![]() di Marco Focchi La famiglia, come tutto ciò che appartiene alla cultura, cambia, muta le proprie forme in corrispondenza con i sistemi simbolici a cui appartiene. Gli studiosi della contemporaneità, mettendo in luce i fenomeni che contraddistinguono il nostro tempo, pongono l’accento sull’instabilità, sulla rapidità dei mutamenti, sulla flessibilità a cui è necessario adattarsi per stare al passo delle nuove forme di produzione. Il lavoro non ha più la continuità, la sicurezza, la localizzazione permanente che aveva ai tempi del fordismo, i legami stessi tra le persone risentono dei ritmi di vita a cui sono sottoposti e tendono ad allentarsi. Anche la famiglia entra nel vortice postmoderno e risente della sfiducia nelle metanarrazioni a cui è improntata la nostra epoca: non ci sono spiegazioni d’insieme capaci di rendere conto dell’esperienza che viviamo, tutto si frammenta, vengono meno i principi e i fondamenti assoluti che hanno costituito il nucleo forte della razionalità moderna. Nella famiglia questo si traduce in una moltiplicazione di forme che, secondo l’orientamento degli studiosi, viene avvertito come perdita, rispetto ai valori tradizionali, o come arricchimento, rispetto alle possibilità di vita emergenti. Le nuove famiglie – che vanno da quelle monogenitoriali, a quelle ricomposte, a quelle, dove la legislazione lo consente, formate da persone dello stesso sesso – diversificano le modalità del legame, variano le condizioni della soggettività che in esse si determina e pongono problemi clinici differenziati nel trattamento. L’estinzione delle metanarrazioni si riflette in modo importante sulla famiglia che, nella psicoanalisi, è sempre stata vista essenzialmente come un plesso di narrazioni. Il romanzo familiare del nevrotico, per esempio, mostra il bambino che ha idealizzato i genitori, il quale, crescendo e cominciando a vederli in modo disincantato, immagina di essere stato da loro accolto come un trovatello e di essere nato invece in una famiglia di stato sociale superiore, probabilmente di origini aristocratiche. Si tratta in fondo di una narrazione platonica, che vede, dietro la nuda realtà, lo sfondo dell’ideale.
Questa è almeno la descrizione freudiana del romanzo familiare, che non è la sola possibile. Ho avuto pazienti che ne presentavano una versione rovesciata: la famiglia in cui vivevano poteva non essere la loro e poteva presentarsi la fantasia o il timore che la loro vera famiglia fosse miserabile, in stato di indigenza estrema. Un paziente in particolare, che apparteneva a una famiglia modesta ma che non doveva privarsi di nulla, paventava di scoprire che i suoi veri genitori fossero degli zingari. Era un timore di smarrimento, di perdita della protezione affettiva, ma in particolare il termine “zingari” metteva in gioco l’idea dello sradicamento, del nomadismo, dell’assenza di collocazione sociale. La valenza simbolica della famiglia, per un verso, consiste nel situare le coordinate sociali del soggetto: un paziente che aveva vissuto l’infanzia in un paesino veneto ricorda che se un bambino capitava nel paesino accanto, dove non era ancora conosciuto, la domanda che si sentiva rivolgere non era: “Come ti chiami?” ma “Di chi sei?” Un senso di proprietà accompagna questa domanda di identificazione, un senso di proprietà che lui sentiva fastidiosamente come espropriazione, dato che avrebbe voluto rispondere: “Io appartengo solo a me stesso”. Segnando le coordinate simboliche del soggetto la famiglia lo colloca, e al tempo stesso lo sottrae alla libertà brada di essere qualsiasi cosa: lo determina e così facendo lo delimita. E’ il lato per il quale la essa opera come vettore di alienazione, ed è quello che ha mosso la critica dell’antipsichiatria a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta. Nel duplice movimento di collocazione e di alienazione appare infatti quella funzione normativa che la psicoanalisi ha formulato in un’altra grande narrazione: quella edipica, che segna la via per l’accesso alla norma del desiderio. L’antipsichiatria è partita da un assunto: ci troviamo a trattare pazienti schizofrenici la cui logica appare incomprensibile. E’ facile