Lezione tenuta all'Istituto freudiano di Milano il 13 dicembre 2014 di Marco Focchi I lavori di quest’anno s’incentrano attorno a un testo di Lacan complesso. In questi ultimi anni abbiamo messo a tema del Seminario fondamentale alcuni testi tra i più difficili del suo insegnamento. Il lavoro che tentiamo di fare qui è rendere chiara, fruibile, anche la parte più complessa, più difficile, più radicale, dell’insegnamento di Lacan. Abbiamo messo a tema La Troisième, la Terza. Lacan la chiama “La Terza” perché è la terza conferenza che tiene a Roma. Lo abbiamo messo a tema perché è il testo più specifico in cui Lacan presenta il neologismo parlêtre. I testi fondamentali dove Lacan espone questo termine sono La Troisième e il Seminario XXIII Il sinthomo. Il Seminario XXIII lo abbiamo lavorato due anni fa.
Perché ci interessa lavorare su La Troisième, e in particolare sul termine di parlêtre? Perché è il termine che ci porta verso il Congresso di Rio, che avremo nel 2016, e verso il tema che ci siamo dati nel 2016: “L’inconscio e il corpo parlante”. Quando, a Parigi nel 2014, Miller ha presentato il tema che avremmo discusso nel 2016, ha detto che il titolo “L’inconscio e il corpo parlante”, in fondo, era una concessione a quel che è l’uso corrente, giacché il termine che avremmo dovuto mettere nel titolo era proprio parlêtre, parlessere, che è la contrazione, il neologismo, che Lacan utilizza per descrivere l’essere parlante. Parlêtre è il termine con cui Lacan esprime l’idea dell’inconscio negli ultimi momenti del suo insegnamento. Il lavoro preparatorio per il Congresso AMP andrà in direzione di una messa a tema di che cosa significa l’inconscio preso in questo senso, nel senso che gli dà Lacan nel suo ultimo insegnamento, e di cosa ciò implica nella clinica, perché non è lo stesso lavorare nella clinica con una o un’altra concezione dell’inconscio. Lacan ha passato tutta la vita a domandarsi che cos’è l’inconscio, non lo ha dato per scontato. In fondo, Freud ci ha parlato dell’inconscio e Lacan avrebbe potuto dire: “Bene, l’inconscio è questo, partiamo da qui”, invece ha sempre interrogato la nozione di inconscio. Per esempio, ieri abbiamo presentato il libro di Lacan Il mio insegnamento, Io parlo ai muri. È uno straordinario testo che contiene sei conferenze di Lacan, di cui le prime tre sono un’interrogazione della nozione d’inconscio come emerge dal suo insegnamento. Sono conferenze che Lacan ha tenuto dopo la pubblicazione degli Scritti nel 1966, quando era invitato a presentare il libro in vari contesti. Le premesse che Lacan ha posto all’inizio del suo insegnamento, sono che l’inconscio è strutturato come un linguaggio. Non si è fermato all’idea di inconscio come l’aveva formulata Freud. Nel ‘66 aveva già un’apertura verso quella che era la dimensione etica dell’inconscio, perché nel ’64, nel seminario XI, lo aveva definito come qualcosa che ha una struttura non ontica, ma etica. Lacan ha proseguito la sua elaborazione, sino alla nozione di parlêtre. Non è semplicemente una questione di nome. Il nome conta. Lacan era insoddisfatto del termine “inconscio”, perché, diceva, è un termine negativo. In effetti, è una negazione, e una negazione dipende dall’affermazione che la precede. L’affermazione che la precede è la “coscienza”. Se partiamo dal termine “inconscio” lo rendiamo dipendente dalla “coscienza”, e in Freud questo c’è. Lacan, interrogando per tutto l’arco del suo insegnamento, la nozione di inconscio, prende una via diversa. Non vuole che l’inconscio sia soltanto un termine negativo, non per una questione di gusto, ma perché ritiene che l’inconscio non dipenda dalla coscienza. Questo è espresso in un modo particolarmente chiaro, incisivo, articolato, in Posizione dell’Inconscio. Posizione dell’Inconscio è un testo in cui Lacan riprende gli interventi fatti al congresso di Bonneval, che si è svolto nel 1960, organizzato da Henry Ey. Ey era uno psichiatra molto attivo sul piano dell’organizzazione culturale, e il congresso che organizzò a Bonneval fu particolarmente significativo. Aveva convocato tutte le belle teste dell’intellighenzia francese dell’epoca, c’erano Ricoeur, Laplanche… e c’era anche Lacan, il quale aveva fatto degli interventi orali, improvvisati, non aveva un testo. Ey si rese conto dell’importanza di quegli interventi e ne chiese la redazione a Lacan. Lacan gli inviò lo scritto quattro anni dopo, quando già stava realizzando il Seminario XI I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, pertanto il testo risentì dell’evoluzione che ha avuto il suo pensiero. La dichiarazione programmatica di lavoro in Posizione dell’Inconscio è una frase dove Lacan dice cosa l’inconscio non è. Scrive: «Non è una specie che definisce, nella realtà psichica, il cerchio di ciò che non ha l’attributo, o la virtù, della coscienza» [p. 833]. In tutto lo scritto Posizione dell’inconscio Lacan cerca di definire la posizione dell’inconscio rispetto alla coscienza, rispetto