![]() Conferenza tenuta via Zoom per la comunità dell'Escuela lacaniana de psicoanalisis di Granada il 30 ottobre 2021 Marco Focchi Un testo come Radiophonie ci permette di misurare, credo, l'enorme voragine che segna la distanza del nostro tempo da quello degli anni Settanta, epoca in cui fu mandato in onda via radio il discorso di Lacan pubblicato poi in Sciliet, la rivista dell’Ecole freudienne, e successivamente incluso nella raccolta curata da Jacques-Alain Miller degli Altri scritti. Non riesco a immaginare nessuna radio che oggi accetterebbe di trasmettere un testo di tale complessità, neanche se presentato da una vedette culturale conosciuta, affermata e carismatica come era allora Lacan. Radiophonie è infatti un testo davvero difficile da districare anche solo nella lettura, e mi sembra impossibile concepire un ascoltatore, per quanto culturalmente ben attrezzato, in grado di decifrare, ponendosi semplicemente davanti alla radio, quel che in realtà era uno scritto destinato a una paziente e attenta lettura. La trasmissione, andata in onda nel giugno del 1970, era durata due ore e un quarto, e credo potesse calamitare l’attenzione solo se ci si lasciava ipnotizzare, senza pretesa di capire, dalla voce modulata di Lacan. Questo aspetto senz’altro non sfugge allo stesso Lacan, perché lo sottolinea con un’osservazione ironica all’inizio della sua prima risposta, dicendo che il modo in cui Freud può avere anticipato Saussure – questa è la domanda dell’intervistatore: come Freud possa aver anticipato Saussure – presuppone una mediazione diversa da quella in uso nella comunicazione di massa propria al mezzo su cui sta parlando, cioè la radio, e alla quale lui considera di non doversi adeguare. La critica alla comunicazione
Tutta la sua prima risposta è infatti una sottile, pungente critica alla comunicazione e, con questo, vuole essere anche una critica alla linguistica. Ciò appare in modo evidente quando, con chiaro sarcasmo, Lacan paragona la linguistica alla telepatia, il cui presupposto è che il pensiero si comunichi senza parole. È molto diversa la linguistica, suggerisce, quando rimane incollata all’idea che il pensiero si comunichi invece con la parola? In altri termini: con o senza parole, quel che rende simili la telepatia e la linguistica è che entrambe partono dal presupposto di una comunicazione del pensiero, ed è questo il problema. Il movimento principale che traversa la prima risposta porta quindi a distinguere nettamente la linguistica dalla psicoanalisi: la prima si occupa di comunicazione, la seconda no. Perché no? Perché la comunicazione implica un contenuto da trasmettere. Effetti/contenuti Non è questo il modo in cui il linguaggio funziona nella psicoanalisi, perché la rete del simbolico, secondo Lacan, più che veicolare dei contenuti produce degli effetti. Trasmettere contenuti e produrre effetti sono operazioni completamente diverse. Dobbiamo quindi considerare che nella prospettiva psicoanalitica il significato risulti come effetto dell’articolazione significante, che non sia qualcosa di dato e di preliminare di cui il significante si faccia portatore. Questo è un punto che ci permette anche di delineare la differenza tra il modo di funzionamento della scienza e quello della psicoanalisi: per la prima, infatti, ciò che essa esprime con il suo linguaggio matematico sono dei referenti oggettivi a cui le sue formule rimandano, referenti che le verificano o le falsificano. Si possono infatti creare mirabolanti costruzioni fatte di equazioni matematiche coerenti, come quelle che definiscono l’ipotesi degli universi paralleli, ma se questi sistemi di equazioni non hanno un riscontro sperimentale in qualche elemento fattuale, non possono essere presi in considerazione come fondatamente scientifiche. Le espressioni matematiche della scienza debbono veicolare un contenuto oggettivo. Non è così per la psicoanalisi: se il significato è un effetto, non è in posizione di verificare né di falsificare alcunché. Se è infatti il significante a produrne l’effetto e il significato non esiste indipendentemente dal significante, in un mondo pensato come preliminare, il significato non può essere preso come termine di confronto per asserire o negare la verità di un