Tavola rotonda tenutasi il 17 marzo 2017 presso la sede dell'Istituto freudiano, in occasione della presentazione del libro di Marco Focchi: Le parvenze e il corpo, Antigone editore. Hanno partecipato: Anna Barracco, Domenico Cosenza, Marco Focchi, Isabella Ramaioli Isabella Ramaioli. Benvenuti a questo incontro, che verte su un lavoro di discussione e di riflessione attorno al libro di Marco Focchi: Le parvenze e il corpo. Il lavoro che insieme discuteremo contiene più di un filo rosso che lo collega con i lavori precedenti di Marco Focchi. Anche in questo si trova infatti una cifra, un interesse particolare per alcune questioni, alcuni ambiti, alcune tematiche. Prima di dire una parola sui due lemmi che compongono il titolo, parvenze e corpo, ho pensato di presentarvi l’organizzazione del libro, la sua struttura. Già nella prefazione, dove Focchi traccia il perimetro entro cui dispiegherà il suo discorso, balzano agli occhi le fattezze, il tipo di scrittura, lo stampo, formale e sostanziale insieme, che lo caratterizzano: scrittura scorrevole, concetti ben dispiegati, esemplificazioni colte che pescano nel cinema, nell'arte, nella letteratura e anche nella storia: in effetti, un libro colto, caratteristica particolarmente apprezzabile, diversa da quella di molti saggi dove l’aspetto tecnico ha frequentemente la meglio sul dispiegarsi della lettura, e si fa leggere piacevolmente senza cedere niente del rigore scientifico della disciplina psicanalitica. Il libro è strutturato in quattro parti logicamente connesse: risulta, come subito detto nell'introduzione, da una serie di lezioni e di conferenze che Marco Focchi ha tenuto in giro per il mondo, qui presentate secondo una logica precisa, una logica che dà vita a un canovaccio più che esauriente sul tema trattato. Nella prima parte si discutono i concetti di parvenza e di corpo in un'analisi che prende il via dalla clinica contemporanea, dal posto e dalla funzione che il corpo oggi vi è venuto ad assumere. Nella seconda parte si parla di Psicoanalisi e società, un tema ricorrente nei lavori di Marco Focchi. Nella terza troviamo due scorci clinici che risultano da un confronto fra casi della letteratura psicanalitica celebri e particolarmente significativi anche per l'attualità. Penso al caso di Wagner, un caso di follia criminale verificatosi nel 1913. Nella quarta e ultima parte ritorna un ulteriore motivo che interessa in misura particolare Marco Focchi, Usi psicoanalitici della matematica, un suo campo di lavoro non così frequente tra gli psicoanalisti. Passo ora a dirvi poche parole sulle due nozioni messe a tema e che compongono il titolo. La prima è la parvenza, – semblant in francese – un lemma di antica tradizione filosofica. Focchi ne riferisce l’origine sin dalla Scolastica passando per Cartesio, Kant, Brentano, Schopenhauer (Il fenomeno è parvenza, dirà Schopenhauer, illusione, il velo di Maia).
Ma quel che ci importa qui vedere, ciò su cui Focchi fa vertere il suo lavoro, è come questo termine venga ripreso da Freud nel concetto di rappresentazione, in un'accezione diversa da quella della filosofia. La rappresentazione, nella sua accezione generale, è l'atto conoscitivo, sia nel senso dell'intuizione, sia in quello di concetto e di idea. È così fortemente correlato all'idea di conoscenza e all'idea di coscienza che quando Freud lo riprende nei termini della Vorstellung, di rappresentazione inconscia, ne dà una specificazione assai diversa: vale a dire che diventa in Freud un tipo di conoscenza, di sapere che non è a disposizione del soggetto. È una conoscenza, un sapere, ma il soggetto non ne dispone. La nozione di parvenza che Lacan tratta nel seminario XVIII, dal titolo un po' bizzarro Su un discorso che non sarebbe di parvenza è, nel libro di Focchi, e in generale, direi, da riferirsi alla rappresentazione di cui prima, ma per coglierne l'antitesi. Il termine parvenza infatti, diversamente dall'atto della rappresentazione non è – cito Focchi – un atto secondo, non viene in seconda battuta rispetto all'oggetto che rappresenta. Si stacca da questa dipendenza dall'oggetto o dalla cosa, da questa secondarietà, e non è assoggettato da un criterio di somiglianza né analogica né logica. La parvenza in Lacan diventa un nuovo concetto che coniuga insieme immaginario e simbolico. Diventa così, ed è questa la definizione che poi commenteranno i colleghi, un modo di far credere che c'è qualcosa dove non c'è. Secondo lemma, strettamente intrecciato al primo: è il tema del corpo, che prende una parte importante in questo lavoro perché indubbiamente la sua centralità nella clinica è provata sin dalle origini: in Freud con l’isteria: svenimenti, cecità e i diversi fenomeni del corpo, ma anche nella clinica contemporanea, come nelle anoressie, nelle bulimie, e in tutta la vasta gamma di fenomeni di corpo che troviamo nella psicosi, in particolare nella schizofrenia. Occorre fin da subito ricordare che l'uomo – ci dice Lacan – non è un corpo, ha un corpo e che l'unità del nostro corpo, dell’immagine del corpo, non è un dato di fatto. L'immagine del corpo cioè non è un a priori: è piuttosto una costruzione. Occorre qualcuno, la madre o chi si prende cura di noi, per darle a poco a poco consistenza, perché diventi il mio corpo. Per Lacan, il soggetto si appropria dell'immagine del corpo attraverso lo specchio: è la fase dello specchio. Che cos'è lo stadio dello specchio? È un modo di appropriazione dell'immagine del corpo da parte del soggetto attraverso l’immagine, e noi diciamo immaginario, infatti, quel che ne deriva. È un modo di appropriazione, diciamo, dallo specchio, dall'immagine speculare che risulta. È lo specchio, l'altro, il simile. A quale difetto, a quale problema assolve la costruzione dell'immagine del corpo, via immaginario, via specchio? Alla prematurazione caratteristica dell'essere umano, all'esperienza primaria del corpo in frammenti: alla nascita il bambino manca della percezione unitaria del corpo. La riceve solo attraverso l'immagine dell'altro che gli sta di fronte, l'adulto che si prende cura di lui e che gli rimanda un'immagine. L'unità gli viene dunque dall'esterno. Diciamo così, da una posizione che Marco Focchi ha chiamato trascendente, che lo trascende: da un'esteriorità, dall’immagine del corpo che ci viene attraverso lo specchio. La fase dello specchio risulta da questa esteriorità. Fino a qui, questa è l'immagine del corpo classica, tradizionale in Lacan. Focchi, però, in questo suo lavoro, dopo aver ripreso i termini di questa formulazione di Lacan sul come si costituisce un corpo e i suoi perché, reperisce, sempre a partire da Lacan, una nuova formulazione che supera o certo sposta la concezione precedente. Qual è la differenza fra la concezione del corpo come risultante della fase dello specchio e la successiva, quella appunto ripresa e discussa in questo lavoro? Marco Focchi ha scritto circa duecento pagine, io condenserò il concetto in poche frasi, e saranno i relatori successivi a riprenderlo. Se la prima formulazione è conosciuta