all’istinto e alla pulsione (Trieb). Lacan distingue “istinto” e “pulsione” per precisare la differenza dei due concetti, che appartengono a diverse topiche freudiane, e che l’orientamento della Psicologia dell’Io spesso univa. È diverso parlare di pulsione e parlare d’inconscio. Lacan riposiziona l’inconscio rispetto a come era stato definito da un suo allievo, Laplanche, in quello stesso congresso. Laplanche si era distanziato da Lacan e aveva rovesciato le sue formule definendo l’inconscio come la condizione del linguaggio. Lacan riprende quest’espressione e la rovescia: il linguaggio, dice, è la condizione dell’inconscio. Quindi posiziona l’inconscio rispetto alla coscienza, alla pulsione, al punto di vista di Laplanche, attua un’ampia articolazione dei nuovi concetti che sta introducendo, “alienazione” e “separazione”, infine fornisce la sua definizione positiva di inconscio. L’inconscio è definito dal fatto che il linguaggio è la condizione dell’inconscio, occorre che ci sia linguaggio perché si producano effetti d’inconscio. Così, per esempio, sgombra il campo rispetto alla nozione romantica o irrazionale d’inconscio. Nella misura in cui l’inconscio è linguaggio c’è un logos, una razionalità. I paradossi, le contraddizioni, che incontriamo nell’inconscio sono legati ai paradossi logici che incontriamo nel linguaggio. Nella definizione positiva di inconscio, Lacan mette in relazione fondamentale dell’inconscio con il soggetto. Quindi, il linguaggio ne è la condizione, e del linguaggio c’è l’effetto particolare che è il soggetto. Lacan sgancia la dipendenza della nozione di inconscio dalla coscienza, ma la articola fortemente con la nozione di soggetto. La nozione di soggetto non è in relazione con quella di coscienza: questa è una sovversione radicale. Tutto il pensiero occidentale, da Cartesio in poi, quando parla di soggetto parla di coscienza. “Penso dunque sono” è penso, so di essere, perché so di pensare, la mia coscienza di pensare coincide con la mia coscienza di essere, sono soggetto del mio pensiero perché questi pensieri si rappresentano nella mia coscienza. Coscienza e soggetto sono posti come coincidenti, identici. Lacan separa la nozione di coscienza da quella di soggetto, e solo a partire da qui può parlare di soggetto dell’inconscio. Perché si possa parlare di soggetto dell’inconscio occorre un’operazione concettuale che scardina alcuni dei fondamenti del pensiero occidentale. Vi è un rovesciamento della tradizione da Cartesio in poi, infatti, tutto Posizione dell’inconscio consiste in uno smontaggio del cogito cartesiano. Uno smontaggio in cui Lacan isola un momento privilegiato da Cartesio nel cogito. Punto eminente dell’operazione di Cartesio è che il cogito ergo sum parte dalle premesse che sono quelle del pensiero scolastico, tali per cui il pensiero rappresentativo è un pensiero della possibilità, ma non dell’esistenza. Il pensiero, attraverso la propria logica, può cogliere solo ciò che è possibile ma non ciò che è esistente. Il pensiero funziona in base ad alcune semplici regole fondamentali: principio di identità: a=a, possiamo pensare a qualcosa sul piano rappresentativo solo se un oggetto è identico a se stesso; principio di non contraddizione: non possiamo pensare a e non-a, non possiamo rappresentarci a e non-a; principio del terzo escluso: o a o non-a, non vi sono altre possibilità. Questi principi fondativi del pensiero rappresentativo permettono di costruirci dei concetti di ciò che è possibile. Possiamo pensare al cavallo alato, a Pegaso, ma il fatto che possiamo farcene un’idea, un concetto, non vuol dire che lo ritroviamo nell’esistenza, che abbia un riscontro ontologico. Cartesio, per primo, trova un pertugio in cui non ci sia divaricazione tra la rappresentazione di ciò che è possibile e ciò che esiste, questo pertugio è il cogito ergo sum, trovando un punto in cui rappresentarsi ed esistere coincidono. Opera una forzatura all’interno della tradizione rappresentativa del pensiero scolastico, trova questo punto privilegiato. È qui che Lacan s’inserisce quando parla di punto privilegiato. È un punto privilegiato in cui Lacan prende quella che è la certezza. Proprio perché c’è questo punto privilegiato in Cartesio, dove pensare ed esistenza coincidono, dove non si ha più divaricazione tra possibile ed esistente, Cartesio può asserire una certezza. Lacan individua questa certezza e considera questo punto indipendente dall’io. Nella lettura di Lacan, Cartesio mantiene l’io come un residuo teologico. Il procedimento di Cartesio è di svuotare tutto, di mettere in dubbio tutto, per ottenere l’unica certezza possibile. Quando ha ottenuto la certezza, per riempire di nuovo il mondo che ha svuotato da tutte le entità mettendole in dubbio ha bisogno di Dio, come garante di una verità, che introduce attraverso la prova ontologica. Nella lettura di Lacan, l’io viene a essere per Cartesio un residuo ontologico dell’esigenza di porre un Dio come