Conferenza tenuta a Madrid il 10 novembre 2018 presso la sede dell'Escuela Lacaniana de psicoanalisi. Marco Focchi Nel secondo capitolo di Television Miller lancia a Lacan una piccola provocazione: “L’inconscio, strana parola!” dando spunto a Lacan per fare il punto sulla questione. Nel nostro linguaggio corrente siamo soliti esprimerci parlando del concetto di inconscio, e quest’uso è peraltro legittimato da Lacan, che ha fatto dell’inconscio uno dei quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. Bisogna dire però che accettiamo un po’ alla leggera l’idea che l’inconscio sia un concetto, e credo che se ci fermiamo un momento a riflettere sul problema la questione si presenta meno semplice di quel che appare.
Penso che quando Lacan parla di concetto abbia in mente Hegel, che si lascia guidare da quella che per lui è l’equivalenza tra razionale e reale, e per il quale il concetto non è qualcosa di semplicemente mentale, ma appartiene alla realtà stessa, è lo spirito vivente della realtà. La nozione più classica di concetto, che traversa il pensiero filosofico, è comunque l’idea di ciò che permette di afferrare un’essenza, di cogliere il pensiero di qualcosa in modo universale e necessario. I greci, bisogna dire, non avevano un termine equivalente al nostro concetto. Loro parlavano di logos. Definire un pensiero e sviluppare un argomento era per loro logon didonai, dare ragione. La descrizione argomentativa è per i greci quel che permette di fissare nel conoscibile ciò che fluisce nella varietà dell’esperienza. L’idea prevalente è fissare, stabilizzare, e più in là, prevedere, per quanto questo aspetto appaia in modo più deciso nella fisica moderna, erede certo della razionalità classica. Da questo bisogno di arrestare il flusso sfuggente del reale trae in fondo giustificazione il termine concetto che, sia nel latino conceptus, sia nel tedesco Begriff, significa afferrare, impadronirsi di ciò che altrimenti si ritrae nel continuo mutare delle cose. Vediamo già, se prendiamo questa via, che il concetto in quanto tale non quadra con l’inconscio perché, nel modo in cui ne abbiamo esperienza nella clinica, l’inconscio si manifesta proprio quando qualcosa si sottrae alla cattura, quando si prende una cosa per un’altra. Noi parliamo di atti mancati, il termine freudiano è Vergreifen, che significa per l’appunto sbagliarsi, commettere sbadataggine, prendere un granchio, avere una svista. Il Vergreifen è in un certo senso il contrario del Begriff, è lasciarsi scappare qualcosa piuttosto che afferrarlo saldamente. Lacan traduce infatti, molto precisamente, il termine freudiano Vergreifen con il termine francese méprise, la mancata presa. Vediamo che esprime un’idea esattamente contraria a quella di concetto. Nella conferenza tenuta nel 1967 all’Istituto francese di Napoli “La méprise du sujet suppose savoir” Lacan dice infatti: “Le savoir ne se livre qu’à la méprise”. Che cosa significa questo? Che non c’è un sapere sull’inconscio, che quando facciamo una interpretazione non applichiamo i nostri concetti a un dominio mappato. Prendere questa prospettiva è stato l’errore della psicologia dell’Io, che proprio perché ha inseguito l’idea di uno statuto scientifico della psicoanalisi ha fatto della metapsicologia freudiana una sorta di metalinguaggio dell’inconscio. Un sapere sull’inconscio è a tutti gli effetti un metalinguaggio dell’inconscio. Lacan non cerca un sapere sull’inconscio ma cerca il sapere dell’inconscio, e abbiamo un lampo di questo sapere non quando applichiamo i nostri concetti, ma quando piuttosto le cose ci scappano di mano, nella méprise. In Television, e anche nei seminari successivi a questo testo, Lacan è più prudente. Non parla del concetto di inconscio, ma mette in questione il termine. La domanda stessa di Miller lo guida in questo senso: “L’inconscient, drole de mot!”