![]() Conferenza tenuta a Barcellona il 17 novembre 2012 presso la Escuela Lacaniana de Psicoanalisis di Marco Focchi Il testo Posizione dell’inconscio riassume gli interventi fatti da Lacan durante il Convegno di Bonneval organizzato da Henry Ey nel 1960. Siamo nella fase matura dello strutturalismo francese, Henry Ey è uno psichiatra cattolico, uomo di grande energia, infaticabile organizzatore di incontri su temi la psicoterapia e le sue connessioni interdisciplinari. Tra questi il Convegno di Bonneval segna una data storica, e non solo per la partecipazione di Lacan. All’incontro sono presenti infatti psicoanalisti, psichiatri, filosofi tra i quali spiccano alcuni dei più bei nomi della cultura francese dell’epoca: Jean Hyppolite, Maurice Merleau-Ponty, Eugene Minkowski, Henri Lefebvre, Paul Ricoeur. Tra gli psicoanalisti, oltre a Lacan, ci sono André Green, Conrad Stein e alcuni allievi di Lacan, come Jean Laplanche, Serge Leclaire, François Perrier. Malgrado l’evento si annunci foriero di un confronto teorico al massimo livello, non viene predisposta una registrazione. A Ey però non sfugge l’importanza del contributo di Lacan e, perché ne resti traccia, gli chiede di redigere in un testo i suoi interventi. Lacan lo fa nel marzo del 1964, circa quattro anni dopo averli pronunciati, quando sta tenendo il seminario XI su I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, e quando molte cose sono cambiate nella scena culturale e politica della psicoanalisi.
Naturalmente, sulla trama di fondo del testo, questo mutamento si sente e si percepisce bene soprattutto l’influenza del lavoro che Lacan sta svolgendo nel seminario, che porta la sua riflessione a una svolta di grande interesse. Prende in particolare un certo sviluppo una questione che traversa tutto il seminario XI, che si amplia fino a costituirne un filo rosso, e che si ripercuote nei temi ripresi in Posizione dell’inconscio. La questione che traversa il seminario XI, che si pone qui in modo problematico, e che viene trattata in modo diverso da com’era stata affrontata nelle fasi precedenti della riflessione di Lacan, riguarda il rapporto della psicoanalisi con la scienza. Negli anni Cinquanta infatti, e per tutto il periodo in cui è più stretto il suo rapporto con il pensiero strutturalista, Lacan non mette mai in dubbio che la psicoanalisi debba far parte della scienza. Questo certamente non significa che abbracci il punto di vista fatto proprio nella psicologia dell’io, secondo il quale la psicoanalisi dovrebbe adeguare i propri concetti allo statuto epistemologico richiesto per le scienze della natura. Lo strutturalismo esplora piuttosto un’estensione di problemi diversa da quella pertinente alle scienze della natura, e trova nella linguistica il paradigma fondamentale che ritiene possa dare il necessario rigore a quelle che una volta venivano chiamate scienze umane, e che si rifiuta di chiamare così per l’implicazione antiumanistica del suo pensiero, che è pienamente esplicita in Louis Althusseur e in Michel Foucault. Non c’è dubbio quindi per Lacan che la psicoanalisi debba entrare, con le sue peculiari caratteristiche, nel grande movimento di pensiero tendente a stabilire un sapere a cui appartiene lo stesso tipo di certezza riscontrabile nelle scienze naturali. Questo pensiero si definisce con mezzi concettuali diversi da quelli delle scienze naturali, ma costruisce un formalismo che aspira allo stesso grado di rigore. La valorizzazione del simbolico rispetto all’immaginario che Lacan sostiene a partire dall’inizio degli anni Cinquanta va in questo senso, e implica la necessità di abbandonare l’imprecisione dell’intuizione allo scopo di formulare un sapere rigoroso sulla base di una combinatoria di elementi discreti. Questo aspetto è presente sin dai primi seminari. Ne possiamo trovare un esempio nel modo in cui Lacan, nel seminario II Le moi dans la théorie de Freud et dans la téchnique de la psychanalyse interpreta il sogno freudiano dell’iniezione di Irma scartando le disquisizioni sui colleghi di Freud e sul tema delle gelosie professionali, che riconduce a semplice scenario immaginario, e basandosi sulla formula della trimetilamina, cioè sull’insieme insensato di lettere che costituisce una formula chimica. Nel seminario XI questa prospettiva cambia, Lacan sente che le cose in questa direzione non sono così sicure. Il rapporto con la scienza non è più dato per scontato, è piuttosto interrogato. Questa messa in questione del rapporto tra psicoanalisi e scienza è meno evidente in Posizione dell’inconscio dove Lacan ancora sostiene, per esempio, che la psicoanalisi è responsabile della presenza dell’inconscio nel campo della scienza, ma prepara già gli sviluppi che Lacan darà alla sua riflessione. Credo che a partire dal problema del rapporto della psicoanalisi con la scienza dobbiamo interrogare il titolo