garante della verità. Lacan non ha questa stessa esigenza, non abbiamo bisogno di un Dio che non c’inganni. Anzi, Lacan dà un ruolo proprio all’inganno, a quella che chiamerà, nell’ultimo insegnamento, “la verità mentitrice”, vérité menteuse [“Prefazione all’edizione inglese del Seminario XI”, in: Altri scritti, p. 565]. Questo punto privilegiato, la certezza, è il punto critico. Lacan prende questo punto di certezza separandolo dalla coscienza, dall’io, e su questo fonda l’idea di soggetto dell’inconscio, che identifica con il soggetto della scienza. Cosa vuol dire soggetto della scienza? In fondo, la scienza è ciò che procede per oggettivazione. La scienza, per formulare le proprie leggi, deve depurare i suoi esperimenti da ogni elemento soggettivo. La scienza è ciò che ha bisogno di depurare quanto più possibile l’effetto soggettivo. Lacan identifica il soggetto cartesiano con il soggetto della scienza. Per Lacan, parlare di soggetto della scienza è congruente con la linea di pensiero che sta seguendo, separando il soggetto e la coscienza. La nozione dominante nella scienza è l’“universalità”. Una legge scientifica vale in modo universale. Le leggi dell’universo non sono relative al mio punto di vista, a come guardo il mondo. Diversamente dalla coscienza, che è il teatro di tutte le variabilità, di tutte le percezioni soggettive. Lacan separa la nozione di soggetto da quella coscienza, separa tutte le variabilità da tutte le qualità, da tutti gli elementi soggettivi della coscienza, per astrarre un soggetto che abbia valore universale. “Valore universale” vuol dire non soggetto alle variazioni che abitualmente chiamiamo soggettive. Sta ricavando una nozione di soggetto completamente diversa da quella cui siamo soliti pensare. Lacan parla di “soggetto”, ma dentro questo termine c’è un’articolazione distante da ciò che siamo abituati a pensare sulla base dell’identificazione tra soggetto e coscienza. Quindi, un soggetto che non è relativo a un campo sensoriale, alle variazioni, alle oscillazioni di attenzione, ai giudizi, che possono essere relativi alla rèverie: tutti questi sono fenomeni disparati, “eterotopi” li chiama Lacan, che costituiscono il campo della coscienza. Parla di “ eterotopia” nel campo della coscienza proprio per criticare la psicologia quando accampa delle pretese scientifiche. Per la psicologia accampare delle pretese scientifiche vuol dire costituire un oggetto della propria scienza, e l’oggetto della scienza psicologica è la coscienza. Lacan mette in discussione la possibilità di costituire la coscienza come oggetto d’indagine scientifica, proprio perché non è un qualcosa di unitario, bensì è un insieme di fenomeni eterogenei, disparati, diversi fra loro, che non sono sintetizzabili in un elemento positivo. Tutto ciò è la premessa che consente a Lacan di porre l’inconscio. Posizione dell’inconscio è “posizione”, positum, qualcosa che è posto, e perché sia posto occorre una positività, quindi il linguaggio è la sua condizione. Però sappiamo, per esempio dalle ricerche di Spitz, che la prima parola semantica è “no”. Il linguaggio entra, come possibilità referenziale, di riferimento semantico, a partire dal momento in cui il bambino può dire “no”, sapendo quello che dice. “No!”, cioè “ti rifiuto”. Questo “no” si istituisce su un fondo linguistico che Lacan chiama lalangue, la quale è una lingua che non ha delle negatività. Lalangue, il gioco della lallazione, è il fondo positivo che costituisce la condizione. Lacan pone l’inconscio come elemento positivo, come positum, e il soggetto come effetto del linguaggio. Si vede uno spostamento rispetto alle premesse che Lacan aveva posto negli anni ‘50, all’inizio del suo insegnamento. In Funzione e campo della parola e del linguaggio parla di un “soggetto”, ma in termini molto diversi: è un soggetto alienato alla propria verità. In Funzione e campo della parola e del linguaggio si tratta di ritrovare i capitoli della propria storia, o quegli elementi di memoria che sono monumenti rimasti sul corpo, rimasti nel ricordo, e così i lapsus, i sogni…, sono tutti elementi che riportano a parti cancellate rispetto alla coscienza. Qui, si tratta di ritrovare quella pagina rimasta bianca, di completare le lacune della coscienza. In questa fase Lacan è molto in linea con Freud: l’inconscio è ciò che completa le lacune della coscienza. Il soggetto di cui Lacan parla in quegli anni è un soggetto la cui verità è alienata, e dove l’obiettivo della psicoanalisi è che se ne possa riappropriarsene. Il soggetto di Funzione e campo della parola e del linguaggio è un soggetto che prende parola e, prendendo parola, può gradualmente riappropriarsi della propria verità. Non è così in Posizione dell’inconscio, dove non abbiamo un soggetto alienato dalla propria verità, un soggetto che prende parola, invece si ha un soggetto che è preso dalla parola, che è effetto del linguaggio, è sotto la presa della parola. Vi è uno spostamento radicale. Lacan