come immagine allo specchio, la successiva va sotto il nome del corpo -scrittura, del corpo scrittura che mette in moto anche un diverso modo di operare nella clinica e che Focchi definisce una clinica geografica. Quindi già questo dà un'idea di come è qui supposto un diverso statuto del corpo qui in questione. Cito un passaggio a p. 35: "direi che la differenza sta nel fatto che nella versione dello stadio dello specchio, quella della captazione immaginaria, l'unità della percezione del corpo viene da una posizione trascendente, da un’esteriorità”. Con la scrittura, col corpo-scrittura, l'appropriazione del corpo avviene invece attraverso qualcosa di immanente al corpo stesso. Focchi riprende da un suo libro precedente dal suo lavoro “Il trucco per guarire” un’esperienza che Lacan ha fatto di ritorno dal suo viaggio in Giappone. Tornando in Francia, mentre l'aereo sorvolava la pianura siberiana è colpito da quelli che chiama ravinements, dilavamenti, come cavità che percorrono il terreno. Sono quei solchi che l'acqua lascia sul terreno quando scorre, comunque delle cavità. Potremmo prenderla –suggerisce Focchi – come una metafora geografica per parlare di quel che succede nel corpo; forse, più che una metafora, una sorta di lente di ingrandimento che fa apparire i segni, i solchi che il godimento, dunque la pulsione, lascia sui nostri corpi. Il nostro corpo porta infatti i segni dell'esperienza che ha attraversato. Questione, questa del corpo-scrittura, poi ripresa ed elaborata da Lacan anche lungo tutto il seminario XXIII, il seminario su Joyce. Anna Barracco Vi ringrazio e ringrazio tantissimo Marco Focchi di questo invito, che ho accettato senza pensarci. Quando ho letto il libro ho capito che impegno mi fossi presa, perché conosco già il lavoro di Marco anche attraverso il suo meraviglioso sito. Devo però dire che altri testi, come quello sul suo lavoro a scuola, risultano per me, che non sono una teorica, forse più abbordabili. Questo libro, a una prima lettura mi ha lasciato abbastanza in difficoltà. Mi sono detta: questo non è un libro sul corpo! Sono tanti saggi, pezzi staccati: mi è venuta in mente questa frase, questo aforisma, riportato anche nel libro. Il corpo dov'è? mi sono chiesta. Dopo ho fatto una seconda lettura, e ho ripensato anche all'immagine riprodotta in copertina e all'introduzione dove Marco parla di Velasquez. È un libro colto, è vero, e ciò non sorprende il lettore di Marco Focchi: la sua cultura è anche molto varia, spazia dall'arte, alla storia, alla matematica alla filosofia. In questa introduzione Marco parla in modo molto poetico di Velasquez e della sua straordinaria pittura, dicendo che la sua arte dipinge un mondo che si sta corrompendo, che sta crollando sotto il peso della propria decadenza. Come pittore di corte è obbligato a abitare in questo mondo e, per sopravvivere a questo impegno e renderlo accettabile, segue gli oggetti nella luce della sera, come se cercasse di dipingere l'aria, o comunque la luce che si deposita sugli oggetti, sui corpi. Il velo della luce però si fa tutt'uno, si incorpora nell'oggetto e rende le sue opere straordinarie. Velasquez rappresenta quello che c’è, ma nello stesso tempo, le sue immagini, come l'oro nell’Apollo nudo riprodotto sulla copertina del libro, rappresentano l'immagine fallica che vediamo, per esempio, anche nella Venere che esce dalle acque. È quindi lo sguardo stesso a farla sorgere. Credo che nell’introduzione Marco ci dia già una chiave: il corpo, in fondo, è il corpo vissuto. È un’aura, è qualcosa che riunisce, che fin da quando il bambino è molto piccolo viene dal tocco dalle dita della madre che disegna sul corpo come solchi, percorsi che ognuno deve in qualche modo reinterpretare. In un certo senso, questo libro parla di dove poi Marco Focchi è andato in questi anni, dove il suo desiderio l'ha portato, e comprende diverse conferenze: alcune si rivolgono a un pubblico colto, come quello di questa sera, e sono per me le più difficili, sono quelle che riguardano l'inconscio positivo, o la questione del cogito, e poi ci sono invece conferenze rivolte per esempio al pubblico degli assistenti sociali, dei volontari, dei familiari di pazienti psichiatrici, e hanno tutto un altro stile. A legare questi discorsi sono proprio la scrittura e l'interrogazione di fondo che li percorre. Credo che questa interrogazione si riporti alla questione del corpo, cioè all'ultima riflessione lacaniana, quella che ritorna al discorso dell'Uno, quella che supera, o anche non supera perché non la lascia andare completamente, la questione del Nome del Padre, dello specchio, e che in qualche modo ci obbliga tuttavia a ricollocarle, a ripensarle. Questo libro esplora in particolare l’ultimo insegnamento di Lacan, riguardo all'oggetto a, all'Uno, al corpo che gode, e che in quanto tale ci obbliga, come psicoanalisti, a uscire da una logica meramente storica. C’è per Focchi il discorso geografico di una clinica in estensione, c'è un discorso su cosa fare della storia del soggetto. Ogni soggetto nasce in un'epoca, in un luogo, e ha una storia. Focchi dice che situarsi nella storia, cercare di recuperarla, è una modalità nevrotica di stare, e cerca quindi un superamento. Come si comprende, come si attraversa il tema del superamento nel libro? Secondo me, a partire da almeno due lati: da una parte c’è il discorso della postmodernità, l'epoca dell'evaporazione del padre, dell'autorità, discorso che Focchi fa in alcuni passaggi, dove è molto interessante la ripresa di spunti dalla socialità, anche a partire dal quotidiano. Questa, viene detto, è una società nella quale – venendo a mancare i riferimenti all'autorità assoluta, alla tradizione, a percorsi in qualche modo precostituiti – si ricostruiscono due forme fondamentali di risposta a questo impossibile, a questa complessità, all'impossibilità strutturale per l'uomo di dominare l’ignoto. Queste due modalità sono da una parte la scienza, la certezza della scienza, che diventa delirante quando la scienza risponde all'aspettativa dell'uomo della strada di avere una risposta assoluta, una certezza prevedibile e protocollabile. Dall’altra c’è invece la burocrazia. Dove la scienza ancora non riesce a dare delle risposte, a calcolare con precisione, c'è la risposta protocollare, che è quella che poi ci viene richiesta nel nostro lavoro, nei casi della psicosi o nei casi di adottabilità, di affidamento di bambini, in tutti quei campi dove la scienza non ha una risposta. Queste sono le due modalità con cui oggi il discorso sociale tende a rispondere al declino dell’autorità. Entrambi questi modi potrebbero essere avvicinati alla questione psicotica, ma in fondo anche la nevrosi ora si presenta chiedendo un protocollo, dei metodi. Focchi offre l’esempio di un caso di nevrosi ossessiva, dove l’analizzante chiede un protocollo, un modo per corteggiare una donna, una tecnica precisa che gli consenta di avvicinarla evitando l’imprevedibile. Non so se qualcuno di voi ha visto un bellissimo film abbastanza recente, Io, Daniel