realtà del soggetto e che definisce le coordinate non tanto in relazione al fallo, quanto in relazione al godimento. Il fantasma è su un piano completamente diverso da quello ideale e può essere anche in netto contrasto con questo. È il motivo per cui nell’esperienza clinica il fantasma è a volte la cosa più difficile da far emergere e più difficile da ammettere da parte del paziente. Nelle situazioni in cui si verifica un netto contrasto tra il piano degli ideali e quello del fantasma possiamo trovare la militante femminista che per raggiungere l’orgasmo deve immaginarsi legata al letto e insultata dal partner. O possiamo trovare l’esimio professore marito e padre rispettato che con la moglie ha rapporti rispettabilissimi ma che per godere deve cercare una prostituta e infilarsi nelle calze a rete e in una giarrettiera rosso fiammante. Il fantasma è il modo singolare in cui passa il godimento, lo scenario indispensabile che si frappone fra il corpo del soggetto e il corpo del partner. Per quanto riguarda l’omosessuale possiamo dire che Lacan, alla fine, lo smonta come categoria. Esistono delle forme di omosessualità. Spostando l’accento dall’Edipo al fantasma abbiamo non la norma, ma la singolarità del modo di godimento. Non possiamo certo fare un catalogo dei fantasmi omosessuali, perché sarebbe appunto della più radicale singolarità. Il padre qui non è più il padre normativo, ma quello il cui modo di godimento produce degli effetti sul figlio. Non abbiamo più una legge che determina un modo di godimento a cui il soggetto può o non può consentire. La continuità della concatenazione è quella del significante, la causa è quella invece che introduce una discontinuità, una frattura, che implica una scelta. Dissociandosi dall’idea ottocentesca della causa biologica dell’omosessualità allora pensata come tara e degenerazione, oggi pensata come cocktail genetico, quel che viene in primo piano è la scelta soggettiva, ed è quella scelta che la psicoanalisi ci insegna a rispettare, non la tolleranza di una condizione biologica.
1 Comment
Alfia Rosa Scuderi
8/11/2021 04:52:39 pm
Molto interessante, soprattutto per la cornice storica e per la chiarezza nell’affrontare contenuti così importanti nella pratica psicoanalitica.
Reply
Leave a Reply. |
Marco Focchi riceve in
viale Gran Sasso 28 20131 Milano. Tel. 022665651. Possibilità di colloqui in inglese, francese, spagnolo Archivi
Settembre 2024
Categorie |