sposta rispetto alla tradizione della filosofia, del pensiero occidentale, e dà un nuovo concetto di “soggetto”, nuovo anche rispetto a quello che lui stesso aveva posto… il pensiero di Lacan è continuamente in movimento. Il soggetto che “prende parola” è completamente diverso dal soggetto “preso dalla parola”, dal soggetto come effetto del linguaggio. Questo ha delle conseguenze cliniche. In Funzione e campo della parola e del linguaggio l’obiettivo è di minare le certezze narcisistiche del soggetto che fanno schermo alla verità, che rendono opaco il soggetto rispetto alla propria verità, interpretando, integrando, ciò che il soggetto ha dimenticato. Integrare nella rimemorazione è anche il limite che Lacan trova nel caso freudiano dell’Uomo dei lupi. Nonostante la dettagliata ricostruzione della scena primaria che fa Freud nella sua esposizione, il soggetto non riesce mai a integrare nella rimemorazione questa scena. La scena primaria, del coito genitoriale, non è qualcosa che l’uomo dei lupi ricordi, che gli pervenga nelle associazioni libere, ma la scena che il paziente presenta è un sogno, il sogno dei lupi sull’albero. È solo la ricostruzione freudiana che, percorrendo i pensieri latenti, ricostruisce la scena primaria. La scena primaria non è presente come qualcosa di soggettivamente recuperato, non c’è insight, ma è indotta dalla ricostruzione operata da Freud. Questa è la critica di Lacan sulla base dell’orientamento clinico di Funzione e campo della parola e del linguaggio, dove l’idea è che l’effetto dell’analisi sia di rimemorazione, di recupero soggettivo. L’arte della psicoanalisi in Funzione e campo della parola e del linguaggio è molto diversa da quella di Posizione dell’inconscio. Presentando i temi che avremmo discusso a Rio de Janeiro, nella relazione programmatica Miller ha detto, tra l’altro, che si tratta di vedere che clinica stiamo facendo in base al parlêtre, non dobbiamo andare a trovare nuovi concetti, forse, senza saperlo, stiamo già applicando una clinica che si fonda sull’idea di parlêtre, dobbiamo solo dircelo, testimoniarlo con dei casi. Le diverse premesse concettuali che vediamo nelle fasi di Lacan portano a diverse operazioni cliniche. È diverso minare le certezze narcisistiche e considerare il soggetto con un effetto del linguaggio, ciò porta a operazioni diverse. In Posizione dell’inconscio si destituisce la tradizionale identificazione coscienza-soggetto e si fa del soggetto un effetto di linguaggio. In Freud abbiamo una correlazione dell’inconscio con la coscienza. Ma un conto è un inconscio la cui condizione è il linguaggio, e un altro è un inconscio fatto di rappresentazioni. L’inconscio freudiano è fatto di rappresentazioni, per verificarlo potremmo prendere un punto qualsiasi dell’opera di Freud, dall’Interpretazione dei sogni alla Metapsicologia. Ho scelto un testo per me significativo, del 1912, Nota sull’inconscio in psicoanalisi, dove Freud considera le alternanze con cui una rappresentazione può essere presente nella coscienza: «Una rappresentazione o un qualunque altro elemento psichico, può essere presente ora nella mia coscienza e scomparire subito dopo. Essa può però, dopo un intervallo, riapparire immutata e ciò, come usiamo esprimerci, riemerge dalla memoria e non risulta da una nuova percezione dei sensi» [Freud S., Opere, Vol. VI, p.575]. Freud afferma che se una rappresentazione appare e scompare dalla coscienza non è perché in un momento non la percepisco più, la rappresentazione si mantiene anche quando non è presente alla coscienza, e quando si ripresenta riappare dalla memoria, cioè non dai sensi ma dall’interno dell’apparato psichico. Freud dice che queste alternanze di presenza della rappresentazione nella coscienza non possono essere alternanze dell’esistenza della rappresentazione, la rappresentazione continua a esistere anche quando non l’abbiamo davanti a noi, anche se non appare alla coscienza: esiste in uno stato latente. Quest’esistenza che si prolunga al di fuori della coscienza va a costituire un altro luogo rispetto alla coscienza: un’“altra scena”, espressione che Freud usa riprendendola da Fechner, uno dei suoi maestri, e che è inclusa nell’Interpretazione dei sogni (einander Schauplatz, una altra scena). La rappresentazione di cui parla Freud è ciò che correla la percezione di un oggetto con la coscienza che se ne fa un concetto, il concetto è ciò che rappresenta un oggetto nella coscienza. Noi abbiamo un’idea di “cane”, abbiamo una rappresentazione del “cane”, e quando vediamo un cane che passa lo riconosciamo come “cane” perché corrisponde con la rappresentazione che noi ne abbiamo. La rappresentazione ci porta a un confronto con qualcosa di esterno alla coscienza. Freud prende il termine “rappresentazione” da Franz Brentano, che è stato uno dei suoi maestri. Brentano era un filosofo, di forte impronta aristotelica, che insegnava a Vienna negli anni in cui Freud frequentava le sue lezioni