enunciato. Dall’ontologia alla mancanza Lacan sostiene che questo punto di vista implica un’esclusione metafisica, che intende come disessere. Cosa vuol dire? La metafisica è quella divisione del mondo tra sensibile e intellegibile determinatasi a partire da Platone. La domanda fondamentale della filosofia, a partire da Socrate è: “Che cos’è?” Che cos’è il bene? Che cos’è il coraggio? Che cos’è la giustizia? In ultima istanza, che cos’è l’ente? Se ci domandiamo che cos’è l’ente stiamo già presupponendo la differenza tra l’essere e l’ente. Se dobbiamo definire che l’ente è qualcosa è perché il suo essere è qualcosa di diverso dall’ente che ne fa segno. Ogni ente è segno che manifesta l’essere. Il dualismo inaugurato da Platone traversa tutto il pensiero occidentale, e abbiamo allora il sensibile e l’intellegibile, la natura e la cultura, il significante e il significato. Cosa vuol dire allora Lacan parlando di esclusione metafisica e di disessere? Vuol dire che il linguaggio, nella sua articolazione significante, non è la rivelazione dell’essere come significato, ma piuttosto della mancanza, e intorno a questa mancanza gira l’esperienza della psicoanalisi. A partire da qui non possiamo dare per scontato nulla di quel che il linguaggio esprime, perché se il linguaggio non è condizionato dall’essere non va da sé dire: “È giorno, allora fa chiaro”, perché, cosa intende dire chi dice che è giorno? In quale contesto parla? Un giorno della mia vita, per esempio, può essere buio e scuro come la pece perché sono oppresso dalla malinconia ed un giorno in cui non vedo nessuna chiarezza, nessuna luce. Il punto forte da tenere presente qui è: il linguaggio non è condizionato dall’essere. Questo significa: non cerchiamo la causa del dire al di fuori del linguaggio. Soggetto costituito/soggetto costituente Vediamo che nei termini in cui pone la questione Lacan sta già che sta preparando la formulazione del soggetto a partire dal modo in cui questo si articola come soggetto dell’inconscio. Per far posto al soggetto dell’inconscio occorre però passare attraverso una critica della semiotica, ovvero di qualsiasi disciplina che prenda il segno come proprio oggetto, giacché proprio in questa oggettivazione Lacan vede uno sbarramento alla possibilità di cogliere il significante in quanto tale. Cos’è allora il significante in quanto tale? Conosciamo la definizione: il significante è ciò che rappresenta un soggetto per un altro significante. In questa definizione il significane non è speso in nessuna funzione oggettivante, perché è costituente piuttosto del soggetto. Questo già fa apparire l’abissale distanza che separa la concezione semiotica del segno dalla nozione lacaniana di significante. Lacan riprende a questo proposito il confronto con la classica definizione del segno data da Peirce: il segno rappresenta qualcosa per qualcuno. La difficoltà sta proprio in questo “qualcuno”, che a differenza del soggetto, prodotto come effetto del significante, cioè come soggetto costituito, è invece un soggetto costituente, ovvero un soggetto che fa uso del linguaggio, che se ne appropria come di un utensile. Nel momento stesso in cui ci insediamo nell’idea di utilizzare il linguaggio, di ridurlo a mero mezzo, subito lo trasformiamo in astrazione, ne togliamo la concretezza, l’opacità, lo spessore, per farne lo strumento, supposto trasparente, di un dialogo. Anche sul “qualcosa”, sul fatto che il segno rappresenti qualcosa c’è da riflettere, perché l’idea si fonda sul presupposto fittizio di una presunta unità della cosa, che preesistendo, si tratterebbe di segnare. Dovremmo quindi considerare la cosa qualcosa di inerte e già costituito nell’unità che la identifica e che il segno semplicemente indicherebbe. Lacan rimanda qui alla teoria della Segnatura rerum di Jakob Böhme (1575-1624), e prima ancora di Paracelso (1493-1541), che presuppone una similitudine tra il segno e la cosa segnata. Nelle sue opere mediche per esempio Paracelso indica come l’eufrasia, che presenta una macchia a forma di occhio, riveli in questo la sua virtù di guarire le malattie della vista, o come il satyrion, con la sua forma fallica, mostri la capacità di restituire all’uomo la virilità perduta. Questa teoria, dice Lacan, aveva almeno il vantaggio