Posizione dell’inconscio, titolo che abbiamo a cui ci siamo ormai abituati tanto da darlo per scontato. Cosa vuol dire però “posizione dell’inconscio”? In senso concreto, posizione è un concetto spaziale, si riferisce a ciò che è posto, collocato, ha un senso positivo, rimanda alla realtà concreta. L’idea che Lacan vuol trasmetterci in questo testo non è però certo che l’inconscio sia una realtà positiva, empiricamente verificabile. L’inconscio, nell’articolazione che Lacan sviluppa nel testo, non è posto nel senso di collocato come entità positiva, piuttosto è messo in rapporto con altri elementi come la coscienza, l’istinto, il linguaggio, la pulsione. Considerando la vena polemica che caratterizza solitamente Lacan, questa posizione va intesa direi propriamente come una presa di posizione. Tutto il testo si sviluppa in effetti come una presa di posizione rispetto alla psicologia, rispetto alla filosofia, rispetto agli allievi dissidenti Laplanche e Pontalis. Penso che possiamo in effetti prendere lo sviluppo logico del testo e suddividerlo in base alle prese di posizione successive, e ogni presa di posizione ridefinisce l’inconscio rispetto a una disciplina o a un campo concettuale. Vorrei allora darvi la struttura in sui si articola il testo. La prima parte riguarda la posizione dell’inconscio rispetto alla coscienza dove Lacan precisa che l’inconscio non va definito come la negazione della coscienza e coglie l’occasione per sviluppare un’ampia critica della psicologia. C’è poi una parte che riguarda la posizione dell’inconscio rispetto all’istinto, per precisare la differenza tra i due concetti e per criticare la traduzione del termine freudiano Trieb con il termine “istinto”. Segue la definizione del linguaggio come condizione dell’inconscio, tesi che Lacan ribadisce contro le critiche di Laplanche che proprio nel suo intervento a Bonneval distorce l’insegnamento del maestro, affermando che l’inconscio è la condizione del linguaggio. Si sviluppa il tema dell’apertura e della chiusura dell’inconscio, articolando la questione della beance causale, dove il problema del tempo si pone a partire dalla nachträglicheit. A partire da qui Lacan introduce i due assi della causazione del soggetto, che sono alienazione e separazione. Per concludere, illustrandolo con il mito della lamella, Lacan articola il concetto di pulsione. Non tratterò tutte queste parti e non vorrei neanche prenderle nel loro ordine di esposizione, vorrei solo tentare di fare alcune connessioni per cercare di mettere in luce l’architettura interna del testo. Il punto di avvio mostra in cosa Lacan sia ancora sulla traccia della scienza, in cosa l’interrogativo che traversa il seminario XI sia ancora indeciso e non investa completamente Posizione dell’inconscio. Lacan parte infatti definendo cosa l’inconscio è, e che cosa non è. Entrambe le definizioni, quella positiva e quella negativa, individuano fenomeni che possono essere qualificati come inconsci, ma non è a partire dalla qualità inconscia che costruiamo il concetto di inconscio, né tanto meno lo deduciamo da un insieme di fenomeni. Il concetto deve andare al di là delle apparenze fenomeniche, e non si desume semplicemente da una raccolta di dati empirici. Questo, secondo Lacan, è il metodo della scienza, è ciò che qualifica la scienza in quanto tale: staccarsi dalle lusinghe dell’immaginario per far valere l’astrazione della cifra. La scienza comincia quando partiamo dal fatto che, contro ogni evidenza, non è il sole a girare intorno alla terra, ma il contrario. Nello stesso modo in cui il reale della scienza non è quello che appare nel fenomeno, l’inconscio non è ciò che viene definito dalla qualità fenomenica di sfuggire alla coscienza. Notiamo che in questi primi passaggi la posizione dell’inconscio non è ancora definita nel senso della presa di posizione, come avviene subito dopo, ma del fatto che l’inconscio è posto come ciò che è concettualmente, e non possiamo propriamente dire sia un positum perché l’inconscio è posto a partire da ciò che costituisce il soggetto, cioè a partire dal linguaggio. In questa prima definizione c’è una ripresa dell’idea germinale dell’inconscio strutturato come un linguaggio. È interessante vedere come Lacan prenda questo punto di partenza, perché mette in gioco una definizione dove ancora non vengono registrati gli spostamenti concettuali che, rispetto allo statuto dell’inconscio, sta sviluppando nel seminario tenuto contemporaneamente alla stesura dello scritto. È come se Lacan volesse partire dalla solidità di quel che ha già appurato per procedere lungo una via non ancora del tutto definita, e ci fa pensare che nel seminario stia ancora cercando, mentre nel testo voglia prendere avvio da una base sicura. Non si limita però a quel che ha già acquisito, perché accanto all’inconscio strutturato come linguaggio, Lacan qui