. Lacan ribatte che questa parola ha l’inconveniente di essere negativa. Perché è un inconveniente? In fondo abbiamo nella psicanalisi concetti negativi che va benissimo siano così. Per esempio das Unheimliche, lo straniante è costruito come termine negativo, ma è proprio in virtù di questo che tale concetto trova la sua forza espressiva. Il termine inconscio è problematico proprio per quel che nega, cioè la coscienza. L’inconscio si definisce come negazione della coscienza, quindi proprio per questo come dipendente dalla coscienza. Dobbiamo presupporre la qualità della coscienza per poterla negare e ricavare l’inconscio. Il problema è che – secondo Lacan – non possiamo riconoscere un’unità della coscienza come oggetto da cui partire per ricavare l’inconscio. Questo è tuttavia certamente il modo di procedere freudiano. La dimostrazione freudiana dell’inconscio procede infatti dalla constatazione di lacune presenti nel flusso della coscienza. Le lacune della coscienza però non interrompono il fluire del processo psichico, quindi – dice Freud – un’altra istanza prende mano quando la coscienza si assenta, e quest’altra istanza è l’inconscio, che viene presupposto supplire le assenze della coscienza. L’inconscio si deduce quindi a partire dall’assioma di una continuità dei processi psichici, e dalla constatazione di lacune nella coscienza. Da qui discende la sua denominazione, come di istanza psichica a cui è negata la qualità della coscienza. Questo però non ci dice ancora cosa sia l’inconscio. Lacan lo nota nelle prime righe della sua risposta in Television quando dice che il termine inconscio, proprio in quanto negativo, permette di supporre qualunque cosa. In ciò che si definisce attraverso la negazione della qualità della coscienza possiamo mettere per esempio la volontà shopenhaueriana per esempio, o il mistico di Wittgenstein, tutto ciò che nella filosofia va sotto l’etichetta di irrazionale, il sentimento, l’istinto. Ora, per Lacan l’inconscio al contrario non ha nulla di irrazionale, è ancora logos. L'inconscio strutturato come un linguaggio è infatti la messa in logica dell’inconscio freudiano, che a sua volta non ha nulla di irrazionale, solo che è fatto di rappresentazioni. Il problema con la nozione di rappresentazione è che la rappresentazione è strettamente correlata con la nozione di coscienza. Nel nostro linguaggio spesso assimiliamo le rappresentazioni freudiane – Vorstellungen – al significante di Lacan. In realtà c’è una grande differenza, perché la rappresentazione, quand’anche – nella torsione che dà Freud a questo concetto – le venga negata la qualità della coscienza, mantiene comunque un rapporto semantico con l’oggetto. La rappresentazione significa la coscienza di un oggetto, e l’inconscio definito dalla rappresentazione è mantenuto nell’ambito del semanticamente interpretabile, è declinato verso la ricerca di un senso. Questo non accade quando parliamo di significante. Possiamo dire che la rappresentazione resta necessariamente correlata alla conoscenza, mentre il significante va piuttosto in direzione del sapere. Si tratta di una differenza decisiva che Lacan mette in luce in un passaggio del Seminario XVI (p.280 dell’edizione francese) dove chiarisce bene il modo in cui distingue la conoscenza dal sapere. “Il passo della scienza è consistito nell’escludere quanto di mistico implica l’idea della conoscenza, nel rinunciare alla conoscenza, e nel costituire un sapere come un apparato sviluppatosi a partire dal presupposto radicale che abbiamo a che fare solo con apparati maneggiati dal soggetto e, ancor più, il soggetto può purificarsi in quanto tale fino a essere soltanto il supporto di ciò che si articola come sapere ordinato in un certo discorso, un discorso separato da quello dell’opinione e che si distingue per il fatto essere quello della scienza”. È detto