Blake, dove si vede drammaticamente questo tentativo di rispondere in modo protocollare. Nel caso presentato nel libro, non così drammatico, ma che mi ha incuriosito e interrogato molto, c'è, a un certo punto, un sogno. L’analizzante sogna di trovarsi di notte in una radura con una donna che sembra disponibile, ma la macchina è lontana. I due si sono allontanati per una passeggiata. Lui ha rischiato, e purtroppo nella sua struttura ossessiva questo rischio era di per sé impossibile. Si trova così a non aver la macchina per fare l'amore. Cerca di tornare alla macchina. Qui, in fondo, Focchi fa un'interpretazione classica. Il paziente dice: la macchina, virgola, per fare l'amore. L’analista gli risponde, senza virgola: la macchina per fare l'amore. Gli rimanda l’eco di questa pretesa di avere un protocollo, una macchina, e per altro verso alienazione che ne scaturisce. Gli dice solo questo. Posso chiedermi – è una domanda che lascio lì – considerando la gestione clinica nella visione classica, cosa dica, cosa associ il paziente a questo sogno. Il discorso fatto in questo libro rimanda però a tutta una serie di altri esempi. Per esempio parla della Salute Mentale citando la dichiarazione dell'Organizzazione Mondiale della Sanità che dà una definizione ipertrofica di salute, una definizione persino angosciante: un perfetto stato di benessere fisico, psicologico e sociale: oggi molte risposte che vengono date, oltre che richieste, vanno in questa direzione. Focchi fa l'esempio del paziente psicotico che si fa innestare nel pene un complesso meccanismo per cercare di superare l'impotenza e, al primo colloquio – esattamente come nel film di Harold Ramis Terapia e pallottole – il paziente dice: “Se sono omosessuale, tu non me lo devi dire”. Afferma: “Tu non mi puoi dire che sono omosessuale”. Di fatto questo paziente psicotico sapeva già della sua condizione. Però, per l’appunto, il paziente che sogna la macchina è un caso di nevrosi ossessiva, ma anche in questo caso, che è di psicosi, dove la macchina si costruisce materialmente, si trova questa stessa risposta. Di fatto nel discorso sociale le posizioni della nevrosi e della psicosi si avvicinano moltissimo. Si tratta di fare sempre e comunque un’invenzione. Si tratta di capire la questione del Nome del Padre e quindi, per noi, la storia. Ma anche negli altri casi di psicosi citati, quello di Wittgenstein e quello di Wagner, il delirio, dove tiene – parliamo di delirio psicotico ma anche, a questo punto, di quello nevrotico – la soluzione dell’invenzione permette di non sfociare nel passaggio all'atto. Wittgenstein usa la sua filosofia, con tutti i suoi giochi del linguaggio, per tenere a bada ogni possibile equivoco. Giunge però a rifiutare il nome di famiglia, rifiuta tutti i suoi averi. Wittgenstein vive nell'impossibilità di accettare con il nome, anche il proprio desiderio. Riesce con una sorta di delirio filosofico a "starci dentro". Quel che io colgo è quindi un po' questo: si tratta, sia nel caso della psicosi sia nel caso della nevrosi, di fare un'invenzione. Quest’invenzione non è più necessariamente legata a una ricostruzione della storia del proprio rapporto con il padre, non è un significante paterno, non è un significante che richiama un altro significante, non è un discorso: il significante è già dentro il corpo, si inscrive già, e in qualche modo la nostra costruzione dice qualcosa che io invece vorrei chiedere all'autore. Perché io nella mia clinica devo dire che, nel caso per caso, credo che l'assunzione della propria storia, una dimensione anche orizzontale, non solo geografica, rimanga. Fatico infatti un po' su questo punto. Nella parte finale c’è uno straordinario capitolo sull'uso psicoanalitico della matematica, con l'infinito dei numeri pari e numeri dispari. Con una lettura puramente matematica vediamo che forse il Nome del Padre è impossibile da far rientrare: c'è un buco, c'è un buco strutturale, nel sapere simbolico. Dobbiamo comunque cercare noi una ricostruzione. La questione del corpo è qui, dove vediamo il corpo dello psicotico, ma viene da chiedere cosa ne è allora del corpo del nevrotico. Tu fai l'esempio del tatuaggio, della giovane che si taglia e riesce ad arginare il godimento masochista facendosi fare un tatuaggio nei punti dove tende a tagliarsi. Questa può essere la lettura di un trattamento, ed è anche il discorso dell’arte contemporanea, che riguarda la superficie del corpo. Ma è sufficiente? È un lavoro sufficiente per consentire di pacificarsi? Per me, in questi termini, rimane un delirio, qualche cosa di agghiacciante. Il tatuaggio rappresenta un progresso, ma perché? In che misura, se non vogliamo farne una questione di normalizzazione? Ecco questo è un passaggio su cui vorrei interrogare l’autore. Domenico Cosenza Mi riaggancio agli interventi fatti, e trovo anch'io nel testo di Marco Focchi alcuni punti di continuità che contrassegnano il suo stile: da un lato una scrittura in grado di trasmettere in modo chiaro tutto quello che l'autore vuole comunicare al lettore, e questo è veramente un tratto che contraddistingue da sempre lo stile di Marco Focchi. Marco rientra in quell'alveo di psicoanalisti lacaniani che pongono il loro stile di insegnamento all'insegna della trasmissione. Tengono a che il lettore possa capire, possa fare proprio quel che gli viene trasmesso. Questo non è scontato in ambito lacaniano, e sappiamo che Lacan seguiva una strada, un po' diversa. Da un certo momento in poi però, soprattutto direi con il lavoro di Jacques-Alain Miller, è sorta l'esigenza di permettere un orientamento ai lettori di Lacan che si addentravano nel meandro complicato della sua scrittura – soprattutto per quanto riguarda gli Scritti – in cui non si riusciva bene a trovare una bussola che permettesse, non dico di illuminare tutto quanto si incontra negli Scritti, perché è importante che uno ci sbatta anche un po' la testa da solo, ma quantomeno di trovare percorsi che permettano una navigazione un po' più praticabile. Questo è un primo aspetto che mi sembra fondamentale e che ritroviamo ampiamente anche in questo libro. Secondo aspetto che ci tengo a sottolineare – che nella scrittura di Marco Focchi fa parte anche dello stile di trasmissione – è il restituirci, nei suoi libri, tendenzialmente un insegnamento in movimento. Anche questo lavoro restituisce dei momenti dell'attività di Marco Focchi come docente: in questo senso ha qualcosa di molto vicino a quello che Lacan ha sempre fatto. Lacan non ha mai fatto un libro, ha testimoniato di un insegnamento in corso, attraverso conferenze, attraverso articoli, attraverso occasioni di lavoro e ha raccolto fondamentalmente tutto questo, restituendoci in atto la dinamica di un insegnamento. In terzo luogo ci tengo a mettere in luce la cosa che più mi ha colpito del libro, cioè una tensione di fondo che mi sembra sia stata sottolineata anche da Isabella Ramaioli e da Anna Barracco: due poli concettuali che disegnano un campo dell'insegnamento di Lacan, soprattutto a partire