introduce, in modo diverso da come lo aveva trattato fino a quel momento, il tema del soggetto attraverso Cartesio. È importante vedere come il cogito cartesiano sia usato qui come punto di contrasto rispetto ai fenomeni di coscienza di cui parla la psicologia. Lacan considera che l’errore centrale della psicologia è prendere il fenomeno della coscienza come base per costituire un’entità, è attribuire alla coscienza la funzione di unificare, di sintetizzare fenomeni diversi che appartengono al campo sensoriale, all’attenzione, al giudizio, alla rêverie. Nello stesso modo in cui il concetto di inconscio non si fonda sull’insieme di fenomeni che negano la coscienza, il soggetto non si fonda sui fenomeni che la affermano nella loro distribuzione eterotopa, cioè nella loro varietà non confrontabile. Il fondamento del soggetto è tutt’altra cosa, e consiste, dice Lacan, nel momento privilegiato del cogito. Si tratta di un privilegio non estensibile ai fenomeni della coscienza. Cosa dobbiamo vedere in questa distinzione tra cogito e coscienza? Il cogito, questo è il punto, segna a sua volta un punto di rottura con l’intuizione, con le false sicurezze che vengono dall’evidenza. È il motivo per cui nel cogito cartesiano Lacan riconosce il soggetto dalla scienza. Si tratta infatti di un soggetto non dato dal fenomeno della coscienza, e in rottura con le apparenze. Il cogito istituisce una certezza che non deriva dall’evidenza sensibile. Che cosa significa però questo momento privilegiato? Lacan, in Posizione dell’inconscio, non lo spiega. Sottolinea come con Cartesio abbia avvio la separazione tra la verità e la certezza, perché la verità viene messa sulle spalle di Dio, ma non dice in cosa il cogito sia un momento privilegiato. Credo che sia importante tuttavia entrare nel merito di questo aspetto, perché riguarda la logica a cui Lacan farà grande affidamento in tutto il corso del suo insegnamento, fino a definirla, negli ultimi momenti, come la scienza del reale. Possiamo iniziare dicendo che la grande acquisizione di Cartesio è stata quella di prendere di mira un reale, un esistente, e coglierlo con il pensiero in modo diretto, senza bisogno di passare per il circuito della verità. Cosa significa? Il pensiero è fatto per cogliere il possibile, non l’esistente. Solo il possibile è la modalità immediata del pensiero. Potremmo domandarci: “E allora? Cosa implica questo?” Ebbene implica un fatto piuttosto importante: che il pensiero non ha in sé i mezzi per distinguere il possibile e il reale. È come nell’esempio dei cento talleri, che Kant utilizza per contrastare l’argomento ontologico: l’esistenza reale dei cento talleri non aggiunge niente ai cento talleri possibili, dice Kant, perché l’esistenza non è un attributo del concetto. È la ragione per cui in filosofia si dice che l’esistente è esterno alla rappresentazione. A che titolo infatti il pensiero pensa il possibile? A titolo di alcuni principi che sono i principi logici. Sono principi molto semplici. C’è il principio d’identità, che asserisce che un ente è identico a sé stesso (A=A). C’è il principio di non contraddizione, per cui una cosa non può essere sé stessa e contemporaneamente il proprio contrario ¬(A &¬A). C’è il principio del terzo escluso, per cui di una cosa si può dire che è vera o che è falsa, e non c’è una terza possibilità (A oppure ¬A). Nel pensiero posso quindi sapere che cosa è impossibile, che cosa è impensabile, ed è impensabile quel che contraddice i principi. Con i principi posso pensare le essenze, i concetti, ma come faccio ad arrivare dai concetti al reale, all’esistente? Devo passare per la via empirica, devo verificare. Se il pensiero ha solo un carattere ipotetico, quel che pensa può essere vero o falso. Si pone dunque il problema della verità, cioè di verificare se quel che penso corrisponde a quel che esiste. Il pensiero è più ampio dell’esistente, perché può immaginare cose che non ci sono, può costruire chimere. Cartesio è il primo a trovare un passaggio, un varco nel pensiero che lo fa uscire dal carattere ipotetico per dargli forza categorica, e lo fa ponendo che l’io che pensa è uguale all’io pensato: Io=Io. Ritroviamo quindi con questo ancora il principio d’identità, ma questa volta applicato in un punto speciale, o in un momento privilegiato, come dica Lacan, perché in questo punto l’io pensante e l’io pensato coincidono e la realtà dall’esistenza pensante-pensata assume carattere categorico. Avendo il cogito un carattere categorico, non è più necessario passare per la verifica dell’esistente. Il cogito non è un’ipotesi da verificare, è qualcosa che colgo nell’immediatezza della sua esistenza. Io=Io è dunque il varco, il punto privilegiato attraverso cui Cartesio fa virare il pensiero dal possibile al reale. È anche il terreno da cui riprende la filosofia tedesca, perché sapete che io=io è la