all’università. Nella lettura di Brentano, la rappresentazione dipende dalla coscienza, infatti rifiuta l’idea stessa di inconscio. Questo testo di Freud potrebbe essere una risposta a La psicologia dal punto di vista empirico di Brentano. L’obiezione a cui Freud risponde è che, usando le sue parole, la rappresentazione non sarebbe esistita in quanto oggetto di psicologia, ma soltanto come disposizione fisica al riapparire dello stesso fenomeno psichico, cioè precisamente di una rappresentazione. L’obiezione è che la rappresentazione dipende dall’oggetto e l’oggetto si riflette nella coscienza. Se l’oggetto è assente anche la rappresentazione è assente. Ma nel momento in cui l’oggetto riappare, di nuovo, la rappresentazione riappare, come effetto dell’interazione tra oggetto e coscienza. L’obiezione filosofica a cui Freud risponde è che la rappresentazione non ha una sua esistenza autonoma, la rappresentazione è un effetto dell’interazione tra coscienza e oggetto. Se consideriamo il punto di vista di Schopenhauer, volontà e rappresentazione, rappresentazione e oggetto, sono la stessa cosa, vi è un’equazione. Freud risponde a quest’obiezione, spiegando che la sua teoria varca i limiti della psicologia propriamente detta, affermando di riferirsi a una nozione di psichico più vasta rispetto a quella che attiene alla psicologia, secondo la quale conscio e psichico coincidono. Freud sostiene che dobbiamo considerare che la rappresentazione continui a esistere, a essere attiva nella vita psichica, anche quando non è avvertita dalla coscienza, perché la nozione di psichico contiene anche quella d’inconscio. Freud lo desume da ragioni empiriche, in particolare attraverso le sperimentazioni con l’ipnosi dove, per esempio, l’azione compiuta da una persona dipendeva da un ordine ipnotico la cui rappresentazione si manteneva al di fuori della coscienza del soggetto. È da esperienze come queste che Freud desume l’idea che la rappresentazione continui a sussistere anche al di fuori del momento in cui la coscienza la tiene presente, inferendo il concetto di inconscio come ciò che colma le lacune della coscienza. Ravvisiamo, così, nella definizione d’inconscio, le due diverse operazioni concettuali che realizzano Freud da una parte e Lacan dall’altra. Quando introduce la nozione di inconscio, per affermare l’esistenza della rappresentazione inconscia, la grande operazione concettuale di Freud consiste nel separare rappresentazione e coscienza. Su un altro piano invece, Lacan spezza il legame tradizionale tra coscienza e soggetto. Il primo passo è, con Freud, quello di introdurre la nozione di una rappresentazione che si sottrae alla coscienza. Con Lacan siamo in un orizzonte diverso. Con Lacan, l’inconscio ha un’altra giustificazione: negli effetti soggettivi che il linguaggio produce. In questo caso, effetti soggettivi vuol dire che in una catena enunciativa c’è uno degli elementi della catena che è il luogo da cui procede la parola. Ricordo che alcuni anni fa eravamo a un congresso ad Angers, e visitavamo un palazzo dove c’erano degli splendidi arazzi. Questi arazzi raccontavano delle storie: c’erano diverse scene di personaggi, cavalieri, dame… e all’inizio di ognuna di queste serie di quadri c’era una figura che era quella del narratore, questo, evidentemente, è il soggetto dell’enunciazione, il punto da dove la storia prende parola, rappresentato, inserito all’inizio della catena della narrazione. Qualcosa di simile c’è in un bellissimo libro di Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore, dove ci sono dei giochi con i tarocchi che rimandano a una struttura analoga, dove all’inizio è sempre indicato il punto d’enunciazione. Dobbiamo trovare qual è, fra i vari elementi, il soggetto. Quando interpretiamo un sogno possiamo procedere come, classicamente, faceva Freud: chiediamo qual è il punto che più ha colpito il paziente, se ci sia qualche elemento che vuole individuare, e lo invitiamo a fare delle associazioni derivanti da questo e da quello. Ma quando facciamo parlare il paziente in questo modo ciò cui prestiamo attenzione è individuare l’elemento che indica il soggetto dell’enunciazione, ovvero ci chiediamo: a partire da cosa si allinea tutto questo discorso? E lì, quando lo troviamo, c’è qualcosa che ci apre la via verso i pensieri inconsci. Freud colloca le rappresentazioni su un’altra scena, altra rispetto a quella della coscienza: è quella dell’inconscio. Dov’è l’altra scena di Lacan? Non direi che c’è un’altra scena per Lacan, piuttosto c’è un discorso dell’Altro. Per Lacan si tratta del discorso dell’Altro. Il discorso dell’Altro non vuol dire l’altro che mi sta parlando, ma l’Altro di cui ho interiorizzato la domanda. Il discorso dell’Altro è la domanda che l’agente delle cure, generalmente la madre, rivolge al bambino nel momento stesso in cui si occupa di lui. Curandosi del bambino gli chiede qualcosa, chiede di poppare in certi momenti e non in altri, gli chiede di fare