da un certo momento del suo sviluppo. L'arco che più interessa il percorso fatto da Marco parte dal seminario XVIII, Di un discorso che non sarebbe del sembiante. Marco ha la particolarità di dare una sua traduzione del termine francese semblant, diversa da quella che viene di solito utilizzata che riproduce letteralmente il termine semblant con sembiante. Marco introduce il termine “parvenza” che in italiano effettivamente calza in modo forse più naturale rispetto al funzionamento della lingua. “Sembiante” è un po' più artificiale, un calco del francese, “parvenza” è una modalità più appropriata della lingua italiana di tradurre semblant. Direi che l'arco che interessa il discorso di Marco Focchi è quello che va da questo seminario, della fine degli anni '60, primissimi anni '70, fino alla fine dell'insegnamento di Lacan, quanto meno fino al suo seminario XXIII, dedicato a Joyce, il seminario Il sinthomo. Potremmo dire che, in questo arco temporale, Marco Focchi si impegna a scandagliare gli aspetti fondamentali dell'ultimo insegnamento di Lacan, attualizzati con quelle che sono le problematiche cliniche e sociali principali della contemporaneità. Qui sta l'ampiezza dell'operazione che cerca di fare. C’è una polarità che attraversa il lavoro di Marco e che si articola su due termini: un polo è sicuramente questo di questa nozione di parvenza, di semblant, che è un termine molto particolare. In verità, Lacan la utilizzerà molto in un preciso periodo del suo insegnamento, per due o tre seminari, quello in cui viene introdotta questa nozione e un paio di seminari successivi. Di fatto però, anche se non la riutilizza continuamente, è qualcosa che passa nel discorso di Lacan. Questa almeno è la sensazione che ho avuto personalmente nella mia lettura e che ritrovo nel testo di Marco. Quando e come dobbiamo intendere questa nozione? Giocando la questione della parvenza in contrapposizione alla rappresentazione. Sono due termini che rinviano in fondo a due modi diversi di intendere l'inconscio. Primo modo di intendere l'inconscio, molto legato alla nozione di Vorstellung, di rappresentazione, è un inconscio pensato in fondo come lo pensava Freud, come centrato sulla dimensione del senso inconscio rimosso, l'inconscio come macchina semantica inconscia, rispetto alla quale il compito della psicoanalisi sarebbe di riuscire a fare emergere il senso latente dalle formazioni sintomatiche portate dai pazienti che vanno a incontrare lo psicoanalista sottoponendogli le difficoltà e i guai prodotti nella vita dai sintomi che ostacolano la realizzazione del desiderio. Letto in questa chiave, l'inconscio è una dimensione semantica fondamentale dell'esperienza, e la psicoanalisi è un'ermeneutica del senso inconscio. La nozione di parvenza introduce qualcosa di molto diverso, perché è come se, quando usiamo la parvenza, avessimo a che fare con una rappresentazione svuotata di senso. Diceva bene Isabella Ramaioli nella sua introduzione facendo riferimento al fatto che, quando siamo a livello della parvenza, viene a cadere la distinzione tra l'immaginario e il simbolico. Introducendo la parvenza Lacan gioca fondamentalmente la partita dell'inconscio su due polarità: la polarità del reale, che prende progressivamente sempre più posto nel suo insegnamento, e tutto ciò che non è reale. La parvenza assorbe tutto ciò che non è reale:, sia quindi la rappresentazione immaginaria, sia la rappresentazione simbolica. Abbiamo la parvenza e l'irrapresentabile come i due poli fondamentali che entrano in gioco in questa nuova dimensione dell’inconscio, un inconscio che non è più riserva di senso, che ci mette in contatto con un reale fuori senso che si presenta, però, in una modalità strutturata. Ma la strutturazione di questo reale è più dell'ordine della scrittura che della parola. Così leggerei i riferimenti che anche Marco fa nel suo modo di concettualizzare la dimensione del corpo nell'insegnamento avanzato di Lacan. Siamo abituati a pensare un corpo-parola, fondamentalmente, un corpo che si costruisce tra l'immagine e la parola, come nello stadio dello specchio, in cui abbiamo sì la castrazione immaginaria, che permette al bambino di riconoscersi allo specchio. Abbiamo però anche, e sempre più in Lacan quando ci parla dello stadio dello specchio, la posizione dell'Altro che fa da indice al bambino di quella che è la sua immagine. Abbiamo quindi la funzione dell'altro simbolico come condizione della captazione immaginaria, dell'identificazione del bambino con la propria immagine unitaria. Abbiamo così la dimensione del corpo, che si gioca tra immagine e parola, e poi abbiamo un'altra dimensione del corpo che prende forma sempre più nell'insegnamento avanzato di Lacan, e che è il corpo in quanto scrittura, un corpo in quanto lettera senza senso, intorno a cui però si costruisce il funzionamento libidico del soggetto. Questo passaggio mi sembra fondamentale: è il passaggio dalla dimensione in qualche modo semantica del corpo-parola, del corpo-immagine-parola, al corpo-scrittura che non è più riconducibile a una semantica, ma è piuttosto riconducibile a una letteralità. Letteralità che, però, nella dimensione clinica, è qualcosa di molto concreto, è cioè il modo in cui, nell'esperienza di un soggetto, si inscrive fin dall’infanzia l'esperienza dell'eccitazione libidica, con le particolarità di questa scrittura. Marco fa riferimento anche a questo: quando parla del corpo-scrittura, fa riferimento al dito della madre che segna il corpo del bambino. Lacan ne parla in fondo già in alcuni seminari classici: per esempio nel seminario VII sull'Etica della psicoanalisi, usa proprio l'espressione di “linee di piacere”. In fondo, quando si costituisce il corpo del bambino, – questo corpo che si struttura su una perdita dell'oggetto fondamentale – quel che Lacan chiama la Cosa, das Ding, si costituisce però attorno a delle linee di piacere formate dai punti in cui il contatto con l’Altro ha lasciato sul corpo del bambino dei segni che diventano dei solchi libidici. Non hanno senso, questi solchi libidici, ma hanno lasciato una traccia, come quei solchi che Lacan, tornando dal suo viaggio dal Giappone, vedeva quando osservava la pianura siberiana e tutti i suoi affossamenti. Direi allora che questo mi sembra veramente il punto di una torsione nell'insegnamento di Lacan nel modo di leggere l'inconscio, e anche nel modo di pensare e esercitare la pratica clinica. Mi sembra effettivamente il punto fondamentale. Mi sembra che il lavoro di Marco sia molto in sintonia con quel che veniva sottolineato qualche anno fa da Miller, quando presentando il Convegno dell'Associazione Mondiale in Brasile l'anno scorso. Miller diceva che in fondo il vero passaggio compiuto a un certo punto da Lacan è dalla centralità dell'inconscio alla centralità del parlessere, e sottolineava come questo passaggio sia ancora da pensare, sia ancora davanti a noi e non ne abbiamo ancora tratto le conseguenze. È interessante poi che Miller dica che questa clinica noi di fatto già la pratichiamo, ma