formula da cui Fichte fa partire la propria riflessione sostenendo che il principio stesso di identità va giustificato, e può essere giustificato solo a partire dall’io che pone se stesso. È il punto di partenza dell’idealismo tedesco e c’interessa perché interessa a Lacan, che si riferisce non a Fichte ma a Hegel, il quale prende a sua volta le mosse da Fichte. Per un verso Lacan infatti critica Hegel, per un altro ne segue il filo per portare la sua critica alla psicologia. La critica che Lacan rivolge a Hegel riguarda il fatto che il presupposto latente del cogito è il sapere assoluto, cioè la coincidenza di concetto e oggetto. Ora, Lacan non crede affatto che ci sia una coincidenza di concetto e oggetto, ed è per questo che trasforma, rielabora mille volte il cogito cartesiano in formule sempre diverse, fino ad arrivare a rovesciarle attraverso le operazioni della logica booleana che lo portano a dire: penso dove non sono, sono dove non penso. Questi però sono sviluppi successivi. Nel seminario XI, contemporaneo a Posizione dell’inconscio, l’operazione che fa subire al cogito consiste semplicemente nel separare il soggetto dell’enunciato dal soggetto dell’enunciazione. È quel che esprime sinteticamente nel modo più semplice, introducendo due punti nella formula cartesiana, che diventa penso: dunque sono. Ovvero: “Io sono colui che pensa: dunque sono”. Questo introduce una disgiunzione nella formula cartesiana dell’autoposizione dell’io, segna una divisione, che Lacan chiama, ricorrendo al tedesco: Ent-zweiung. Fa entrare insomma in tal modo, nell’io=io, cartesiano la divisione soggettiva. A partire da qui riarticola il cogito cartesiano con quello che potremmo chiamare il cogito freudiano, che è Wo es war soll ich werden. Sappiamo che Lacan rifiuta la lettura tradizionale di questa formula, secondo la quale l’Io dovrebbe prendere il posto dell’Es, e la legge diversamente: il soggetto deve venire, o deve avvenire, dove c’era. Dove c’era cosa? Il reale. Cosa significa allora? Che il reale è sempre mancato. Il soggetto non avviene dove il reale c’è, ma dove c’era, dove c’era fino a un attimo prima e sparisce nel momento stesso in cui avviene il soggetto. A questo punto dobbiamo fermarci per fare il punto, perché siamo portati in una girandola di trasformazioni del cogito che ci fan perdere l’orientamento. Un momento – viene da domandarsi – cos’è questa storia? Abbiamo preso come riferimento Cartesio perché produce una figura del pensiero in cui il pensiero fa presa sull’essere, sull’esistente, in cui apre l’unico varco dal possibile al reale, fa passare dall’ipotetico al categorico e ottiene un punto privilegiato. Ora, con il trattamento del cogito fatto da Lacan, e con il suo rovesciamento, vediamo che il soggetto si lascia sfuggire l’essere, e cade di conseguenza la colonna portante della costruzione cartesiana, che consiste nel trovare nel pensiero un punto di presa sull’essere. Dobbiamo allora ritenere svanisca con questo il carattere privilegiato da Lacan attribuito al cogito? Naturalmente no. Semplicemente dobbiamo considerare lo spostamento concettuale che appare con il seminario XI, e che traspare anche in Posizione dell’inconscio. Si tratta di uno spostamento che modifica completamente il quadro, e che bisogna cogliere con chiarezza. Lacan riprende qui la sua idea che l’inconscio è strutturato come un linguaggio, ma mette l’accento sulla discontinuità, sulla rottura, sulla fenditura che l’inconscio costituisce, dove l’inconscio sorge come concetto della mancanza – Unbegrieff – come lo definisce nel seminario XI. Questo aspetto è sottolineato con forza anche in Posizione dell’inconscio, quando troviamo scritto: “La nostra Aufhebung trasforma quella di Hegel nell’occasione di riprendere le trasformazioni di una mancanza, piuttosto che non i salti di un progresso ideale”. Con questo è detto che il superamento dialettico non va, come per Hegel, verso il compimento di un sapere assoluto, verso unità sempre superiori fino a sfociare in una sintesi di concetto e oggetto, ma riformula in diversi momenti – che vuol dire in questo caso in diverse fasi pulsionali – una mancanza che, superata in una fase, riappare in modo diverso nella successiva: c’è una specifica mancanza nella pulsione orale, una nella pulsione anale, una in quella scopica e così via, e tutto questo non viene a culminare in una fase genitale matura e oblativa, ma piuttosto in una mancanza fallica, la castrazione, che definisce la mancanza in quanto tale, che nessun oggetto può colmare. La mancanza però, in questa fase della riflessione di Lacan, non ha lo stesso senso che ha nei seminari degli anni Cinquanta, cioè qualcosa di analogo alla casella vuota nel gioco del quindici, che dopo una serie di permutazioni dei tasselli va al suo posto, e che dunque ci fa concepire l’esperienza d’analisi come quella che deve