Marco Focchi Intervento all'incontro tenuto il 19 ottobre 2013 a Bilbao in occasione del XXV anniversario del Campo freudiano di Bilbao La testimonianza di Gustavo Dessal, a partire dalla sua personale esperienza nella traiettoria dell’Istituto in Spagna, mi ha particolarmente toccato e mi ha fatto sorgere interrogativi che pongo a me stesso, prima ancora che a lui, perché le sue riflessioni entrano in risonanza con quella che è stata l’esperienza d’insegnamento della psicoanalisi in Italia dove, come tutti sanno, la pratica è regolamentata. La legge di riferimento è stata promulgata nel 1989 per istituire l’Albo professionale degli psicologi, e contiene un articolo che menziona la psicoterapia, che viene inclusa nella normativa come un sottoinsieme della psicologia. In questo articolo non c’è nessuna specificazione per quanto riguarda i diversi tipi di psicoterapia esistenti, quindi tutte le varianti – cognitivismo, sistemica, psicodinamica, gestaltismo, psicoterapie umanistiche e così via – sono classificate in un’unica categoria e sono assimilate come fossero espressioni di una stessa pratica. La SPI aveva a suo tempo fatto pressione, con successo, perché la psicoanalisi non fosse menzionata in nell’articolo, e questo aveva dato luogo a un ampio dibattito. Alcuni sostenevano che la psicoanalisi era una forma di psicoterapia, e quindi doveva essere automaticamente inclusa. Altri consideravano che la psicoanalisi fosse inassimilabile a qualsiasi forma di psicoterapia, e che quindi la legge non la riguardasse. Si è prodotto quindi un margine di incertezza sul piano legislativo che, si riteneva, sarebbe stato definito concretamente dalle sentenze. Le prime sentenze in processi intentati contro psicoanalisti furono in effetti di assoluzione. Forse lo furono non per le ragioni migliori. Il giudice generalmente valutava il fatto che l’imputato non dava farmaci, non usava particolari tecniche psicologiche, non sottoponeva a test, si limitava a parlare con il paziente. In pratica quindi, considerava il giudice, l’imputato non faceva niente, e di conseguenza non poteva neppure fare danni. La situazione è ora cambiata, perché recentemente una nuova sentenza ha definito la psicoanalisi come una psicoterapia e quindi pienamente soggetta alla legge.
La psicoterapia, secondo quanto prescrive la legge, viene insegnata in Istituti postuniversitari, in un corso di studi della durata di quattro anni, che rilascia un diploma legale di psicoterapeuta. Per esercitare legalmente, allo stato attuale dei fatti, uno psicoanalista deve dunque essere in possesso di un diploma di psicoterapia. Noi stessi abbiamo dato vita a un Istituto riconosciuto dal Ministero, che per molti anni è stato l’unico Istituto di riferimento della Scuola. Oggi sono nati altri Istituti che si collegano alla Scuola, tutti operanti nel quadro della legge. Per questo sono sensibile in modo particolare quando Gustavo nel suo testo dice che “la nostra pratica e il nostro discorso ci collocano in un orientamento atipico rispetto a quello generale del mondo”. È un problema che abbiamo sentito molto bene, in questi anni, nelle acrobazie che abbiamo dovuto fare per preservare la peculiarità del discorso analitico all’interno di un quadro legislativo e normativo che tende a uniformare chi ci s’inserisce. Naturalmente la legge non implica solo le restrizioni, ci sono anche i vantaggi e la protezione che vengono dal fatto di operare entro il quadro legislativo, che ci permette, senza interferenze, di sviluppare un programma basato sui testi che c’interessano della tradizione psicoanalitica Si tratta quindi di fare una sorta di bricolage della legge, e credo dobbiate riconoscere che è una cosa in cui noi italiani abbiamo un certo talento. Bricolage con la legge vuol dire accettare la legge – e questa fu una decisione che prendemmo in quegli anni insieme a Miller – ma accettarla per non sottomettersi, per non subirla, non in modo passivo, ma per trovarvi i corridoi e gli anfratti che ci permettono di usarla anziché esserne usati. La domanda che farei a Gustavo, ma che in fondo è rivolta a tutti i colleghi che hanno avuto esperienza di formazione in questi anni, è se non consideri che questo nella psicoanalisi sia una condizione abituale, se non ci si trovi sempre, con il discorso psicoanalitico, a tracciare delle diagonali con le