non sappiamo bene che cosa stiamo facendo. Già siamo in questa clinica, ma ancora non abbiamo trovato bene le parole per poterla nominare, e siamo impegnati in questa impresa. Anche il libro di Marco Focchi è ingaggiato in questa impresa, provando a dire quel che è già in atto, quello che è già in corso. Anche i riferimenti a cui si faceva cenno prima sulla questione del rapporto psicosi-nevrosi nella clinica dell'insegnamento avanzato di Lacan toccano quindi un punto effettivo. Nella misura in cui mettiamo al centro non più l'inconscio-parola ma l'inconscio-scrittura, diciamo che il discontinuismo tra le strutture cliniche si riduce, perché sia il nevrotico sia lo psicotico si costruiscono fondamentalmente a partire dall’inconscio-scrittura. In un caso certamente questo inconscio-scrittura non trova nel Nome del Padre un punto di ancoraggio. Bisogna però dire che è lì che dobbiamo poi andare a puntare nel lavoro clinico, dove qualcosa del rapporto del soggetto con la lingua va al di là del piano della comunicazione del senso e tocca il delirio singolare di ciascuno, per così dire. Certo nel nevrotico il delirio ha un'accezione diversa da come lo si possa assumere nella psicosi. Abbiamo però sempre a che fare con un funzionamento del rapporto con la parola in una direzione al di là del senso. In fondo, nelle analisi stiamo in quella dimensione: una volta setacciato tutto il processo delle identificazioni che hanno costituito la vita di un soggetto, dove puntiamo se non ad andare a isolare le linee di piacere a cui il soggetto è rimasto in qualche modo inchiodato? Linee di piacere che diventano però anche linee di tormento, per certi aspetti, che sono quelle che portano un soggetto ad andare da un'analista. Direi quindi che la cosa fondamentale in gioco è proprio l’operazione di torsione attorno all'inconscio-scrittura e tutte le sue conseguenze, nei vari ambiti del discorso affrontato da Marco all'interno del suo libro. Marco Focchi Grazie della lettura che avete fatto, che ci porta al centro dei temi incandescenti nel dibattito di questi anni, e del modo in cui affrontiamo la clinica a partire dalla lettura che man mano stiamo facendo di Lacan. Lacan è una miniera che non è esaurita, e che ci farà lavorare ancora per ancora molti e molti anni. Attraversare l'ultimo insegnamento porta effettivamente a svolte, a virate estremamente significative, che hanno precise ricadute sulla nostra pratica clinica. Non so se sarò in grado di rispondere a tutte le domande che avete messo sul tappeto, ma provo a riprendere un po' il filo delle questioni che mi hanno condotto nel lavoro di questo libro. Partendo dai due lemmi, come li ha chiamati Isabella Ramaioli, le parvenze e il corpo, direi che questi due termini costituiscono una diade all'interno della quale passa una linea di frattura, una discordanza, una discrepanza interna al discorso analitico in quanto tale. È una discordanza che non si tratta di riconciliare, è una fenditura che non possiamo e non dobbiamo, secondo me, saldare. Si tratta piuttosto di prenderne le misure, e il primo, in fondo, ad aver messo in risalto questa polarità interna al discorso psicoanalitico è stato un filosofo. È stato Paul Ricoeur, in un libro dell'inizio degli anni Sessanta, che ha studiato il testo di Freud come fosse quello di un filosofo, ponendolo sulla linea di lettura dei filosofi, e ha messo in risalto quella che ha chiamato una divisione di temi tra l'aspetto ermeneutico e l'aspetto energetico. In effetti sono queste due polarità antitetiche interne al discorso di Freud che interrogano la nostra pratica, che ci hanno dato da lavorare in questi anni nel Campo freudiano e che sono state un punto di riflessione fondamentale. Certamente non abbiamo usato gli stessi termini di Ricoeur, non abbiamo parlato di energetica e di ermeneutica, ma abbiamo parlato di campo del simbolico e di campo del reale, e di come funziona che, lavorando con le parole, abbiamo un'incidenza sul corpo. Questo è il problema di fondo. Quando i due poli del simbolico e del reale vengono disgiunti, si producono dei blocchi, si producono delle impasse cliniche, e lo vediamo nell'esperienza storica della psicoanalisi. Per esempio la Psicologia dell'Io ha privilegiato l'aspetto reale, perché si è incentrata sulla Metapsicologia. Ha cercato di darsi uno statuto scientifico, e la scienza è quella che si occupa del reale, che ha effetti nel reale. La Psicologia dell’Io ha quindi dato all'interpretazione uno statuto di spiegazione. Si tratta però di una spiegazione dall'esterno. Lacan dice che l'inconscio si apre dall'interno, facendolo risuonare dall’interno. La spiegazione, nella Psicologia dell’Io, cerca invece di aprirlo dall’esterno, e spesso risulta quindi una forzatura. Questo ha portato a uno stallo nella clinica, e a un rigetto da parte della prima generazione di allievi della Psicologia dell’Io, che si sono allontanati dall'orientamento dato dai loro maestri, e hanno preso una direzione diversa, quella della narratologia. I narratologi sono tutti allievi degli Psicologi dell'Io che hanno considerato la Metapsicologia inutile ai fini della clinica, e hanno privilegiato il lato narrazione, il lato simbolico, il lato interpretazione semantica., Da una parte vediamo quindi che la Metapsicologia va in crisi sul piano della clinica perché lascia da parte l'aspetto più simbolico, quello che è stato più ripreso dal Lacan degli anni Cinquanta. I narratologi valorizzano invece l'aspetto narrativo, l'aspetto del senso, l'aspetto di ricostruzione della storia, e la loro proposta è di dare una diversa versione della storia del paziente. Quella del paziente è una storia di sofferenze, è vero, ma il loro intervento consiste nel rileggerla da un altro lato, nel ricostruirla in un modo che sia più vivibile, più abitabile per il paziente. Questo modo di lavorare ricade in una sorta di illusionismo, che genera un'altra impasse clinica, diversa e opposta rispetto a quella degli Psicologi dell’Io. Quando i due elementi della diade simbolico-reale si separano si verifica una caduta sul piano della clinica. Il problema è allora come far funzionare insieme i due poli, e farli funzionare insieme è stato, nei nostri termini, nei termini presi da Lacan, il problema su cui abbiamo lavorato e su cui si sono incentrati molti seminari di Miller, in particolare negli anni Novanta. Ora, effettivamente, la tematica della rappresentazione che avete tutti un po' ripreso, è centrale in questo. Ricoeur non propone delle vie d’uscita, ma non è suo compito farlo, lui è un filosofo, fa una lettura filosofica, ha messo in risalto la duplicità di rappresentazione e reale, che lui chiama ermeneutica ed energetica, ed è interessante per noi vedere questa duplicità. Finché però restiamo nell'ambito della rappresentazione, credo, questi due poli si avvitano in un circolo vizioso, senza una vera via d’uscita sul piano clinico. La rappresentazione è d’altra parte un concetto freudiano a pieno titolo, è un concetto che Freud riprende dalla filosofia, riprende