chiaramente dunque come il sapere escluda l’elemento mistico che la conoscenza ancora conserva. Cosa vuol dire qui mistico? Vuol dire legato al senso, nella misura in cui, come sostiene altrove Lacan, il senso è sempre religioso. Il fatto che l’inconscio freudiano sia costruito a partire dal termine rappresentazione fa si che abbia uno sfondo religioso, uno sfondo rivelato in ultima istanza dal fatto che la cura freudiana tiene fermo il posto del padre, e dal fatto che si svolge nelle coordinate edipiche. La dipendenza dell’inconscio freudiano dalla coscienza tiene quindi l’inconscio, per altro verso, in una situazione di dipendenza dal senso. Lacan ha cominciato a sviluppare una critica esplicita a questo aspetto in Posizione dell’inconscio, dove la prima mossa è definire l’inconscio a partire da una posizione che non sia semplicemente quella di negazione della coscienza. Viene criticata infatti l’aspirazione della psicologia a fondarsi come scienza prendendo come oggetto una coscienza pretesa unitaria. Lacan ne mostra infatti, facendo leva su Hegel, la disaggregazione in molte sfaccettature, e dice che l’errore della psicoanalisi è attribuire alla coscienza la funzione di unificare fenomeni diversi che appartengono al campo sensoriale, all’attenzione, al giudizio, alla rêverie. Bisogna notare infatti che i primi tre termini definiscono i passaggi dialettici di costituzione della coscienza nella Fenomenologia dello Spirito. Per la rêverie dovremmo forse pensare a uno stream of consciousness joyciano, ma non entriamo nel merito di questo. In Posizione dell’inconscio porre l’inconscio significa porlo positivamente, come struttura di linguaggio, ed è solo così che usciamo dall’indeterminazione della negatività. È il filo che Lacan riprende in Television quando dice che lungi dall’essere una negatività indeterminata, l’inconscio è invece qualcosa di molto preciso, e lascia cadere qui il suo primo assioma: “Il n’y a d’inconscient que chez l’être parlant”. Miller lo glossa a margine scrivendo “La condizione dell’inconscio è il linguaggio”. Fin qui siamo su un terreno ben dissodato. Ma è interessante quel che dice subito dopo, e cioè: presso gli altri esseri, quelli che non hanno in dotazione il linguaggio, c’è istinto, ovvero un sapere funzionale alla loro sopravvivenza. Questo passaggio è fondamentale soprattutto se lo leggiamo alla luce della distinzione tra conoscenza e sapere che abbiamo menzionato prima. Non penseremmo infatti di attribuire una conoscenza all’animale. Il ragno tesse la sua tela ma non ci verrebbe mai in mente di dire che il ragno ha una conoscenza della tela come l’architetto ha una conoscenza dell’edificio che ha progettato. Conoscerla significa individuare la funzione, capirne la logica, apprezzarne la bellezza. Il ragno in realtà non ha nessuna conoscenza della tela. Noi ne abbiamo conoscenza, lui no, lui la sa fare, cosa che a noi è preclusa, non sappiamo fare ragnatele. Per il ragno può sussistere un sapere separato dal senso, mentre la conoscenza no, non può essere mai separata dal senso. Fare la tela per il ragno è necessario alla sua sopravvivenza, e quando Lacan definisce l’istinto come un sapere che implica la sopravvivenza dell’animale, abbiamo allora la definizione completa: si tratta di un sapere separato dal senso che non implica nessun apprendimento, perché se dovesse aspettare di imparare a fare la tela, nel frattempo il ragno sarebbe già morto. Nello stesso modo il sapere inconscio non implica nessun apprendimento. Perché non implica apprendimento? Perché implica piuttosto una decisione in rapporto alla quale un soggetto si costituisce come soggetto. In questo il sapere del ragno è più vicino al sapere della scienza che a quello del filosofo, che dice: “Cogito ergo sum” o prima ancora “gnothi seauton”. Il sapere del ragno, inoltre, è un saper fare. Si