di non attribuire al linguaggio la funzione di comunicazione. Proponendo poi il termine, o piuttosto il neologismo, de l’acosa – dove possiamo leggere nella lettera a che si salda alla cosa, sia l’alfa privativo, sia l’oggetto “a” che destruttura l’idea di una cosa precostituita – Lacan suggerisce l’idea che il linguaggio non presti semplicemente servizio per indicare un oggetto preesistente. Si tratta di vedere come l’articolazione del significante non si riduca a rimandare a referenti predefiniti o comunque come non sia questo l’aspetto interessante del linguaggio. Si tratta piuttosto di mostrare come i significanti operino uno svuotamento, inscrivano una mancanza, e producano un resto che è l’oggetto “a”, ovvero qualcosa di completamente diverso da un rimando referenziale. La presa di distanza dalla linguistica si basa dunque sul presupposto di un soggetto dell’inconscio costituito dal linguaggio – e non di un soggetto costituente, come il “qualcuno” di Peirce, o come il soggetto-fondamento a partire da Cartesio – e sulla produzione di una mancanza che mette in secondo piano il rimando referenziale. Il linguaggio è la condizione dell’inconscio È interessante vedere come, nella cornice concettuale di critica alla comunicazione sviluppata in Radiophonie, Lacan senta il bisogno di riprendere anche la critica rivolta già in Posizione dell’inconscio ai suoi allievi Laplanche e Leclaire per la relazione che avevano presentato nel 1960 al Congresso di Bonneval con il titolo L’inconscient: une étude psychanalytique. Laplanche e Leclaire sostenevano qui la tesi che l’inconscio è la condizione del linguaggio, cosa che Lacan considera come il rovescio di quanto lui insegna, cioè che il linguaggio è la condizione dell’inconscio. Si capisce bene in questo quadro perché, se analizziamo la tesi di Laplanche e Leclaire alla luce dei concetti presentati in Radiophonie, troviamo il presupposto di quel che Lacan ha chiamato un’esclusione metafisica. È chiaro che se consideriamo l’inconscio come condizione del linguaggio, partiamo dal presupposto di un’esperienza originaria, un vissuto arcaico precedente al linguaggio, dal quale quest’ultimo emerge tenendo sullo sfondo uno strato primario, primitivo, che fa da referente. Si tratta quindi, nella prospettiva di Laplanche e Leclaire, di un’oggettivazione dell’inconscio come trascendente il linguaggio, e si capisce bene come la visione di Lacan sia completamente l’opposto. Lacan infatti, nel seminario XI, formula chiaramente l’idea che lo statuto dell’inconscio non è ontologico, ma etico. Appare invece chiaro come la concezione di Laplanche e Leclaire conduca necessariamente a un’ontologizzazione dell’inconscio, a una apertura fenomenologica che procede dal preverbale. Avendo ristabilito il linguaggio come condizione dell’inconscio, nella prospettiva antifenomenologica che questo implica, Lacan si pone allora la questione degli effetti del linguaggio. Un effetto lo ha già dichiarato nelle prime battute della sua risposta: non si tratta di comunicazione attraverso la parola, ma di spostamento del discorso. Cosa significa spostamento del discorso? Lacan ha appena terminato il seminario su L'envers de la psychanalyse, dove mette a punto i quattro discorsi. Possiamo quindi considerare lo spostamento del discorso come la rotazione che trasforma per esempio il discorso isterico nel discorso analitico. Per assicurarsi degli effetti del linguaggio – dice infatti Lacan in apertura della seconda risposta – bisogna seguire la struttura, e direi che si tratta appunto di seguire la rotazione nella struttura dei discorsi. Conoscenza/sapere Il linguaggio tuttavia non è un’astrazione. Prende corpo in certe relazioni che – sostiene Lacan – fanno parte anche della realtà. Di nuovo qui occorre fare attenzione. Quando si parla di linguaggio e di realtà bisogna sempre badare a schivare la scivolata metafisica di supporre un qualcuno che si rappresenta la realtà, ricadendo nella versione che Lacan definisce idealistica di un linguaggio che rispecchia la realtà. Su questa lunghezza d’onda troviamo la conoscenza, e la critica di Lacan alla conoscenza procede dall’idea che, rispetto a essa, il linguaggio appaia superfluo. La conoscenza si produce piuttosto come adattamento