da Bolzano, che è stato suo maestro, e che costituisce un'asse centrale del suo lavoro. L' interpretazione dei sogni si costruisce interamente intorno alla nozione di rappresentazione. Nei sogni si tratta di rappresentazioni che si spostano, che si condensano. Spostamento e condensazione sono i due assi che poi Lacan rileggerà in chiave di metafora e di metonimia ma, nel testo freudiano, sono appunto rappresentazioni che si muovono. La rappresentazione ha certo un gravame filosofico su di sé, perché la rappresentazione è rappresentazione di qualche cosa: la rappresentazione si costituisce in relazione a un oggetto e rappresenta un oggetto che è assente. È, in fondo, una copia, è il depotenziamento della presenza dell’oggetto, e lo raggiunge attraverso il senso. Qui c’è questo cortocircuito che Domenico Cosenza ha messo bene in risalto: finché parliamo, finché restiamo all'interno di un campo dell'inconscio che si definisce attraverso le rappresentazioni, tutto si cortocircuita sempre all'interno di qualcosa che funziona solo attraverso il senso. In questi termini prende quindi valore, secondo me, la contrapposizione tra la rappresentazione e la parvenza. La parvenza è qualcosa di diverso dalla rappresentazione. Se la rappresentazione rimanda a un oggetto, la parvenza non funziona nello stesso modo. Lacan sottolinea come questa nozione per lui non indichi necessariamente un artificio, ma sia ripresa dal campo naturale, dalla natura. L'arcobaleno è un fenomeno naturale, che Lacan porta però come esempio della parvenza. L'aurora boreale è un fenomeno di luci che variano nel cielo, e a sua volta è un fenomeno di parvenza Qual è la differenza tra parvenza e rappresentazione? Se la rappresentazione rimanda a un oggetto, l'arcobaleno non rappresenta niente, non si riferisce a nessun oggetto. Ammiriamo l'aurora boreale nella sua bellezza, ma questa non rimanda a null’altro, e questo mi sembra l’aspetto interessante. La definizione della parvenza cui dà poi consistenza Miller quando la riprende nel suo corso sulla natura delle parvenze del 1991-1992, è per l’appunto che la prima nozione di parvenza è il velo, cioè qualcosa che nasconde il nulla. Se la rappresentazione rimanda a un oggetto, la parvenza non rimanda a nulla, è il velo sopra il nulla, ed è proprio il fatto di velarlo a far esistere il nulla. Questo per noi diventa interessante, perché è attraverso tale operazione che mettiamo in campo la centralità della mancanza, di un buco, che è ciò attorno a cui gira il discorso analitico. I riferimenti ai fenomeni naturali in Lacan sono molteplici. Ci sono gli esempi che vi ho fatto dell’arcobaleno e dell’aurora boreale, ma spesso Lacan attinge anche dall'etologia. Studia, per esempio, come nel mimetismo animale si produca una sorta di schisi dell’essere tra quello che è l'essere dell'animale e il modo in cui si offre allo sguardo. Oppure considera come nei comportamenti di accoppiamento o di lotta l'animale metta di fronte di fronte all’avversario la tigre di carta, o di fronte al partner del corteggiamento l'abito di gala. Lo spinarello, per esempio, il pesce che fa una danza con un movimento a zig zag che gli etologi hanno particolarmente studiato, nel comportamento di corteggiamento accende di rosso la propria livrea. Il rospo si gonfia, il pavone fa la ruota. Abbiamo quindi forme di schisi, come le chiama Lacan, fra ciò che l'essere è, l’animale in questo caso, e ciò attraverso cui l’essere si offre allo sguardo. Questo è interessante per noi, ed è un tema che Lacan riprende nel campo delle cose umane. L'esempio dello specchio, che Isabella Ramaioli e Domenico Cosenza hanno ripreso, è elettivamente, in fondo, il primo utilizzo della nozione di parvenza in Lacan: il bambino riceve la propria immagine dall'Altro, dallo specchio che gliela rimanda, con uno slancio di entusiasmo. Nei suoi commenti Miller ha particolarmente valorizzato questo slancio di entusiasmo interpretandolo come una prima forma, una prima manifestazione del godimento intercettato dall’immagine. Ci riferiamo alla fase in cui, per Lacan il godimento, gli aspetti libidici, sono capitati dall’immaginario. L’immaginario è inizialmente il recettore della componente libidica. C'è quindi in Lacan, all'inizio, nell'immaginario presimbolico, una captazione, un assorbimento degli elementi libidici. Qual è però la differenza tra il mondo animale e il mondo umano? Che l'animale si rivolge al visibile, e l'umano si rivolge a quel che nell'immaginario è l'aspetto invisibile, a quel che è al di là del visibile. Per intenderci, il voyeur, per esempio, non cerca ciò che è mostrato, cerca l'impercepibile pene materno, il fallo materno, cerca ciò che non è nell'immagine, ciò che l'immagine può fare intuire. La pornografia per esempio, quella più raffinata, non è l'esibizione dell'osceno, ma quel gioco di sfumature che fanno percepire l'impercepibile. Ciò significa che nel momento quindi in cui nell’umano, oltre all'immaginario che è già in funzione nell'animale, entra in gioco il fattore simbolico, l'immaginario risulta lacerato, si verifica uno strappo nell'immaginario umano. Questo ci porta allora al corpo nel senso in cui ne hanno parlato gli altri relatori, che non è il corpo immaginario, ma è il corpo libidico, il corpo delle zone erogene, il corpo, appunto, della scrittura, il corpo-scrittura. Direi che qui c'è un importante differenza in una clinica che mette in gioco il corpo, e lo sperimentiamo soprattutto quando, per le esigenze della mobilità contemporanea, siamo costretti a volte a fare sedute telefoniche o via Skype. Le persone sono infatti oggi in Italia e domani per un mese in America, e per non interrompere la continuità del lavoro si rende necessario utilizzare questi collegamenti, che peraltro l'Ordine degli psicologi ha approvato. Sentiamo però chiaramente la differenza tra una seduta in presenza, con la presenza del corpo, e una seduta dove invece entrano in gioco solo le parole., Al telefono, o via Skype, c'è comunque la voce, che è un elemento pulsionale. Ci sono però per esempio siti americani che offrono un servizio psicoterapeutico 24 ore per 7 giorni su 7 dove l'utente, il paziente – ma in questo caso è più appropriato dire l’utente – si prenota, si abbona e ottiene l’accesso a una stanza virtuale condivisa con lo psicoterapeuta che si occuperà di lui, dove può mandare quando vuole, in qualsiasi ora del giorno della notte, i propri messaggi o le proprie richieste alle quali lo psicoterapeuta può rispondere quando entra a sua volta nella stanza. Qui siamo veramente all'estrema rarefazione, qui non solo non c'è il corpo, ma non c'è neanche la voce come ultimo aggancio pulsionale. C’è solo la scrittura, che però non è la scrittura primaria di cui il corpo è palinsesto – quello di cui parlava Domenico Cosenza – ma è la scrittura secondaria, la scrittura come riproduzione della parola. È qualcosa quindi che, per quanto qualificati siano gli psicoterapeuti che operano in questo settore, è difficile immaginare come molto diverso dai consigli