tratta di saper fare le cose che garantiscono la sopravvivenza, è azione. Anche nella scienza il sapere è collegato all’azione attraverso lo sviluppo della tecnologia. Naturalmente non possiamo spingere oltre questo confronto tra il sapere del ragno e il sapere scientifico. Il sapere inconsapevole del ragno è infatti qualcosa di diverso dal sapere inconscio dell’uomo, semplicemente per il fatto che il ragno non ha il linguaggio. La sua azione non si trasforma mai in lavoro perché il lavoro ha un carattere specificatamente umano: non si consuma in modo immediato nell’azione, e produce non solo quel che è necessario per la sopravvivenza, ma anche gli strumenti per realizzare questa produzione, strumenti che restano. Se al pescatore si strappa la rete ne ha un’altra di scorta, i prodotti del lavoro si conservano. Si lavora per il prodotto da consumare ma anche per costruire lo strumento da accantonare e da riutilizzare. L’azione animale si esaurisce invece completamente nel consumo. C’è dunque una differenza radicale tra il sapere inconsapevole del ragno e il sapere inconscio dell’uomo appunto perché, come scrive Lacan in un paragrafo successivo: “L’incoscient, ça parle”. Subito averlo affermato dopo introduce un tema cruciale: la differenza tra il linguaggio e lalangue. Si tratta di una differenza fondamentale, e Miller nel suo commento a Television sostiene che la definizione dell’inconscio come un sapere presuppone la differenza tra linguaggio e lalangue. Quel che distingue il linguaggio da lalangue è la grammatica. Lalangue si riferisce a un parlato che presupponiamo puramente pregrammaticale. Il linguaggio è già un’elaborazione de lalangue, una elaborazione fatta a partire da lalangue che introduce un sapere speciale – la grammatica appunto – che alfabetizza lalangue. Come pone Lacan la questione de lalangue? Mette innanzi tutto in gioco la linguistica come scienza che si occupa del linguaggio. Fa intervenire quindi la sponda che ha costituito il suo punto di riferimento fondamentale negli anni Cinquanta e sulla cui base ha riletto le operazioni freudiane di spostamento e condensazione come metonimia e metafora, facendone le leggi fondamentali del linguaggio, quelle che governano i lapsus , i motti di spirito, i giochi di parole, le formazioni dell’inconscio. “La linguistica – dice Lacan – è la scienza che si occupa de lalangue che io scrivo in una sola parola per specificarvi l’oggetto come si fa in ogni altra scienza”. Ogni scienza, per costituirsi, deve definire il proprio oggetto: le scienze fisiche hanno per oggetto la natura, le scienze biologiche hanno come oggetto il vivente, la chimica ha per oggetto gli elementi di cui si compone la materia, la linguistica ha per l’appunto come oggetto quell’amalgama sonoro che è lalangue. Qual’è la premessa metodologica di ogni scienza? Quella che Cartesio espone nelle sue Regulae ad directionem ingenii: la scomposizione del problema nelle sue parti più elementari, ovvero la riduzione algoritmica del flusso dell’esistente. Nella fisica il movimento è scomposto nei punti la cui posizione è definita dagli assi cartesiani. Nella biologia la complessità della vita è ricondotta alla componente elementare della cellula. Nella chimica la varietà della materia è resa leggibile attraverso le molecole che formano gli elementi. Nella linguistica sappiamo bene da cosa si parte: da quel che Lacan ha definito come l’algoritmo saussuriano, l’unità formata dal significante e dal significato. Sorge però qui un quesito: possiamo davvero ridurre la lingua a oggetto di studio scientifico nella stessa misura in cui lo facciamo con gli oggetti inerti delle scienze naturali? Non possiamo non chiedercelo, perché è difficile considerare la lingua come un oggetto inerte. Per studiarla dal punto di vista scientifico è certamente necessario ridurla allo stato di oggetto