la cacca sul vasino e non addosso, ecc. In fondo, la domanda è questo: vettori pulsionali che il bambino interiorizza e che diventano il discorso dell’Altro fatto proprio. La domanda pulsionale è l’interiorizzazione come discorso dell’Altro: la prima domanda che ci faceva la mamma si sedimenta e continua a circolare. In Lacan non c’è tanto un’altra scena, piuttosto un discorso dell’Altro. Dove si svolge questo discorso? Per rispondere dobbiamo passare al Lacan a cui miriamo con il lavoro di quest’anno con La Troisième. Per comprendere dove si svolge il discorso dell’Altro dobbiamo considerare la lettera. “Lettera” che, per esempio ne l’Istanza della lettera, Lacan definisce come “la struttura localizzata del significante”. Così definita vuol dire che la lettera è ancora un significante, un significante che ha un posto. La definizione vuole dire questo: che ha un posto. Proprio perché ha un posto la scriviamo su un foglio, per esempio. Con la svolta degli anni Settanta, Lacan elabora le sue definizioni, e la lettera non è più un significante, ma qualcosa di diverso. La lettera entra come traccia di una scrittura. Che la lettera, ora, sia qualcosa di diverso dal significante si riscontra in particolare in Lituraterra. In quegli anni, il luogo di questa scrittura è il corpo. Quando la lettera dipende dal significante, la scrittura è qualcosa di secondario, è la traccia che il significante lascia sul foglio. Allorché ne parla in Lituraterra, la scrittura è qualcosa di primario, ed è una scrittura sul corpo. Se per Freud l’inconscio è un’altra scena, secondo il Lacan degli anni Settanta l’inconscio è la scrittura sul corpo: e in questi termini troviamo una riarticolazione della nozione di inconscio con quella di pulsione. Se in Posizione dell’inconscio, che è degli anni Sessanta, Lacan separa la posizione dell’inconscio rispetto alla pulsione, con la nozione di “lettera” i due elementi si riarticolano, perché le lettere sono segni sul corpo, segni di godimento, tracce degli eventi pulsionali del corpo. La riarticolazione fra inconscio e pulsione si sviluppa particolarmente nel Seminario XX Ancora. Quali sono le implicazioni sul piano clinico di questi spostamenti? Il correlato del parlêtre è il sinthomo. Lacan prende il termine sinthome, con la “h”, da Rabelais: è un’ortografia arcaica di “sintomo”… anche in italiano c’è un modo arcaico di dire “sintomo”, che si trova nei manuali di medicina del secolo scorso, è “sintoma”… potrebbe essere una buona traduzione di sinthome. Lacan introduce un altro concetto di “sintomo”: non più come metafora di un significante rimosso, ma come relativo a un segno, il segno di un evento di corpo. Ciò toglie peso all’importanza dell’interpretazione e, piuttosto, accentua un altro approccio alla clinica, che non è più, per esempio, fondato sul taglio, coupure, il taglio che dà senso. Negli anni Settanta Lacan non parla più di coupure ma di epissure, di incordonatura, che sarebbe quel tipo di cose che fanno i velisti quando prendono due capi di corda e non fanno un nodo ma li sfibrano e riallineano le fibre insieme. Sono quindi delle giunture, delle saldature. È una clinica che non si fonda più tanto sul taglio ma sulla saldatura: è la clinica dei nodi. Lacan inizia la clinica borromea a partire da queste diverse premesse. Ogni differenza concettuale che si introduce porta a differenti operazioni cliniche. Non si cancellano quelle precedenti, bensì s’arricchisce il nostro repertorio. Mi preme insistere sulla grande differenza che vi è tra un inconscio definito dal linguaggio, fatto di significanti, e un inconscio fatto di rappresentazioni. La rappresentazione implica un rapporto tra l’oggetto e il concetto che la mente se ne fa, ciò significa che la rappresentazione è sempre secondaria, viene dopo, rispetto a qualcosa di originario che è l’oggetto. In senso platonico, se si parla di rappresentazione, ci riferiamo sempre a una copia. Per Platone c’erano le Idee, ovvero la Cosa originale, e il mondo in cui viviamo, un mondo fatto di apparenze, un mondo di copie. Poi ci sono le copie delle copie, che sono i simulacri. La “rappresentazione” ha questo retaggio platonico: è una copia, il che implica che c’è un originale, e in ultima istanza un’origine. In Freud il tema dell’origine dilaga: i fantasmi originari, la scena primaria, il romanzo familiare (che in fondo è ancora una ricerca dell’origine)... Ho menzionato la scena primaria per eccellenza: quella dell’uomo dei lupi. Freud l’ha ricostruita meticolosamente, risalendo all’evento reale della copulazione genitoriale che sta dietro la scena fantasmatica. In quegli anni, per Freud era fondamentale trovare, datare, il fatto concreto a cui risalgono i fantasmi, le rappresentazioni, le scene originarie. E si noti, lo fa malgrado in quegli stessi anni avesse da tempo abbandonato la teoria della seduzione, cioè la teoria che faceva risalire a una seduzione reale il trauma determinante le nevrosi. Quindi, ha abbandonato