riportare la mancanza al suo posto, mettendo ordine nelle cose. Nella metà degli anni Sessanta la nozione di mancanza si precisa nel suo concetto e nella sua funzione, perché la discontinuità è correlata a un altro aspetto fondamentale, che Lacan introduce in questo scritto e nel seminario XI, che è quello dell’apertura e della chiusura dell’inconscio. La discontinuità non è una frattura statica, o una mancanza che ha un suo posto in un ordine determinato, come nel gioco del quindici, ma è un tempo di apertura, un battito che alterna scansioni di apertura e di chiusura. Su questo inconscio temporalizzato Lacan riarticola tutta la questione del tempo logico. Potremmo dire che va a ripescare concetti già noti. Sì e no, perché qui tutto cambia. Una cosa è articolare il tempo logico in una logica del riconoscimento, come nel saggio del 1945, altra cosa è articolarlo con la logica di apertura e chiusura, con il battito temporale dell’inconscio. Tornando quindi al carattere privilegiato del cogito, vediamo ora in che senso il momento privilegiato si mantiene, al di la di tutte le variazioni fatte subire al cogito, e vediamo quale sia la differenza rispetto a Cartesio. Per Cartesio il cogito individua un varco privilegiato verso l’essere, un punto dove il pensiero fa presa sull’essere. Per Lacan il cogito è un momento privilegiato, un varco che per un istante si apre su qualcosa di evasivo, di immediatamente sottratto. Il punto privilegiato cartesiano è ontologico, il momento privilegiato di Lacan è temporale. Questa definizione del cogito da parte di Lacan lo rende inassimilabile alla fenomenologia della coscienza, che definisce dispersa, eterogenea e collocata in modo discontinuo. Consideriamo ora con attenzione l’elenco dei fenomeni diversi in cui Lacan descrive la dispersione della coscienza. Lo abbiamo menzionato sopra, sono fenomeni la cui eterogeneità riguarda il campo sensoriale, l’attenzione, il giudizio, la rêverie. Questo elenco non è affatto casuale, né meramente indicativo. Segue anzi una logica ben precisa. Possiamo dire che si tratta di tre termini, più uno, che si aggiunge provenendo da un altro contesto, che è la rêverie. Da dove sono prelevati i primi tre termini? Sono manifestamente riferiti ai tre momenti della dialettica hegeliana che descrivono la genesi della coscienza. Il campo sensoriale riflette quel che in Hegel è il primo momento, che si sviluppa nella certezza sensibile di fronte al dato immediato: i dati dei sensi fanno apparire l’oggetto, ma le sensazioni sono instabili e mutevoli. Il secondo momento con la percezione, si focalizza sull’oggetto cercando di coordinare il molteplice delle sensazioni, e vediamo qui la funzione dell’attenzione. Ultimo momento è quello in cui entra in gioco l’intelletto dove la coscienza riconosce che la verità dell’oggetto è nelle leggi che lo categorizzano, e qui trova posto il giudizio. Il termine aggiunto, la rêverie, non poteva aver posto nel quadro hegeliano, perché non era ancora pensato, almeno nell’accezione che penso si possa dire Lacan gli attribuisce qui. C’erano, certo, Le rêveries d’un promeneur solitaire, dove Rousseau considera la rêverie come una piacevole perdita del senso di sé nella consapevolezza che il sé per immergersi nel tutto di cui il sé non è che una parte, ma non è questo il senso in cui possiamo considerare la rêverie nell’elenco presentato in Posizione dell’inconscio. Credo che dobbiamo prendere questo termine piuttosto in un senso postjoyceiano, nel senso dello stream of consciousness, quel flusso di coscienza che negli ultimi anni del suo insegnamento Lacan avrebbe chiamato “disabbonato all’inconscio”. Se nei fenomeni della coscienza Lacan riconosce le tre figure della dialettica hegeliana, capiamo subito perché consideri impossibile costituire la coscienza come oggetto della psicologia. Lacan considera infatti, come sopra ricordato, che la dialettica hegeliana non porti in realtà a nessuna sintesi, che l’Aufhebung non raccolga i fenomeni per superarli mantenendoli in un’unità superiore, ma ritrovi su un piano diverso una mancanza. I fenomeni della coscienza restano dispersi perché non c’è nessuna sintesi che la costituisca. La dialettica della coscienza si conclude, per Hegel, nell’autocoscienza, la cui figura più nota è quella della lotta tra servo e padrone, cioè due soggetti, perché l’autocoscienza non è più, come la coscienza, di fronte all’oggetto, ma di fronte a un’altra autocoscienza. Ogni singola autocoscienza si presenta allora come desiderio, appetito, che vuole ogni cosa, che vuole tutto, e che per questo si trova in una contesa immaginaria con l’altro, che vuole le stesse cose. Nell’autocoscienza, che nello sviluppo hegeliano raccoglie, unifica, e pone su un diverso piano i fenomeni della coscienza, Lacan vede quindi solo un fenomeno immaginario, e afferma infatti che la sola funzione