istituzioni e con le leggi, il che vuol dire: non prenderle frontalmente, ma trovare i possibili punti di penetrazione. Per quanto riguarda la relazione di Manuel Blanco, devo dire che ha un talento particolare per le espressioni azzeccate, per le definizioni felici, e nel testo l’espressione particolarmente felice mi sembra essere quella che suggerisce di “innalzare la formazione alla dignità di un sintomo analitico”. È vero infatti che il modo d’insegnamento che svolgiamo nel Campo freudiano segue il rigore dell’insegnamento universitario, ci porta a vaste letture di quella che è la letteratura psicoanalitica e dei campi limitrofi, ci anima della curiosità del sapere, una curiosità che per alcuni di noi diventa avidità, e vorremmo sapere più cose di quante ne sa Wikipedia, ma è vero d’altra parte che questo sapere universale resta inerte, inutilizzabile dal punto di vista della pratica psicoanalitica, se non passa per la cruna d’ago di un sintomo che sia degno di essere chiamato analitico. E su questo si fonda l’autorevolezza, ovvero la credibilità di un analista e con esso della psicoanalisi in quanto tale. Alcuni orientamenti, all’interno del panorama internazionale della psicoanalisi, cercano di costruire una credibilità della psicoanalisi affiancandosi a ciò che è considerato oggi socialmente credibile, e ciò che è socialmente credibile oggi per antonomasia sono le neuroscienze, o la scienza in quanto tale. Noi abbiamo scelto un’altra via, quella che passa per la dignità del sintomo. Non cerchiamo cioè di far crescere la nostra pianta appoggiandola a tronchi che possono al momento apparire più solidi, ma l’alimentiamo sul proprio terreno, che è quello della clinica e dell’esperienza dell’analisi personale. Proporrei a Manuel quindi di sviluppare quest’idea, quella della formazione come dignità del sintomo, in relazione all’espressione che Lacan usa quando definisce l’inconscio come sapere non saputo, e che credo di poter interpretare, in questo contesto, come un sapere non-già saputo, un sapere che non troviamo già fatto, che non andiamo semplicemente a ripescare nel nostro passato dimenticato, e che dobbiamo piuttosto creare, costruire attraverso l’invenzione sintomatica. Nel testo di Estela Paskvan metterei invece in risalto quel che lei propone come riferimento per orientarsi attraverso il discorso, e cioè un sapere che sta “nel posto della verità”. Lacan contrappone questo sapere nel posto della verità, che considera un sapere non iniziatico, non esoterico, al sapere sul godimento, che definisce come il sapere delle forme antiche di saggezza, di cui l’esempio eminente è l’Ecclesiaste, ma che riguarda anche la sapienza greca. È una forma di sapienza viene messa ai margini da Socrate, che privilegia invece il rapporto con l’oggetto “a” Lo spartiacque che segna Lacan è quindi quello tra un rapporto con il sapere fondato dalla tradizione, e un rapporto con il sapere che entra nella modernità. Quando Lacan parla di “sapere nel posto della verità” il suo riferimento non è quello della verità tradizionale fondata sul Nome del Padre, una verità garantita dalla parola del padre, ma una verità del mi-dire, che non si può dire tutta, non perché sia vietato, ma perché non c’è metalinguaggio, perché la verità, come verità della mancanza, attraversa il linguaggio come un contagio, e ogni significante ne è impregnato. Questo ha tutto il suo valore per quanto riguarda l’insegnamento, per quanto riguarda la lezione che dobbiamo aver imparato, per riprendere il suggestivo titolo di Estela. Ci sono infatti tanti contenuti che dobbiamo acquisire per essere all’altezza del nostro compito di analisti, il contenuto di libri, le cose da studiare, le cose che dobbiamo far nostre e contenere dentro di noi come orientamento, come bussola per orientarsi nel mondo. Ma la verità a cui si riferisce Lacan è una verità senza contenuti, non è la verità di qualcosa, è la verità della mancanza, una verità che procede dalla pura articolazione delle proposizioni e che ha come riferimento solo le tavole di verità della logica. È dunque questo che rilancerei a Estela, proponendole di sviluppare, quello che propone come un sapere della verità, accanto a quello dove invece accosta la verità al reale, dove il reale riduce questo sapere a pura parvenza.
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