pensare che si tratti di pezzi difettati dell’umanità, privi della potenza di quella ragione che ci permette di capire noi stessi e gli altri. Qualunque sia l’origine del loro disturbo siamo di fronte all’impossibilità di comunicare con loro. Si può però prendere un’altra prospettiva, e considerare che l’apparente illogicità dello schizofrenico ha invece una sua logica nascosta, che appare in chiara luce se studiamo la famiglia in cui è cresciuto, se analizziamo i segnali contradditori a cui è stato esposto, rispetto ai quali la sua irrazionalità si manifesta essere la risposta più razionale. La famiglia patogena è così il contesto che ci dà una chiave di lettura in grado di rendere decifrabile la schizofrenia. Bisogna ricordare che questi studi avvengono negli anni in cui si sta realizzando una grande rivoluzione di costume, in cui si è accesa la rivolta studentesca, in cui è in corso la rivoluzione sessuale, e in cui è in piena esplosione il movimento femminista. Quest’onda sovversiva assedia la famiglia borghese tradizionale sentendola come portatrice di un ordine che è necessario superare, scardinare, demolire. I libri di quegli anni hanno titoli che sembrano proclami di guerra: La politica della famiglia, La morte della famiglia, La famiglia che uccide. Sono anche gli anni in cui, tentando di mettere in pratica il nuovo orizzonte dischiuso dalla critica, si sperimentano forme diverse di convivenza, destinate a superare le restrizioni normative che inquadrano la famiglia come prima essenziale cinghia di trasmissione di un potere repressivo. Alcuni avviano così le esperienze delle comuni, di cui la stampa d’opinione dava significativa risonanza in quegli anni, e che, pur restando il fenomeno di alcune punte del movimento giovanile, si configurano come modello alternativo alla famiglia tradizionale. Le comuni, nelle loro varie forme, sono concepite in modo che la vita sessuale possa essere libera e priva di vincoli. Se il desiderio non è sottoposto alla normalità limitativa e mortificante della coppia, tutti devono poterlo esprimere con chiunque. La gelosia viene considerata una forma di nevrosi: dove ci sono figli vengono allevati collettivamente. Si tratta non solo di una spallata alle convenzioni, ma di uno sperimentalismo estremo che disancora i significanti primari dell’esistenza soggettiva, che sprigiona l’angoscia e che fa saltare i gangli essenziali costitutivi della famiglia: l’amministrazione regolata della sessualità, la gestione dell’economia, la trasmissione tra le generazioni. Quando Lacan, in una breve nota di quegli anni, parlerà del fallimento delle utopie comunitarie, sarà questo il riferimento: l’estremizzazione di una spinta che, cercando di superare le forme simboliche desuete della famiglia borghese, tenta anche di cancellarne il reale irriducibile e necessario al fine della genesi soggettiva. Diciamo che la critica di quegli anni ha visto chiaramente il lato di alienazione simbolica della famiglia, ciò per cui l’essere umano diventa soggetto entro determinate configurazioni simboliche, ma non ha percepito il lato separazione, cioè il distacco da queste configurazioni che rendono possibile la trasmissione e la continuazione in altro modo. Non siamo solo prigionieri delle forme simboliche: possiamo usare il simbolico diversamente che in funzione ermeneutica, come leva per appropriarci del nostro destino e per avvicinarci al reale del sesso. Nel panorama di quegli anni uno squillo decisivo viene dato dal famoso Anti-Edipo di Deleuze e Guattari. L’anti-Edipo entra in scena come una macchina bellica destinata a dare l’assalto finale alla psicoanalisi. Ne prende di mira il cuore concettuale nella sua formalizzazione strutturale più compiuta. La forma classica che, a metà degli anni Cinquanta, Lacan dà all’Edipo freudiano è quella della metafora paterna. Si tratta della rilettura in chiave strutturalista del mito freudiano che, al posto dell’interazione di personaggi in carne ed ossa cui si riduce la sua versione empirista, mette delle funzioni significanti. Abbiamo così dei significanti che rappresentano la funzione paterna e quella materna, di cui i genitori reali hanno saputo