all’esistente. Può esser l’io che si adatta alle norme sociali, ma può essere anche un processo che rimane permanente sul piano biologico, e riguardante l’adattamento di un organismo o di una specie al proprio ambiente. Per adattarvisi, un organismo deve avere in qualche modo una conoscenza dell’ambiente in cui vive, della realtà in cui si trova. È quel che Jakob von Uexküll chiamava l’Umwelt. Se la conoscenza riguarda la realtà, Lacan le contrappone il sapere, e sottolinea il confronto del sapere con la conoscenza, mettendo il sapere in risalto sullo sfondo della conoscenza. Il sapere diversamente dalla conoscenza, non è in una relazione di rispecchiamento con la realtà, ma funziona piuttosto tracciando, delineando i contorni del reale. Qui entra in gioco la differenza tra realtà e reale, che è fondamentale per Lacan. La realtà è quella in cui ci immaginiamo di vivere, è il nostro ambiente come l’Umwelt è quello dell’animale, e per questo il rapporto con la realtà è un rapporto di conoscenza. Il reale è qualcosa di diverso, e delinea il punto impossibile di questa immaginazione. Se c’è qualcosa di reale è perché non tutto è possibile, e cogliere questo punto d’impossibile, dice in un altro testo Lacan, è ciò che costituisce la vera definizione di salute mentale. Siamo nevrotici finché ci sentiamo impotenti a realizzare qualcosa a cui ci sembra di aspirare, e che renderebbe sferica, completa, a tutto tondo la nostra realtà. Quando, grazie all’analisi, ci rendiamo conto che non è la nostra insufficienza, non è la nostra incapacità a non permetterci di raggiungere ciò che fantastichiamo di voler conseguire, ma che questo obiettivo è semplicemente impossibile per struttura, cadiamo allora fuori dal mondo dei sogni, e abbiamo un effetto di risveglio, quel risveglio su cui spesso insiste Lacan. Il corpo La differenza tra realtà e reale permette di porre in luce un’altra questione centrale in questo testo: se l’animale fa corpo con la realtà in cui vive e coincide con il proprio corpo, l’essere parlante invece ha un corpo – non coincide con esso – e lo ha perché è il simbolico a isolarlo e ad assegnarglielo, al punto che – aggiunge Lacan – il corpo non ci sarebbe se non si potesse parlarne. Il linguaggio propriamente si incorpora nel corpo. Questo è un punto molto delicato su cui dà un chiarimento essenziale la lettura che Eric Laurent fa di Radiophonie nel numero 118 di Quarto. Laurent riprende in modo critico l’esempio proposto da Leclaire per far capire come il significante marchi il corpo. Leclaire si riferisce alla madre che carezza il corpo del bambino per farlo ridere, facendogli solletico. Con i segni tracciati della madre con il dito sul corpo del bambino, e con la scia di eccitazione che lasciano, si marcano le zone erogene. Questo modo di vedere – dice Laurent – non offre una prospettiva concreta di come vanno le cose secondo Lacan. Il significante segna il corpo, piuttosto, quando il corpo del bambino è traversato da una domanda impossibile rivolta alla madre, perché qui allora c’è un buco. Quel che nella domanda viene al posto di questo buco, assegna il corpo al bambino. Pensare nella prospettiva di Leclaire significa considerare che quel che segna il corpo attraverso il solletico viene come una sovrapposizione, in modo analogo a quello in cui si aggiunge qualcosa quando si lascia un segno d’inchiostro sul foglio. In realtà quel che segna, secondo Laurent, sono le azioni che il corpo non può compiere, dove incontra un ostacolo, come l’impossibilità di muovere un arto nella paralisi, o l’impossibilità di varcare certi limiti nella fobia, o quando il corpo, per così dire, s’inceppa, viene meno alle proprie funzioni, s’incaglia nel sintomo isterico o si perde nel labirinto dell’ossessivo. Può essere la violenza degli insulti dell’uomo dei topi, o l’astensione anoressica dal cibo intorno a cui gira la pulsione orale, o il rifiuto dove s’inserisce un “no”, una negatività in atto. Si tratta dell’azione apparentemente più banale, come quella di mangiare, a cui il soggetto risponde con un rifiuto che lo segna, che inscrive un “no” ed è a partire da questo che il corpo è assegnato. Si tratta in fondo di un modo di procedere a partire dallo svuotamento di godimento, non da un’aggiunta, uno