forniti nelle rubriche di corrispondenza dei giornali. Qualcosa che passa soltanto attraverso la scrittura secondaria è qualcosa che può passare soltanto attraverso il circuito del senso, perché soltanto con la presenza del corpo – che se è palinsesto della scrittura primaria, non è però un palinsesto inerte – c’è qualcosa che rappresenta una forza. Proprio con la presenza della forza del corpo e con la forza che mette in campo capiamo il gioco d’interazione tra la dimensione dei rapporti di senso – il piano dell’interpretazione – e la dimensione dei rapporti di forza – piano pulsionale. La pulsione è una forza che passa attraverso la presenza del corpo perché è col corpo che diamo forza, intensità, che diamo promulgatività alla parola proferita, alle parole che trasmettiamo, le quali non sono solo senso, e che dal senso devono farsi precipitato nel corpo. Questo ci fa vedere come, in questa chiave di lettura, le parvenze siano uno strumento di modulazione del godimento. Solo così vediamo l'intreccio, l'interazione, l'intersezione, l'articolazione tra le due polarità che nella lettura filosofica di Ricoeur restano separate, ma che nella pratica clinica noi possiamo vedere interagire. La parola prende forza dalla presenza del corpo, dall'intensità che il corpo trasmette, e così si fa precipitato, scrittura sul corpo, qualcosa che incide, che fa evento nello stesso modo in cui Lacan, in un passo che mi ha sempre colpito del seminario Ou pire… dice che il genitore è traumatico perché dà luogo a un evento che segna un punto nel corpo. Qui in fondo c’è l'articolazione tra la dimensione della storia e la clinica geografica, perché nel momento traumatico c’è qualcosa che riguarda l'evento, che si situa sull’asse temporale di un determinato momento storico – potremmo dire il trauma è un momento nella storia della vita del paziente – ma quel che aggiunge qui Lacan è che questo segna un punto nel corpo. Il trauma non è soltanto un fatto storico che prende senso nel vissuto del paziente, ma è qualcosa che si scrive sul corpo. Solo occupando la posizione del genitore traumatico, dice Lacan, noi riusciamo a intervenire su questo momento che è stato traumatico e a produrre una diversa scrittura. Questo mi sembra particolarmente interessante perché ridisegna completamente la nostra pratica clinica. Ci sono molti elementi nella psicoanalisi che prendono il nome dal campo della medicina: l'anamnesi deriva dall’anamnesi clinica, la guarigione è un termine è un temine chiave del lessico medico, e che per noi ha però un senso completamente diverso. La guarigione per noi non è certo infatti la restitutio ad integrum come è per il discorso medico. Il sintomo poi per il discorso medico è un segno che insieme ad una costellazione di altri segni disegna la sindrome di una malattia. Per noi il sintomo non è qualcosa da cancellare, è qualcosa da rendere produttivo, è un segno di godimento nel corpo. Forse, in questa stessa chiave di lettura anche la diagnosi andrebbe ripensata, la diagnosi che sarà oggetto del nostro Convegno a maggio: che usi facciamo della diagnosi in psicoanalisi? È il quesito del convegno. Sicuramente non è la diagnosi come è in medicina e come è ripresa per esempio nel DSM. La diagnosi è un concetto categoriale, viene proprio dalle categorie aristoteliche, è un insieme di predicati che permette di definire, di denotare un ente malattia. Non è così per noi, o almeno non nella lettura sfumata tra nevrosi e psicosi che ricordava Domenico Cosenza, dove la diagnosi è fatta di segni discreti, che si tratta di leggere, e che non rimandano a qualcos'altro che li trascende. È in questi segni stessi, nella lettura di questi segni che lavora il discorso analitico, e l'intervento analitico non è fatto certo per cancellarli, ma per portarli piuttosto alla massima potenza. DIBATTITO Isabella Ramaioli Il corpo-forza, il corpo nella dimensione attuale: l'abbiamo un poco ripreso in questo nostro scambio, ma nel libro è molto ben tratteggiato. Qualcuno di voi può certamente dire qualcosa o interrogare l'autore e i colleghi, se quanto ha detto Focchi ci muove qualche perplessità o qualche curiosità. Anna Barracco Io pongo una questione rispetto appunto all'uso che nella clinica si fa di questi concetti. In molte parti del tuo testo, quando parli della società contemporanea, del delirio di onnipotenza della scienza, in realtà la differenza che segnali tra la psicoanalisi e la scienza resta una questione etica. Alla fine la psicoanalisi è quella che interpella un soggetto, un soggetto che si prende la propria responsabilità, che si implica, cerca di farsene qualcosa di questo impossibile, e questo aspetto rimane costante secondo me in tutto l’insegnamento di Lacan. Questa dimensione per me rimane e quindi questa lettura, che evidenzia due discorsi che si affiancano, per me è difficile da tenere insieme. Il sintomo come scrittura, come qualcosa che c'è già e che quindi non è storicizzabile, la questione del Nome del Padre e la possibilità di riassorbirla nel trauma, questa traccia, questo solco nella terra, però, nella storia di un soggetto sono comunque da recuperare in qualche modo. A volte negli esempi clinici che tu fai io non colgo la differenza tra la prima clinica, quella che diciamo arrivare fino al seminario sull’etica, e il discorso successivo, che invece che si sposta, e dove immaginario e simbolico si avvicinano. Maria Vittoria Lodovichi A proposito di pornografia e di questione della parvenza: mi sembra che qualche cosa della parvenza riguardi la sessualità, rimandi all’eros. Invece nella pornografia c’è solo l’eccesso. Isabella Ramaioli Proverei a fare questi accoppiamenti: parvenza e corpo, rappresentazione e parvenza, corpo dell'immagine dello specchio e corpo-scrittura. Ora, se la rappresentazione sta con il corpo dello specchio mi sfugge l'anello che sicuramente c'è tra parvenza e corpo-scrittura. Marco Focchi Il primo punto sull'etica mi sembra decisivo, perché in effetti è quello che caratterizza la clinica psicoanalitica. Nella medicina c'è la clinica, c'è la possibilità di intervenire tecnicamente sul corpo del paziente, e poi c'è un comitato d’etica, che è un'altra cosa, che dice se l’intervento è opportuno oppure no. Gli interventi si possono fare, tecnicamente è possibile farli. Se sia eticamente opportuno o no farli è un tema discusso e deciso da un comitato esterno. Etica e clinica sono quindi due campi separati. La clinica è il campo della tecnica medica. Possiamo fare un TSO anche a un paziente che non vuole un intervento, perché tecnicamente è possibile farlo Possiamo amputargli una gamba in cancrena anche se lui non vuole. Dobbiamo dichiararlo incapace di intendere e di volere, e poi possiamo interviene. Il campo etico è sullo sfondo e su un altro piano. Nella clinica psicoanalitica le due cose sono invece insieme: non possiamo fare nessun intervento forzando le cose. Quel che chiamiamo la tecnica della psicanalisi è qualcosa che sfuma nella dimensione dell’etica, perché mettendo al lavoro un paziente gli