inerte, ed è quel che la linguistica fa. Anche se De Saussure distingue langue e parole, dove la parola è l’atto linguistico concreto del parlante. De Saussure non si dedica particolarmente allo studio della parole, e il tema dello speech act sarà lasciato piuttosto ai linguisti inglesi, a partire da John Austin e da John Searle. Sarà ripreso, come sappiamo, da Lacan con la differenza tra enunciato e enunciazione. Quando entra in gioco l’enunciazione siamo però già fuori dai confini della linguistica come scienza, perché entra in gioco un’articolazione della lingua con un punto di attivazione, con il contrario dell’inerzia. Questo fa sì che Lacan prenda distanza, nel suo ultimo insegnamento, dalla linguistica in quanto tale, e cominci a introdurre il termine ironico di “linguisterie”. Quando parla di linguisterie Lacan ha già voltato le spalle alla linguistica come scienza. In questo passo di Television usa infatti linguisterie per raggrupparvi “tutti coloro che hanno la pretesa di intervenire negli uomini in nome della linguistica”. Lacan mette qui infatti in primo piano lalangue che, per quanto oggetto della linguistica, lo è in modo eminente – dice – cioè, aggiungerei, in un modo fondamentalmente diverso da quello in cui il movimento, le cellule o le molecole sono oggetto della fisica, della biologia e della chimica. È diverso perché secondo Lacan, a esso si riduce legittimamente la nozione, che fa risalire ad Aristotele, di soggetto. Si vede che qui stiamo entrando in uno strano labirinto: lalangue è considerata come oggetto di una scienza particolare, ma al tempo stesso è ricondotta alla nozione di oggetto. Sembra di perdere il filo, ma bisogna invece seguirlo bene. Chiaramente qui Lacan si riferisce al concetto aristotelico di hypokeimenon, che vuol dire per l’appunto soggetto, il sub-jectum latino, con un’aura di significato però molto più ampia di quel che intendiamo noi abitualmente con il termine soggetto. Si tratta, con l’hypokeimenon, del sostrato, di ciò che sta nella cosa sensibile come un fondamento ontologico, di ciò che non può mai essere in posizione di predicato. Prendiamo per esempio la nozione aristotelica di synolon: è l’unione di materia e di forma. Se il bronzo è la materia e la figura è quella del dio, Mercurio, o Giove, o quel che vogliamo, la statua che rappresenta il dio è il synolon. Con lalangue c’è qualcosa di analogo: è la lingua non depurata dal godimento, è, per così dire, un synolon di linguaggio e di godimento. Lalangue in questo senso, come oggetto della linguistica è il sostrato hyletico, cioè materiale, che proprio in quanto sostrato è hypokeimenon. Questa sovrapposizione di soggetto e oggetto ha d’altra parte le sue ragioni di fondo nell’esperienza clinica, che ci mostra come il soggetto si costituisca in prima battuta individuandosi come oggetto del desiderio dell’Altro, per separarsene in un secondo tempo. Il secondo capitolo di Television si conclude a questo punto con una sorta di grande teatralizzazione dove l’inconscio è messo in scena accanto all’anima e al corpo. L’anima di cui parla Lacan qui non ha nulla a che vedere con quella della concezione cristiana, che è immortale e aspetta il Giudizio Universale per ricongiungersi al corpo da cui la morte l’ha separata. Nella concezione greca, a cui Lacan piuttosto si riferisce, rimandando ad Aristotele, l’anima è il principio che muove il corpo, e se Platone la considera immortale, Aristotele non è della stessa idea, o quanto meno la questione è molto dibattuta. L’anima di cui parla Aristotele è semplicemente un capitolo dei suoi studi di biologia. Il De anima è l’introduzione, la premessa della biologia aristotelica. L’anima per Aristotele è un po’ come una sorta di torta nuziale, fatta di strati, perché è composta da diverse funzioni che sono messe in un ordine preciso: funzione nutritiva, che