svuotamento che fa del corpo l’Altro, fa del corpo un luogo d’inscrizione simbolica. L’effetto dell’iscrizione simbolica viene dallo svuotamento del corpo dal godimento, e lo segna come di solchi che formano le zone erogene. Non c’è fumo senza fuoco Nella logica così disegnata si vede come i segni sul corpo diventino segni di godimento, e in rapporto a questo Lacan fa sorgere una prospettiva causale quando riprende la questione del segno alla luce della definizione di Peirce. Ricordiamo che Peirce definisce il segno come qualcosa che sta per qualcuno al posto di qualcosa d’altro sotto qualche aspetto o capacità, e lo esemplifica con il fumo e con il fuoco: non c’è fumo senza fuoco. Lacan riprende questo esempio mettendosi sotto l’egida del “buddista”. E non dice di più. Ci lascia quindi con questo buddista che non sappiamo chi è né perché lo abbia tirato fuori e dove lo sia andato a pescare. Ebbene c’è una scuola di epistemologia e di logica buddista, nata tra il VI e il VII secolo d.C. che tratta dei rapporti causali tra le proprietà a partire proprio da questo esempio: non c’è fumo senza fuoco. In questa scuola spicca un certo Dharmakirti, allievo di un maestro di nome Dignaga, che argomenta sulle relazioni di compresenza o non compresenza tra fumo e fuoco, e che sostiene che qualunque cosa sia il fumo, per essere fumo deve derivare causalmente dal fuoco, altrimenti è solo qualcosa di simile al fumo. Se quindi un termitaio produce fumo, deve avere la proprietà causale del fuoco, cioè deve essere un termitaio in fiamme. Il fuoco indicato dal fumo può perciò unirsi a qualcos’altro, e se c’è fumo, comunque sia, da qualsiasi cosa provenga, ci deve essere fuoco. Dove vuol portarci Lacan con questo? L’obiettivo è, direi, di prendere questa prospettiva e rovesciarla, ovvero: ci sarà pur fuoco, ma se c’è fuoco c’è qualcuno che l’ha acceso. Lacan punta infatti a far ricadere il segno nel significante per dire che il qualcosa di cui il segno è segno è la divisione del soggetto e quindi, anziché essere il segno del fuoco, il fumo è piuttosto il segno del fumatore, e se Ulisse sbarca su un’isola e vede salire del fumo è perché questa isola non è disabitata, ovvero c’è da qualche parte un soggetto che struscia dei bastoncini per fare un fuoco. Il primo passo dunque nella lettura del segno come segno di qualcosa per qualcuno è introdurre il soggetto diviso. Ma chi è il qualcuno? A chi fa segno il segno? Deve essere innanzitutto qualcuno che sa leggere il segno, deve essere qualcuno con un’intelligenza, con un’intelligenza sempre vigile, che Lacan propone ironicamente come il Qualcuno Supremo, il Nous. Quando Lacan trasforma poi il non c’è fumo senza fuoco, in: non c’è preghiera senza Dio, capiamo dove vuole portarci: in fondo solo il paranoico si trova nella predisposizione di pensare che tutto faccia segno, che dietro ogni segno ci sia un’intenzione, e se Spinoza svuota Dio d’intenzione per eguagliarlo alla natura, Deus sive natura, il paranoico riempie la natura d’intenzioni per farne un Dio visibilmente onnipresente. L’orizzonte del paranoico, come per Schreber, è abitato da un Dio che vuole godere di lui, ma il punto è che per il paranoico la metafora paterna ha fallito nel dar luogo al significato fallico. Ma non c’è solo la psicosi, e quando Lacan aggiunge l’esempio del fumatore che incendia il bosco per farci intravedere il godimento fallico che sta dietro l’orinazione primitiva, cogliamo chiaramente il segno come indice di godimento. La chiusura è poi folgorante: è attraverso chi si appropria del plus-godere che bisogna riconoscere il qualcuno a cui il segno si rivolge. Il nevrotico, che sempre si sente defraudato del proprio godimento e imputa questo furto all’Altro – come nel marxismo viene imputato al Capitalista – corre dietro al proprio desiderio insoddisfatto accusando l’ingiustizia distributiva universale. Non è quindi tanto nel Motore Immobile, causa prima dell’universo, che bisogna cercare l’indirizzo del segno, ma nella causa del desiderio. Lacan insomma, in queste prime risposte di Radiophonie, torna sul tema dello svuotamento e del corpo nel quale il simbolico prende corpo. Anzi, più precisamente, del punto in cui il simbolico prende corpo nel corpo, che è evidentemente