possiamo mostrare certi scenari e farvelo entrare, ma c'è in ultima istanza la decisione soggettiva. Si può portare il paziente sul terreno di una decisione che lui ha preso – la decisione non pensiamola come legata alla volontà, come se fosse vado di là o vado di qua: sono decisioni fondamentali dell'essere, quelle che Lacan chiamava l'insondabile decisione dell’essere – lo si può portare sul terreno di una scelta, ma occorre poi che il paziente consenta a questa scelta. Non c'è niente che possiamo fare in analisi se, in qualche misura, non c'è il consenso del paziente. C’è naturalmente il tema della resistenza e della sua interpretazione, che appartiene più alla Psicologia dell'Io. In fondo la Psicologia dell'Io, come spiegavo, ha cercato in qualche modo di affrontare gli aspetti reali in gioco: nella cura, le pulsioni, o il carattere con Reich, e si è incontrata proprio per questo con la resistenza. La soluzione che ha trovato però è: “Interpretiamo la resistenza” e questo porta all’avvitamento in un circolo infinito. Anche Freud, su questo, non ha trovato una soluzione, una via d'uscita. Lacan, col suo modo provocatorio, dice: “La resistenza ai resistenti” perché la resistenza la incontriamo quando forziamo la mano al di là di quel che il paziente può cogliere. Se facciamo un'interpretazione che il paziente non recepisce non è il caso di insistere, sarà per un'altra occasione. Ci deve essere una consonanza, una risonanza. Diverso è il discorso della difesa, perché le difesa si costituisce intorno al reale. Allora lì sì che ci può essere forzatura, ma è una forzatura che richiede in ultima istanza il consenso e la decisione soggettiva del paziente. Forse è in questo senso che possiamo recuperare alla clinica i segni del corpo, che chiamano in causa una soggettività, una soggettività che negli ultimi anni Lacan traduce nel parlêtre che, nell’ultimo insegnamento, è il suo nome per l'inconscio,. La pornografia a cui mi sono riferito era solo un esempio per cercare di far cogliere quel che è la brama verso l' invisibile per il parlante. La pornografia di bassa qualità mostra l' osceno, la pornografia raffinata cerca di far percepire l’invisibile. È qualcosa che possiamo verificare anche nella perversione. Nel campo della perversione il voyeur non cerca di vedere qualcosa di nascosto, ma cerca di vedere l'invisibile, per questo la perversione è una caratteristica umana: l'animale si fissa sull'Immagine, l' uomo cerca l' invisibile dell'immagine. Alla domanda di Isabella Ramaioli, a proposito della relazione fra le parvenze e il corpo: in prima battuta è ciò che è separato dalla linea di frattura che evocavo all’inizio, perché le parvenze occupano il campo finzionale, che comprende il simbolico e immaginario, e comunque riguardano la dimensione della finzione, che esclude il reale. Quando parliamo del corpo, non di quello immaginario ma del corpo nella sua realtà libidica, nella sua realtà di zone erogene e di scrittura, di geografia, quella che passa attraverso le linee di piacere appunto che disegnano le zone erogene, ecco che siamo allora in una dimensione diversa, di esclusione del reale. Ci sono quindi sono due piani di reciproca esclusione tra campo del reale e campo finzionale. L’ interessante è tentare – questo è stato il lavoro di di fine anni Novanta nel Campo freudiano – di mettere in risalto le linee di reciproca intrusione dove c'è un simbolico del reale e c'è un reale del simbolico, che è per esempio la pulsione. La pulsione è una scrittura simbolica sul reale, che esclude l’immaginario. L’erede di questo concetto, nell'elaborazione che ne abbiamo fatto nel Campo freudiano, l'elaborazione che ha fatto Miller, è il sintomo inteso come scrittura del sul reale del godimento. Le zone di intrusione passano quindi attraverso le linee di aderenza del simbolico al reale che escludono l'immaginario, e che sono una scrittura, dove in primo piano viene il reale del corpo. La pratica della psicoanalisi contemporanea lavora proprio su questo piano. Le diverse tradizioni psicanalitiche sono sempre state ricerche di codici, a partire da Freud. Consideriamo per esempio che Freud legge quel che dice il paziente in chiave di codice edipico, Melanie Klein, da un altro codice, legge in chiave di oggetti buoni, oggetti cattivi e fantasmi, Kohut legge in chiave di empatia. Lacan è il primo a portarci fuori dai codici di lettura, perché punta su questa dimensione della presa diretta. Lacan è quindi il primo a portare fuori dal cortocircuito del senso. Questo lo vediamo in particolare nell'ultimo insegnamento, ma si tratta della posta in gioco della pratica moderna. Per questo l’ultimo insegnamento di Lacan ci dà strumenti particolarmente vincenti rispetto alle patologie moderne, dove incontriamo soggetti che si rifiutano alla lettura di senso, che si sottraggono all'enigmatizzazione, alla problematizzazione, all'interrogazione semantica del desiderio, e che sono da trattare non attraverso la domanda: “Che senso ha?” ma piuttosto attraverso la domanda: “Come funziona?”. Una paziente fa un sogno in cui tra lei e un partner c'è in mezzo un impedimento particolare e lei dice: “C'è in mezzo qualcosa che forse è il fallo”. Può essere, ma non è questo l'interessante: c'è in mezzo qualcosa, e il fatto che ci sia in mezzo qualcosa ci dà una grammatica, ci dà una struttura di funzionamento. Non importa che sia il fallo del padre – può essere anche quello, d’accordo – ma l'interessante è l’ostacolo che si interpone, e se spogliamo il sogno da tutti i suoi elementi di risonanza immaginaria possiamo allora prenderne questi elementi come le pedine in gioco, in una scacchiera, possiamo delineare una particolare grammatica. Domanda Ho compreso la parvenza nel corpo come una via per le manifestazioni del desiderio, della parola. Il desiderio appare anche attraverso il corpo, in alcune sue manifestazioni. Non risalta solo nella parola e nel sintomo, ma si esprime attraverso alcune vie del corpo, alcune zone, alcuni punti privilegiati . Marco Focchi Sì certamente, il corpo si esprime, ma ricondurre questa espressività alla semantica porta in cortocircuito. Prendiamo piuttosto questa espressività nel senso dell'intensità. La presenza del corpo dell'analista o del corpo del paziente è interessante non tanto per quel che dice il corpo, per quello che viene abitualmente chiamato il linguaggio corporeo, ma proprio per l'impatto che il corpo ha nell'interazione, cioè col fatto che è con il corpo che si fa passare qualcosa, non con il senso. In fondo al senso si può sempre essere sordi: le spiegazioni magari vengono accolte un anno dopo, due anni dopo, c'è l’après-coup. C'è invece qualcosa che viene dalla forza della presenza, non dall'espressività della presenza, ma dalla forza della presenza, e direi che questa è la differenza per cui in psicoanalisi entra in gioco il corpo. Trascrizione di Pietro Bertolotti
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Bina Bergman
31/3/2017 07:19:17 pm
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