è la base più ampia, perché appartiene a tutti i viventi, comprese le piante; funzione percettiva, che è indispensabile per il movimento volontario, e riguarda quindi gli animali; e poi c’è la facoltà del pensiero, la facoltà razionale che appartiene solo all’uomo. Abbiamo dunque alla base la facoltà nutritiva, threptikòn, su cui si innesta la parte sensitiva, aisthetikòn, per culminare su quella razionale, logistikòn. Il campo del vivente risulta così leggibile in questo insieme stratificato, in base alla serie ordinata dei rapporti tra organo e funzione. L’anima quindi non si separa dal corpo e non esiste senza corpo. In un certo senso possiamo dire che l’anima è la vita che scorre nel corpo, che lo anima, per l’appunto, e che cessa con il venir meno del corpo. Nel dualismo greco, che Cartesio eredita da Platone, il soggetto è la parte razionale dell’anima, e quando Lacan dice di istituire l’inconscio attraverso “l’ex-sistenza di un altro soggetto rispetto all’anima”, ritroviamo qui il tema di quella separazione del vivente dal significante che percorre un po’ tutto il suo insegnamento. Solo se inquadriamo bene questa prospettiva, se teniamo presente questo aspetto fondamentale, possiamo capire cosa intende Lacan quando dice che l’inconscio tocca l’anima solo attraverso il corpo. L’anima è infatti l’elemento vivente del corpo, mentre il corpo di cui parla Lacan è qui il corpo devitalizzato dell’Altro, quello di cui parla nella Logica del fantasma, quando dice: l’Altro è il corpo. In questo capitolo di Television Lacan dettaglia proprio l’idea di una struttura, quella del linguaggio, che ritaglia il corpo, e prende al tempo stesso distanza dall’idea di Aristotele che l’uomo pensa con l’anima, dicendo piuttosto che l’uomo pensa attraverso il ritaglio che la struttura del linguaggio opera sul corpo. Per questa via reintroduce qui un tema freudiano classico: quello della somatizzazione isterica che non rispetta l’atlante anatomico. Il linguaggio ritaglia infatti il corpo piuttosto sulla linea delle zone erogene. Il corpo simbolizzato, il corpo come Altro, mantiene una ricaduta libidica sui bordi delle zone erogene. Rispetto a queste capiamo, per esempio, la funzione del tatuaggio come una scrittura che tende a restituire una visibilità erotica del corpo. Il sintomo isterico, seguendo questa linea di pensiero, è un effetto dell’opera di ritaglio che il significante realizza sul corpo. Questa stessa opera di ritaglio per l’ossessivo si realizza nel pensiero. I pensieri che ingombrano la testa dell’ossessivo, di cui non sa cosa fare, di cui non riesce a liberarsi, sono in fondo i cascami erotici o aggressivi, o entrambi, che il soggetto non riesce a controllare. Sono, potremmo dire, pensieri pulsionali, e il rituale è quel supplemento significante necessario per ingabbiarli, per circoscriverli, per delimitarli, sono pensieri di cui l’anima è imbarazzata – scrive Lacan – di cui non sa cosa fare. Il corpo è quindi per un verso il supporto necessario perché il sapere non resti inconsapevole, come nel ragno, ma è il corpo in quanto ritagliato. Se consideriamo ora l’anima, vediamo che anche l’anima, in quanto il pensiero è articolato dal linguaggio, è disarmonica rispetto al pensiero. A proposito dell’anima Lacan dice tuttavia una cosa che colpisce: dice che dell’anima si parla allo stesso modo da Aristotele a Uexküll. È un’affermazione curiosa perché Uexküll è biologo dei primi decenni del novecento di ispirazione kantiana, che non ha mai parlato di anima, e che piuttosto ha coniato la nozione di Umwelt, di ambiente circostante. L’Umwelt l’ambiente di comportamento specifico per l’animale costituito da un selezione dei segnali. Quella sviluppata da Uexküll è una “biologia soggettiva”, poiché mostra come attraverso le proprie specifiche possibilità sensoriali l’animale strutturi il proprio mondo