investirsi in modo più o meno adeguato. La dialettica che si produce tra questi significanti sfocia nell’innalzamento di un ideale paterno con cui il bambino deve identificarsi per staccarsi dal rapporto di specularità immaginaria con la madre. Perno di questo processo è il Nome del Padre che, trasmettendo al bambino il senso della castrazione, gli dà accesso alla norma del desiderio. L’Edipo quindi si pone in funzione normativa del desiderio, mette in scena il teatro di una rappresentazione familiare, ratifica l’inconscio strutturato come un linguaggio innalzando l’impero del significante con l’infinito compito interpretativo che ne consegue. Deleuze e Guattari si scagliano contro la norma sposando la tesi di Reich della liberazione del desiderio, promuovono l’idea che la libido spontaneamente investe l’Altro sociale e non l’Altro genitoriale, considerano l’inconscio come un luogo di produzione traversato da flussi e non come teatro di una rappresentazione, si oppongono alla linguistica strutturale di Saussure proponendo in antitesi quella di Hjelmslev. L’obiettivo è di affossare una volta per tutte una psicoanalisi assillata dall’idea dell’interpretazione, dalla ricerca del significato nascosto, ossessionata dalla mania che qualsiasi cosa ne rappresenta qualcun'altra. Al di là della vis polemica degli autori, che risente di un’epoca in cui le idee si fanno strada a colpi di scudisciate, i temi non sono affatto trascurabili, e Lacan, già prima del 1972, data di pubblicazione dell’Anti-Edipo, aveva cominciato a intraprendere una via che sarà quella del suo ultimo insegnamento, in cui il linguaggio, l’interpretazione, la ricerca del senso e della verità perdono terreno. Lacan stesso infatti ricentra la clinica psicoanalitica a partire da altre linee guida, come il reale, il godimento, i nodi. Prende direzioni che trasformano completamente la funzione del linguaggio, il quale non appare più nel quadro concettuale dello strutturalismo, ma come qualcosa di opaco, di concreto, come un corpo solido, o piuttosto un intrico di nodi in cui il parlante si trova imbrigliato. La vittima illustre di tutto questo rivolgimento è tuttavia il Nome del Padre, che rispetto alla centralità occupata nell’operazione della metafora paterna, si riduce a mera parvenza, smarrisce la funzione idealizzante di cui era rivestito, perde la propria unicità per pluralizzarsi in una varietà diversificata di attribuzioni. Questo passaggio segna lo spartiacque tra la forma classica della psicoanalisi – quella freudiana, che Lacan nella fase iniziale del suo insegnamento ha saputo ripensare formalizzandola, dandole un ordine concettuale e un’armatura logica potenti – a quella di cui sta a noi trarre oggi le conseguenze e che si sviluppa in un panorama completamente diverso. In questo passaggio il Nome del Padre viene pluralizzato, depotenziato, disperso. Lacan comincia a parlare infatti di nomi del padre, e introduce un concetto che non è più quello del padre freudiano. In fondo il padre freudiano corrisponde alla forma borghese ottocentesca della famiglia, non tanto per la forza e l’autorità della sua presenza, quanto piuttosto per la sua esteriorità rispetto al luogo delle donne e dei bambini. Ci si lamenta spesso dell’assenza dei padri, anche se in realtà mai come oggi i padri si sono sentiti in dovere di stare con i bambini, di accudirli, di condividere con le donne il ruolo affettivo delle cure. La figura del padre materno è assolutamente moderna, anche se non è detto che sia un miglioramento. Il padre vittoriano, quando le donne, almeno nella borghesia, non lavoravano, è invece colui che sta fuori, che esce dalla domus, è l’interfaccia tra il luogo domestico e quello sociale. Il padre freudiano risente di questo ruolo di rappresentare la famiglia nell’Altro sociale: è il padre della rappresentazione. E’ il motivo per cui può entrare in una logica di sostituzioni, nella quale una cosa sta per un’altra. E’ una logica che Lacan rende più stringente con la formulazione della metafora paterna, dove il significante del Nome del Padre prende il posto di quello del desiderio materno. Il padre resta comunque l’ideale in cui riconoscersi e