la teoria della seduzione ma rimane ancora legato all’idea di un fatto originario che produca i fantasmi. Introdurre i fantasmi originari cambia concettualmente la prospettiva. Freud a un certo punto considera le fantasie come la realtà psichica, come ciò a cui si tratta di arrivare nel lavoro analitico. Interpretiamo sulla base dei fantasmi, non interpretiamo i fantasmi, i fantasmi sono ciò che danno il senso sulla cui base interpretiamo. Freud considererà la seduzione non un evento reale, ma un fantasma originario. L’idea è che la scena primaria possa essere non necessariamente data dal fatto che il bambino ha visto i genitori impegnati nell’atto sessuale, ma che può aver costruito in altro modo tale fantasia. Anche se non si ritorna a un fatto ontogenetico, un fatto cioè che appartiene alla storia individuale del soggetto, Freud rimane dell’idea che la scena primaria abbia un’origine nella realtà, anche se sul piano filogenetico. Si tratta cioè di qualcosa che se non è successo al soggetto nel corso della sua vita, è qualcosa che, attraverso una lunga filiera, risale comunque in ultima istanza a un fatto reale effettivamente verificatosi. Ciò condiziona la concezione freudiana della ripetizione, poiché se la rappresentazione è qualcosa che viene in seconda battuta, allora anche la ripetizione è toccata da questa sorta di dipendenza dall’origine, la ripetizione deve cioè ripetere qualcosa che c’era all’origine, e da qui deriva la prospettiva del ritorno all’inorganico che informa la pulsione di morte. Freud attua, all’interno del proprio pensiero, una rivoluzione passando dal principio di piacere, che è la legge ultima dell’accadere psichico, all’idea di un al di là del principio di piacere, di una ripetizione, ma si tratta di una ripetizione che resta dipendente da un’origine che c’era, fattivamente, ed era lo stato inorganico da cui la vita emerge, per ritornarvi. Ci sono però in Freud linee di pensiero che vanno in una direzione diversa, e che si possono già ritrovare in uno dei primissimi scritti: Ricordi di copertura, del 1899 [Freud S., Opere, Vol. II]. Anche Freud se lo riferisce come di un paziente, si sa che il ricordo di copertura descritto gli appartiene. La scena è costituita da un prato e tre bambini: il soggetto che racconta la storia, suo cugino e una cuginetta. I tre giocano nel prato e raccolgono dei fiori gialli, dei denti di leone. La ragazzina ha il mazzo di fiori più bello. Ai ragazzini viene in mente di strapparglielo. Assaltano la bambina, le strappano il mazzo di fiori. La bambina piange, ma c’è una balia che la conforta. Per consolarla la balia le dà un pezzo di pane nero. I bambini vedono il pezzo di pane nero, e non si interessano più ai fiori, vogliono il pane nero. Vanno dalla balia e si fanno dare il pane nero, che ha un profumo delizioso ed è la cosa più buona del mondo., Nello scenario si hanno quindi i tre bambini, i fiori e il pane. Freud ricostruisce, legge, il ricordo a partire da due sequenze diverse. Nella prima il protagonista ha diciassette anni. La famiglia si è allontanata dalla campagna ed è andata a vivere in città. Torna in campagna e vede la cugina, anch’essa diciassettenne: bellissima, indossa un vestito giallo che gli mozza il fiato. Si perde in un delirio romantico di pensieri: “Come sarebbe stato bello se fossi rimasto sempre nella campagna, se fossi rimasto sempre accanto a lei, se avessi sposato mia cugina e avessi vissuto la mia vita con lei”… quella vita che Cesare Pavese amava chiamare “semplice e perversa”, vicina all’erotismo dell’amore e alla semplicità della natura… Ma restano fantasie, e il protagonista ritorna in città. Nella scena successiva il protagonista ha vent’anni. Vi è una seconda visita in campagna, dove ritrova gli stessi personaggi. Ma questa volta non è rapito dall’amore, bensì sta pensando agli studi. Sta dedicandosi a degli studi astratti, cosa che generalmente i genitori sconsigliano. Si rende conto che il padre e lo zio stanno architettando di staccarlo da questi studi che non gli daranno pane, progettando per lui un buon matrimonio con la cugina, cosicché magari possa restare in campagna dedicandosi a una professione pratica, possa insomma crearsi una concreta posizione e guadagnare dei denari. Ma nulla da fare: oramai per lui la cugina è dimenticata e c’è solo la proiezione verso le ambizioni di pensiero che in quel momento lo sostengono. Tornato in città, in seguito a difficoltà di lavoro e agli ostacoli che nella vita s’incontrano sempre, ripensa a quel progetto del padre e dello zio: “Beh, non sarebbe stata una cattiva idea, mi sarei trovato a guadagnare due soldi”, ma ormai la cosa era perduta. Gli elementi chiave sono: il giallo, dei fiori e del vestito della cugina, e il pane. Sono gli agganci che si collegano al ricordo infantile. In realtà, la conclusione di Freud è che questo ricordo sia completamente ricostruito in adolescenza a partire dal materiale infantile. Freud afferma