il significante fallico evocato dall’orinazione primitiva con cui l’uomo risponde al fuoco. Punto di capitone Definire così la presa del simbolico sul corpo, è molto diverso dal definirla come un ancoraggio, e quando Lacan riprende criticamente questo termine, si riferisce di nuovo a Laplanche, al modo in cui lui ha interpretato il punto di capitone. E come lo ha interpretato? Come l’ancoraggio che il linguaggio trova nell’inconscio. Vale a dire che Laplanche interpreta l’aggancio del linguaggio al corpo coerentemente con la sua concezione dell’inconscio come condizione del linguaggio. Se l’inconscio precede il linguaggio si pone evidentemente il problema di come il linguaggio vi si inserisca, e la risposta di Laplanche è: attraverso il punto di capitone. È chiaro che già nel suo primo insegnamento Lacan articola il punto di capitone come qualcosa di diverso, avendolo fondato sul grafo e sull’effetto retroattivo che si verifica dopo il punto di arresto della frase che realizza il senso. Il modo in cui Lacan riprende la questione in Radiophonie è interessante perché corrisponde anche alla critica rivolta a Leclaire su come il significante s’inscriva nel corpo. Dice infatti che non è che il significante si ancori nel solletico, perché piuttosto lo permette. Rovescia quindi la relazione stabilita da Leclaire secondo cui il solletico lascerebbe una traccia sul corpo, e dice come invece proprio perché il corpo è segnato – e abbiamo visto come, cioè attraverso la castrazione, attraverso il punto fallico, e attraverso tutti i modi in cui il corpo si arresta, s’inceppa – proprio perché il corpo è segnato può prodursi il solletico e, più in generale, il godimento. Tutto procede da una rottura, da un’interruzione, da un disturbo che Lacan chiama “effetto Saussure”, un effetto che produce una frattura. Lacan usa il termine disruption, che dà l’idea di una scarica elettrica e che, come esempio, richiama un po’ il carnevale geografico presentato in Lituraterre, con i dilavamenti nella pianura siberiana notati mentre la sorvola di ritorno dal Giappone. Si tratta dunque di una scarica che, a partire dal significante articolato, spezza il flusso continuo del significato. Il riferimento è allo schema a due curve di Saussure, che Lacan commenta in modo molto chiaro nel seminario sulla psicosi dicendo che: “A livello superiore Saussure situa la serie di quelli che chiama pensieri – senza la minima convinzione, dato che la sua teoria consiste precisamente nel riportare questo termine a quello di significato, in quanto distinto dal significante e dalla cosa – insistendo sul suo aspetto di massa amorfa. Per parte nostra la chiameremo provvisoriamente la massa sentimentale della corrente del discorso, massa confusa nella quale appaiono delle unità, degli isolotti, un immagine, un grido, un appello. È un continuo, mentre a livello inferiore, il significante è presente come una catena del discorso, successione di parole nella quale niente è isolabile” (p.297). In Radiophonie incontriamo sullo sfondo questo sviluppo quando, in modo molto sintetico, troviamo espressa l’idea che il dinamismo dell’inconscio è mosso dalla metafora e dalla metonimia, e che la condizione di questo dinamismo è la barra saussuriana definita qui come “un bordo reale, cioè da saltare, dal significante che flotta al significante che fluisce (p.412). Dopo la scarica elettrica Lacan ci dà qui un’altra immagine per illustrare questo dinamismo, ovvero il lavoro compiuto dalla metafora “che ottiene un effetto di senso da un significante che fa da pietra lanciata nella pozza del significato (p.412). L’operazione metaforica funziona elettivamente nella poesia, dove nella catena un significante manca ed è solo evocato, come nell’esempio più volte ripreso da Lacan tratto da Hugo: “Il suo covone non era né avaro né astioso”, che nel covone insieme nasconde e manifesta il pene eretto di Booz addormentato. Condensazione e spostamento A questo punto c’è un passaggio davvero considerevole che va a concludere la terza domanda. Per noi, abituati a identificare metafora e metonimia con quel che Freud ne L’interpretazione dei sogni definisce come condensazione e spostamento, è una svolta radicale, e ricordo che quando l’ho letto per la prima volta, molti