da cui farsi rappresentare. Il padre pluralizzato dell’ultimo insegnamento di Lacan invece non rappresenta nulla, è pura parvenza, la sua funzione non è più all’interno del gioco delle sostituzioni, delle metafore, dell’attribuzione del senso e quindi dell’interpretazione. Nella misura in cui il padre freudiano è ciò che dà il senso della castrazione, la clinica psicoanalitica che vi fa perno diventa, di conseguenza, l’inseguimento infinito del desiderio come verità della castrazione, come falla aperta nella soggettività, come mancanza che può essere velata dall’ideale o che trova il proprio complemento in un oggetto che incessantemente si sottrae. La mancanza resta nel perimetro di una logica delle sostituzioni, e il padre freudiano è correlato alla castrazione, alla mancanza, al desiderio, alla rappresentazione. La pluralizzazione del Nome del Padre rompe questo perimetro aprendo una prospettiva completamente diversa. Innanzi tutto non si tratta più di dare alla mancanza il senso della castrazione: i nomi del padre non sono il correlato della mancanza. L’ultimo insegnamento di Lacan, come Miller mette in evidenza, privilegia il concetto di buco rispetto a quello di mancanza. Questo sposta l’asse concettuale rispetto alla logica delle sostituzioni e della rappresentanza: se si può pensare che alla mancanza subentri ciò che manca, o che sia supplita dall’ideale, il buco non entra in una combinatoria di permutazioni. Diversamente che con la mancanza, al buco non è possibile dare nessun senso, perché niente può surrogarlo: con esso siamo fuori dal campo della rappresentazione, dove una cosa può stare al posto di un’altra. Niente può stare al posto del buco se non il buco stesso. Non si tratta più del desiderio che si perde dietro i miraggi di un oggetto mentre questo gli scivola via tra le dita: in antitesi a questo infinito a vano inseguimento prende corpo la nozione di godimento. La differenza è fondamentale, perché se il desiderio è sempre il desiderio dell’Altro, è sempre cioè in un rapporto essenziale con le forme simboliche dell’alterità, il godimento è invece tagliato fuori dall’Altro: se c’è un’incompatibilità tra reale e senso è proprio perché il godimento, che è reale, non condivide lo spazio dell’Altro in cui si genera il senso. Le conseguenze per quanto riguarda la problematica del padre saltano agli occhi: se il compito del padre freudiano è quello di dare un senso alla mancanza, quello, diciamo così, dei padri lacaniani è di far fronte al buco trovando un modo di trattare il godimento. Questo fa svanire tutto il teatro familiare, e il gioco della rappresentazione. D’altra parte, in un’epoca in cui le donne hanno una presenza sociale decisamente più importante, in cui esiste una dichiarazione dei diritti dei bambini, in cui c’è un’attenzione molto maggiore alla tutela dei minori (non sufficiente si potrà dire, ma senz’altro superiore che nell’Ottocento), in un’epoca dove un giudice tutelare può surrogarsi alle decisioni di un padre, in cui in caso di divorzio è tutto da vedere su quale sia la parte debole per l’assegnazione degli alimenti, in un’epoca così le funzioni di rappresentanza di un padre sono estremamente meno significative tra tutte quelle che gli spettano. La famiglia così si riconfigura nella sua struttura, perde l’asse centrale, la colonna vertebrale che la sosteneva quando la distribuzione tra posizione forte e posizioni deboli era nettamente più sbilanciata, e trova un diverso equilibrio, o dei diversi modi di equilibrarsi nelle nuove forme in cui si manifesta. Ma è proprio qui che recuperiamo la necessità della funzione paterna, se ne assumiamo la versione plurale, la versione duttile datane da Lacan. Il problema non è il tanto celebrato declino del padre, che comincerebbe a mostrarsi debole, insufficiente, inadeguato. Il padre, sia detto per inciso, è carente per struttura se non vuol essere il padre del Presidente Schreber, e questo aspetto è messo in luce da Lacan sin dal suo articolo del 1938 sui Complessi famigliari. Non sentiamo nessuna nostalgia per la sparizione del padre freudiano, il cui modello è costruito in Totem e tabù: il padre che gode di tutte le donne. Il