omogenea della coscienza sta nella cattura immaginaria dell’io nel riflesso speculare. La rivalità e la tensione aggressiva che si crea con l’altro speculare è quindi il modo in cui Lacan reinterpreta la lotta di puro prestigio tra servo e padrone. La critica maggiore di Lacan alla psicologia si fonda su questa critica all’autocoscienza considerata come una funzione di sintesi. In un certo senso possiamo dire che la sintesi è la traduzione moderna dell’idea di homunculus, nel senso che questo termine ha acquisito dopo Cartesio e nel dibattito moderno, di omino che abbiamo nella testa e che guida tutti i processi cognitivi. L’origine del termine appartiene alla tradizione alchemica, ed è stato Paracelso ad affermare di aver creato, mescolando sostanze diverse in un alambicco, una miniatura di essere umano, di cui Frankenstein e il Golem sono i parenti letterari. Restando però nel campo della conoscenza, se non della scienza, il matematico e fisico olandese Nicolaas Hartsoeker ritenne, mentre osservava al microscopio dello sperma umano, di avervi scorto la minuscola figura di un uomo che chiamò, per l’appunto homunculus Il termine è esplicitamente menzionato da Lacan nel seminario XI, dove lo definisce come una caduta regressiva del pensiero che induce a prendere il cogito come homunculus, come un uomo nell’uomo che fa da sintesi tenendo le redini per coordinare le diverse funzioni del pensiero. Quello dell’homunculus è un argomento tradizionale che ha nutrito il dualismo semplificativo di una determinata tradizione della filosofia della mente e della psicologia. L’idea, espressa nel modo più semplice possibile, è che dobbiamo considerare un dualismo tra res cogitans e res extensa, e il corpo, in quanto materiale, appartiene alla res extensa, allora la res cogitans è l’omino nella testa che fa da cocchiere del corpo, guidandolo e dandogli, poiché il corpo è una mera macchina biologica, intenzione e volontà. Il primo ad affrontare criticamente questa forma di dualismo è stato Gilbert Ryle, il filosofo di Oxford, che ha ritenuto di dover smontare quel che ha chiamato il mito di Cartesio, battezzandolo con quello che è diventato il titolo di uno dei suoi libri più conosciuti: The Ghost in the Machine. Lacan non si riferisce direttamente a Ryle, ma alla tradizione che lui prende di mira, e che implica evidentemente un regresso all’infinito: l’homunculus che guida l’uomo, e che è fatto come lui, deve a sua volta aver dentro un homunculus, e così via. Il problema è particolarmente sensibile nella psicologia cognitiva, dove si considera che il cervello umano passi attraverso alcune regole per svolgere determinate operazioni, e queste regole sono spesso rappresentate come algoritmi di un programma di computer. L’esempio esplicativo più frequentato dai critici è il gioco degli scacchi. Ci sono delle regole, ma chi le applica? Evidentemente il giocatore di scacchi, giacché le regole di per sé sono inerti. Chi legge e rende operativo allora gli algoritmi del cervello? Ci sono altri algoritmi con altre regole, e quindi di nuovo si cade in un regresso all’infinito. Si pone dunque un’alternativa è dunque tra il regresso infinito e l’homunculus che dà un fondamento e arresta il regresso, ma che cade di nuovo nel regresso all’infinito se si considera che l’homunculus ha dentro di sé un homunculus, e così via. L’idea dell’homunculus non è oggi affatto svanita e ricompare, in modo artefatto, paradossalmente proprio tra gli oppositori del dualismo, dove qualche entità spuria prende il posto della res cogitans rifiutata. Ne abbiamo infatti versioni moderne espresse nel linguaggio delle neuroscienze. Joseph LeDoux, per esempio, tra i molti neuroscienziati critici del dualismo cartesiano, ha scritto un libro una decina di anni fa (2002) intitolato The Synaptic Self, dove sostiene che non c’è dualismo perché quel che chiamiamo Sé, o mente, è riconducibile al funzionamento delle connessioni sinaptiche. Il problema per la concezione materialistica della relazione mente-corpo è che essendo la mente un prodotto del cervello – questo è l’assioma di partenza, per quanto discutibile possa essere – si tratta di capire come il cervello renda possibile l’esistenza della mente. Il fatto che i meccanismi cerebrali sottesi all’esperienza conscia non siano stati ancora spiegati – secondo LeDoux – non significa affatto che rimarranno oscuri per sempre. Questo è l’assioma pigliatutto del progresso della scienza: quel che ancora non è spiegato in termini riduzionisti, presto lo sarà. L’idea di LeDoux è che il Sé sinaptico, come lo chiama, sia formato a partire da meccanismi biologici e preservato da connessioni sinaptiche, e il fatto che il Sé sia concepito con questo carattere materialistico non deve secondo lui sminuire quello che siamo. “ Fornisce invece una semplice plausibile spiegazione di come sia possibile il