in base ai segnali che può ricevere. Per esempio gli animali che non possiedono organi visivi non distinguono le sensazioni luminose da quelle tattili. Il riccio di mare, che per l’appunto non ha occhi, riceve la luce come un contatto. L’esempio più classico però, ripreso dai filosofi, da Deleuze, da Canguilhem, è quello della zecca. Questo acaro reagisce a un solo stimolo: l’odore dell’acido butirrico presente nel sudore dei mammiferi. La zecca depone le uova su un albero. Dopo la schiusura dell’uovo il nuovo nato può resistere anni, immobile, senza cibo, nella posizione in cui si trova. Solo nel momento in cui passa un mammifero, con il suo odore caratteristico, la zecca è stimolata, e si lascia cadere sul corpo dell’animale. L’idea di fondo presentata da Uexküll è infatti che per agire su un vivente non basta ci sia un’eccitazione fisica, occorre ancora che questa sia notata, e nell’ambiente lo spirito vitale, l’anima, seleziona solo alcuni segnali. Uexküll è in un certo senso l’inverso di Lamarck. Per Lamarck il tempo e le circostanze favorevoli costituiscono un po’ alla volta l’animale. È l’esempio che tutti conosciamo dai tempi della scuola: il collo della giraffa si allunga perché possa mangiare le foglie degli alberi più alti. Per Uexküll il tempo e le circostanze favorevoli sono relativi e specifici a tale o tal altro vivente. Quel che distingue l’animale è il fatto di essere un centro in rapporto alle forze ambientali, che sono per lui solo eccitanti o segnali. Un centro significa un sistema di regolazione interno le cui reazioni sono comandate da una causa interna, il bisogno momentaneo. L’ambiente quindi da cui l’organismo dipende è strutturato e organizzato dall’organismo interno stesso – in questo senso parliamo di una biologia soggettiva. Se vogliamo leggere quindi una continuità tra Aristotele e Uexküll nel senso suggerito da Lacan dobbiamo considerare allora, credo, l’anima come l’insieme degli spiriti vitali da cui un vivente è mosso, e se Uexküll mostra una grande differenziazione in base agli stimoli che un animale è in grado di ricevere, c’è tuttavia una continuità che si mantiene nel considerare l’anima, o gli spiriti vitali che reagiscono agli stimoli, come movente del corpo. La differenza per l’uomo, l’homo sapiens, è che l’uomo è aperto su un mondo di fenomeni e di leggi che ha un carattere assoluto. L’uomo non dipende semplicemente dai suoi bisogni vitali, perché la scienza fa perdere valore alle qualità degli oggetti che compongono un ambiente specifico, e li legge attraverso una teoria generale dell’ambiente reale. I dati sensibili vengono squalificati e quantificati. Le misurazioni si sostituiscono alle valutazioni. L’uomo come vivente si separa dall’uomo come sapiente attraverso la sperimentazione e le ricerche attraverso le quali l’abituale esperienza percettiva viene contraddetta e corretta. Per questo Lacan conclude il suo paragrafo parlando di una disarmonia tra il pensiero e l’anima. Si tratta della dissonanza fondamentale tra il sapere e la vita. Se il nous greco era “il mito di una compiacenza del pensiero all’anima”, di una conformità all’anima con il mondo, l’Umwelt per l’appunto, possiamo invece vedere – dice Lacan – che il pensiero si sostiene attraverso il fantasma, che ci dà la realtà come smorfia del reale, che il linguaggio, in prima battuta, e poi la scienza, ci aprono una via verso il reale, ci fanno incontrare quel che si interpone rispetto al principio di piacere, rispetto al funzionamento vitale di ogni organismo che si colloca come centro del proprio ambiente. L’uomo, a partire da Giordano Bruno, è consapevole di non essere al centro del cosmo, ed è in questa deriva che incontra la pulsione di morte, principio di distruzione ma, al tempo stesso, principio di ogni possibile creazione.
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