anni fa, mi aveva spiazzato. In questo passaggio Lacan comincia dicendo per l’appunto che la condensazione è qualcosa di completamente diverso dalla metafora e produce un effetto totalmente differente. Perché? Qui, direi che malgrado il tono delle domande di Robert Georgin, il giornalista belga che lo intervista, tono che fa apparire il riferimento al primo insegnamento di Lacan, la risposta vira invece decisamente ai temi del suo ultimo insegnamento. Lacan dice infatti che la condensazione, partendo dalla rimozione, costituisce il ritorno dell’impossibile. Aggiunge poi che l’impossibile deve essere concepito come un limite, e che attraverso il simbolico, a partire da questo limite, si instaura la categoria del reale. È chiaro dunque che siamo su un piano completamente diverso da quello della metafora, perché nella metafora si tratta di due catene significanti, dove un significante salta da una catena all’altra, come nell’esempio di Booz. Qui invece abbiamo il simbolico in quanto tale che è preso nel suo insieme e spinto al proprio limite. Cosa possiamo concepire però come limite del simbolico? Non è certo un limite in senso estensivo, che circoscrive, segna un cerchio intorno al simbolico. In fondo, dal punto di vista estensivo il simbolico è potenzialmente infinito: possiamo sempre aggiungere una parola, un neologismo, un’invenzione. Piuttosto, l’impossibile come limite del simbolico è il paradosso, o meglio l’antinomia. Occorre passare attraverso la logica. L’antinomia si verifica quando entrambe le strade di un bivio sono impercorribili, come nella storia dell’insieme di tutti gli insiemi che non appartengono a se stessi, che se si appartiene è contraddittorio, se non si appartiene è incompleto. Il paradosso è l’esempio più esplicito di svuotamento d’immaginario del simbolico. Si parte pensando che basti nominare un ente perché esista, come appunto l’insieme di tutti gli insiemi definiti dall’appartenenza a se stessi, e si va a sbattere con l’impossibile dell’antinomia. L’esempio dato Lacan non è quello dell’antinomia, ma è un esempio che rende altrettanto bene l’idea dello svuotamento d’immaginario. Nel disegno della bandiera piegata dal vento si legge rêve d’or, mentre quando si distendono le pieghe la scritta che appare è révolution d’octobre. Lo scenario immaginario che dà senso alla vignetta scompare – dice Lacan – dietro la realtà tipografica della pagina su cui è impressa l’illustrazione. Il sogno della rivoluzione si sgonfia allora nel puro gioco delle lettere. Anche la metonimia viene ripresa nei termini dell’ultimo insegnamento, e articolata non come spostamento di senso, ma ma come spostamento di godimento. Lacan traduce infatti il termine freudiano Verschiebung, che si rende abitualmente come spostamento, come bonifico, dove l’idea è che il meccanismo inconscio fa un prelievo dalla riserva di godimento. L’esempio che lo illustra è preso dal bellissimo romanzo di Maupassant Bel-Ami. Il protagonista, Duroy, è a cena con un vecchio compagno, la moglie di questo e un amico. Vengono servite le ostriche di Ostenda "mignonnes et grasses, semblant à des petites oreilles enfermées en des coquillas, et fondant entre le palais et la langue ainsi qui des bonbons salés”. Lacan considera la metonimia, intesa come la intende lui, tra l’orecchio e le ostriche. Duroy sposta cioè il proprio godimento sull’orecchio della donna che seduce, ne fa l’agama preziosa. Con questo spostamento che “della conca fa mucosa”, Duroy paga lo scotto per diventare causa del desiderio di lei. Sia la metafora quindi, distinta dalla condensazione dove non si produce una sostituzione di significante per far presa sul senso, ma una presa sul reale attraverso l’impossibile, sia la metonimia, dove lo spostamento non è di senso ma di godimento, sono riformulate nei termini che stanno cominciando ad apparire nel nuovo orizzonte di Lacan, e questa direi è una chiave di lettura che traversa tutto questo scritto, e che le domande in un certo senso superate, del giornalista, permettono di esplicitare, lanciando Lacan in uno straordinario esercizio di stile concettuale che gli dà modo di riformulare in nuovi concetti i termini da lui precedentemente utilizzati.
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