pacchetto di protoplasma psicospirituale e socio-culturale enormemente complesso che chiamiamo il nostro Sé”. Il problema però non è quello di sentirsi sminuiti dal materialismo, è che questo riduzionismo non fornisce nessuna spiegazione se non su basi dogmatiche. Per andare al di là della pura base assiomatica – la mente è un prodotto del cervello – dove l’assioma è in fondo la messa in forma una pura decisione, bisognerebbe andare alla radice di quel che è il desiderio dello scienziato. Diversamente dal desiderio dello psicoanalista, la cui presenza nello stile di conduzione clinica e anche nella teorizzazione è incancellabile, il desiderio dello scienziato nella formalizzazione scientifica viene necessariamente epurato. LeDoux è un caso interessante invece perché, in un’intervista, espone senza alcun mimetismo il desiderio da cui è partito il suo interesse scientifico. Suo padre era macellaio, e quando il bestiame veniva ucciso con la pistola, lui aveva il compito di estrarre la pallottola. Si domandava allora cosa succedesse nel cervello dell’animale quando la pallottola lo traversava, ed è stata questa domanda a mettere in movimento la sua curiosità e a spingerlo verso lo studio del cervello. Direi che questa testimonianza è preziosa, e ha un valore emblematico. La scienza deve arrestare la vita per studiarla, deve fermare il movimento per conoscerlo, ma cosa succede nell’attimo imprendibile in cui il movimento si ferma? Cosa succede mentre ti uccido? Nel linguaggio neurologico – ma anche psicoanalitico – anglosassone, il Self, il Sé è il vero erede dell’homunculus, e quanto sia difficile da sradicare quest’idea è dimostrato anche e soprattutto dai teorici che cercano delle formule concettuali per sfuggirvi. Uno dei tentativi più interessanti è quello di Edelman che si fonda sulla nozione di mappe, che sono una rete di neuroni corrispondente punto per punto a una rete di recettori, quali possono essere per esempio la superficie della pelle o la retina dell’occhio. Le varie mappe neuronali sono collegate tra loro e si scambiano continuamente informazioni. Edelman è un critico severo del cognitivismo, quindi le reti o mappe neuronali non sono algoritmi, ma meccanismi selettivi in senso darwiniano. Non consistono di insiemi fissi di neuroni ma di processi in continua ricategorizzazione, che ridefiniscono cioè incessantemente il sistema di etichettatura del mondo. Il cervello deve quindi produrre categorie percettive rispetto alle quali il mondo non è già precategorizzato, e dove non c’è un algoritmo, quindi un homunculus, all’interno per guidare il processo. Come si risolve allora il problema di coordinare la varietà disparata di informazioni che vengono dalle diverse mappe? Edelman ipotizza una sovrabbondanza di stimoli che attivano gruppi neuronali selezionati non solo in una mappa ma in più mappe al tempo stesso. Ogni mappa può usare la discriminazione eseguita da altre mappe. Si può così ottenere una rappresentazione unificata degli oggetti del mondo anche se le rappresentazioni sono distribuite in molteplici aree del cervello. Le mappe presenti nelle diverse aree sono occupate a segnalarsi reciprocamente attraverso sentieri di rientro, che è un sistema di segnalazione reciproca lungo le connessioni tra le aree. Questo porta a una possibilità di categorizzazione e semplice generalizzazione senza bisogno di un programma o di un homunculus. Edelman può dunque fare a meno dell’homunculus, e trova un sistema che ne supplisce le funzioni, giacché rimane comunque legato all’esigenza di una prospettiva unificatrice della coscienza. L’obiezione maggiore che si può però rivolgere a Edelman è che le mappe non sono mai neutrali, come mette in luce per esempio una storia del mondo attraverso le mappe fatta da Jerry Brotton, e come appare evidente quando si mettono a confronto la classica mappa di Mercatore con quella realizzata nel 1973 da Arno Peters. La realizzazione di una mappa presuppone un certo numero di scelte difficilmente riconducibili a meccanismi selettivi di tipo darwiniano, presuppone dunque la funzione soggettiva che invece Edelman vuole desumere dal funzionamento delle mappe. Lacan, come abbiamo visto, considera invece il carattere eterogeneo, sparpagliato, disperso della coscienza, e proprio per questo nega che la coscienza abbia le caratteristiche per costituirsi come oggetto possibile di una disciplina. L’unità della coscienza è necessaria perché possa essere oggettivata per l’osservazione scientifica, e l’impossibilità di determinare questa unità rende insostenibile, anche per le neuroscienze, prendere la coscienza come dato o come insieme di dati osservabili. Il fatto che la psicologia accantoni questa difficoltà per fare comunque della coscienza un oggetto di studio, secondo Lacan va messo in conto – e qui si esprime usando la terminologia hegeliana – alla legge del