che, probabilmente, c’era una scena assolutamente indifferente, come mille altre, da cui ha prelevato gli elementi con cui ha ricostruito il ricordo. Elementi che condensandosi nel ricordo vengono a esprimere la violenta pulsione erotica – attraverso l’idea di deflorare la ragazza, di strapparle il mazzo di fiori – e le ambizioni, il guadagnarsi una buona posizione… In questo ricordo, l’aspetto interessante è che non c’è nessun rimando a elementi fattuali: il ricordo è costruito di pezzi staccati. Per quanto Freud metta in ordine cronologico le due serie, dei diciassette e dei vent’anni, questo non è il fattore determinante. Piuttosto, sono importanti l’interazione e la differenza delle due serie, che rimandano a qualcosa che non è mai stato. La ripetizione rimanda a qualcosa che non è mai stato. L’infanzia non è mai stata. Infatti, quando parliamo di ricordo di copertura (deckerinnerung), souvenir-écran, parliamo di uno schermo messo su un vuoto, su un abisso senza tempo: questo è l’inizio. Non c’è un elemento positivo da cui partire. È quello che Thomas Mann chiama “le quinte del tempo”. Risaliamo indietro, risaliamo indietro, possiamo risalire all’infinito, e all’infinito c’è l’abisso, dove il solo punto d’arresto sono le quinte del tempo che noi mettiamo, cioè ci rappresentiamo delle scene da dove le cose cominciano. I ricordi di copertura sono queste scene, sono le quinte del tempo. Quindi, non c’è un volto dietro la maschera, non c’è un qualcosa dietro le parvenze. In questo la definizione di semblant in Lacan è molto precisa. Il semblant, la parvenza, è un significante che non ha nessuna correlazione con un elemento di significato. Dietro ai ricordi di copertura, dietro a queste quinte del tempo, troviamo soltanto la spinta del desiderio, la forza pulsionale, o la linea dell’intensità del corpo. Sono elementi che non possono entrare nella rappresentazione e, quindi, si costruiscono delle parvenze. Le due sequenze che interagiscono costituiscono un ricordo d’infanzia proprio perché l’infanzia non è mai stata. L’infanzia non è un’età dello sviluppo, non è un momento della storia del soggetto. Quando chiediamo a un soggetto la sua storia, i ricordi d’infanzia, non è per una preoccupazione anamnestica, come accede in medicina, bensì perché mettiamo in movimento le serie operative nel soggetto, gli elementi che sono attivi ora nella vita presente del soggetto, come il “giallo” e il “pane”, elementi differenziali che fanno ancora la differenza nella vita attuale. Si potrebbe parlare dell’infanzia come di un mito. Il mito è una sorta di costruzione dell’infanzia dell’umanità, dove le cose cominciano. Nel senso più preciso in cui possiamo connotarla, l’infanzia è una frattura. È la frattura che c’è in ogni presa di parola. È la frattura tra il linguaggio e il suo aver luogo. È l’esperienza tra la lingua e la parola, o fra la parola e lalangue, come direbbe Lacan. È divisione. Che l’esperienza di questo taglio sia connotata come “infanzia” è l’indicazione di un tempo che non è mai stato presente. Se vogliamo sganciarci da una visione mitica dell’infanzia, dei ricordi, del mito individuale del soggetto, dobbiamo considerare che tutto ciò rimanda a un tempo che è una sorta di passato puro. Quando entriamo nel gioco della ripetizione del passato del soggetto, ciò che si ripete non è qualcosa che è stato, come i desideri edipici, come qualcosa di originario che ora si ripete in seconda battuta, in forma di copia, che si ripete depotenziato quasi dicessimo: “Com’era bello il momento delle origini”, una sorta di nostalgia dei tempi perduti. La ricerca del tempo perduto in Proust non è assolutamente questo. È piuttosto il girare intorno al punto vuoto del passato puto, al buco, come dice Lacan nel suo ultimo insegnamento. Il passato non è un evento successo, e di cui ora abbiamo nostalgia, quando pensiamo: “Com’era bello il tempo dell’infanzia”. Il passato è la connotazione della mancanza. Il passato è ciò che manca al presente. È la mancanza che fa capolino in ogni presente. La ripetizione non è ripetizione di qualcosa che c’era all’inizio, non è la ripetizione della copia, è l’interazione delle serie, ciò che fa il gioco delle differenze, che mette in gioco le intensità del corpo (la pulsione), le quali non hanno nessuna rappresentazione perché non sono mai cadute sotto la percezione sensoriale: sono l’esperienza viva del corpo reale. Dovremmo andare al congresso di Rio con l’idea del “corpo” non come corpo immaginario, di cui Lacan parla ampiamente nell’articolazione della fase dello specchio. Quando andiamo nella direzione dell’Inconscio e del corpo parlante, parliamo del corpo attraversato da moti che non hanno rappresentazione. Dovremo studiare in questo senso quel concetto chiave, quel termine freudiano che Lacan riprende e commenta a lungo che è Vorstellung- repräsentanz. Trascrizione di Rosaria Olgiati Redazione di Giuseppe Perfetto
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