cuore e al delirio di presunzione. Queste riguardano, nella Fenomenologia dello spirito, la seconda figura della ragione, nel momento la ragione si accorge che per appropriarsi della realtà non può limitarsi a conoscerla, ma deve cercare di imprimere al corso delle cose la propria norma interiore. Si tratta quindi della ragione attiva, che dopo essersi resa conto che non può solo fare della realtà, in modo faustiano, semplicemente l’oggetto di un piacere inconsistente, che non porta a nulla, opera un rovesciamento per cui invece di occuparsi del proprio piacere si occupa del benessere degli altri e dell’umanità. Questa volontà di agire per il benessere degli altri è però solo un modo di affermare se stessi, e va verso il delirio di presunzione per sfociare nella figura della virtù, che vuol raddrizzare il corso del mondo, come Don Chisciotte, come Robespierre. Lacan, semplicemente, applica alla psicologia questo sviluppo dialettico, imputandogli la legge del cuore e il delirio di presunzione, cioè una determinata volontà di condizionamento. Negare l’inconsistenza della coscienza e scotomizzare l’inconscio porta a occuparsi della coscienza degli altri, costituita come oggetto di studio per fondarvi una disciplina. Occuparsi delle psiche degli altri si sviluppa come delirio di presunzione, ed è un compito che viene ricompensato e alimentato dagli onori e da riconoscimenti scientifici e accademici. La psiche diventa quindi semplicemente lo sponsor che permette alla psicologia di acquisire un riconoscimento accademico, e che non ha in realtà nessuna esistenza fattiva, perché la psicologia, assoldata per condizionare le coscienze, si occupa piuttosto d’ideali, si fa veicolo per la promozione di aspirazioni ortodosse. È questo che la porta a tradursi nella figura della virtù, con la spinta a rimettere a posto il mondo. Non lo fa però alla maniera di Robespierre o di Don Chisciotte, azionando la ghigliottina o mettendo la lancia in resta, ma accondiscendendo al mercato. Il riferimento che dà qui Lacan è il libro del 1963 La mistica della femminilità di Betty Friedman. Come mistica della femminilità la Friedman denuncia l’inganno, il progetto, non importa se deliberato o meno, di persuasione e condizionamento messo in atto per convincere che l’ideale di realizzazione femminile consiste nel dedicarsi esclusivamente alla maternità e alla vita casalinga, rinunciando a qualsiasi sogno che porti al conseguimento di una posizione sociale e professionale. La Friedman denuncia come responsabili di questo progetto i direttori di giornali, gli educatori, gli psicologi e i sociologi funzionalisti, giacché il funzionalismo presuppone uno stato di equilibrio sociale, un’identificazione tra ciò che è o ciò che deve essere, e impedisce così di fatto ogni cambiamento. Quel che colpisce Lacan è che anche una certa forma deteriorata. volgarizzata della psicoanalisi, sia stata arruolata nella promozione della mistica della femminilità. Gli effetti di questa campagna sono stati di far scendere l’età anche del matrimonio prima a vent’anni e poi a diciassette, diciotto anni, di ridurre la frequenza femminile ai college a percentuali molto inferiori a quella che si aveva negli anni Venti, di indurre nelle donne depressione, abuso di alcool e di psicofarmaci. L’esempio macroscopico che Lacan ha davanti agli occhi nel 1964, quando scrive Posizione dell’inconscio è questo che Betty Friedan illumina con grande chiarezza, ma cosa possiamo dire della psicologia contemporanea che si aggioga senza esitazione al carro delle neuroscienze? Gli ideali sostenuti adesso sono quelli di un riduzionismo integrale, di uno scientismo radicale, di un progresso che non ha più i valori d’emancipazione che aveva al tempo dell’illuminismo, ma diventa la scusa ideologica per l’immobilizzazione dei paradigmi. Il ruolo ideologico della psicologia oggi è meno evidente, perché procede dietro l’avamposto degli neuroscienziati, dei mass media, della burocrazia, dei mercati, ma non è meno presente e meno ne meno insistente nel dar man forte agli ideali più banali, come quello della soluzione rapida, come le dieci sedute in cui si risolve tutto, o come il del volontarismo new age del pensiero positivo. La psicologia contemporanea è completamente polarizzata tra lo scientismo cognitivista e il misticismo del pensiero positivo, e tende alla passivizzazione del soggetto, promettendo che la soluzione verrà da una nuova pillola o da una nuova tecnica, o verrà dall’accordo mistico della volontà positiva con l’armonia dell’universo. Quel che resta fuori è l’inconscio, il soggetto responsabile, l’atto, degradato a essere né più né meno che attivismo frenetico e vuoto.
0 Comments
Leave a Reply. |
Marco Focchi riceve in
viale Gran Sasso 28 20131 Milano. Tel. 022665651. Possibilità di colloqui in inglese, francese, spagnolo Archivi
Gennaio 2025
Categorie |