padre lacaniano non risponde più di questo universalismo e trova il proprio posto nel fare di una donna la causa del proprio desiderio. Questo significa qualcosa di completamente diverso dall’innalzare un ideale da seguire come modello per trattare il problema centrale dell’essere parlante. Qual è questo problema? E’ l’inesistenza, nella specie umana, di una sequenza di segnali inequivoci, analoga a quelle studiate dagli etologi, per portare all’accoppiamento. Il problema, per l’essere umano, è come fare con il sesso, in assenza di un istinto che con sicurezza lo guidi nell’incontro con il partner. Il padre freudiano, nella misura in cui è colui che gode di tutte le donne, mostra una soluzione universale, “scientifica” potremmo dire, giacché le leggi scientifiche valgono, senza eccezioni, per ogni componente dell’ambito che descrivono. Forse nella società vittoriana l’idea che ci fosse un modo per trattare le donne poteva essere agganciarsi a un fondo di credenze che costituivano uno strato comune nella società al di qua di ogni ragionevole dubbio. Stephan Zweig, nel suo straordinario libro Il mondo di ieri, ce ne dà un esempio che appare stupefacente per noi che viviamo il tempo successivo alla rivoluzione sessuale. Nessuno, nel mondo di ieri, racconta Zweig, poteva seriamente pensare che le donne avessero una loro autonoma sessualità, che avessero dei desideri, delle spinte erotiche. Naturalmente si conoscevano bene donne la cui vivace vita erotica stava sotto gli occhi di tutti, ma questo banale fatto empirico non contraddiceva la verità di fondo, perché tutti sapevano che una donna poteva diventare così una volta entrata a contatto con la licenziosa sessualità degli uomini, da cui veniva corrotta. La donna si definiva quindi, ab origine, sotto il concetto universale di asessuata, anche se era passibile di decadimento. Una volta degradatasi dal suo stato angelico però si trovava a cadere sotto il concetto generale di puttana, altro grande totalizzatore della femminilità, che mostra una certa tenuta anche nell’inconscio postmoderno. Non deve allora stupire che il padre fosse preposto a rappresentare un modello per trattare le donne in blocco. Nella misura in cui non esiste un concetto unificatore delle donne (quando Lacan dice che La femme n’existe pas dice semplicemente questo) non esiste neppure un concetto di padre depositario di un metodo universale per trattarle, o per goderne. Il che non significa che non esista un padre, o che la sua funzione sia esaurita. In una brevissima nota Lacan fa il punto su questa funzione, all’interno di una riflessione su quel che resta della famiglia dopo che la critica e le esperienze degli anni Sessanta hanno minato la pretesa di unicità della sua forma borghese ottocentesca. Si riferisce all’insuccesso delle utopie comunitarie, che fanno apparire quel che è irriducibile nella famiglia coniugale: la trasmissione della costituzione soggettiva, che implica la relazione con un desiderio che non sia anonimo. E’ in relazione a tale necessità che situa le funzioni della madre e del padre. Per la madre sostiene che le sue cure devono portare l’impronta di un interesse particolarizzato, foss’anche solo tramite le sue mancanze. Dal padre ci si aspetta invece che il suo nome sia il vettore di un’incarnazione della legge del desiderio. Dovremmo innanzi tutto notare che parlando di incarnazione non parliamo di rappresentazione, e che il riferimento alla legge non mette in gioco il divieto dell’incesto, ma piuttosto la promozione del desiderio. Il padre non è visto qui, freudianamente, come colui che separa il bambino dalla madre, ma come colui che mostra un modo di trattare il desiderio, mostra come fare di una donna l’oggetto causa del proprio desiderio: non si innalza a ideale ma offre un esempio concreto di come trattare la sessualità in assenza di un codice universale sull’argomento. In altre parole, il padre non solo non è l’esteriorità rispetto alla domus (anche se uscisse sempre per il lavoro, anche se fosse sempre all’estero), ma è negli stessi imbrogli del reale in cui si trova il figlio, solo che si trova davanti a lui, e lo tiene per mano, cercando di mostrargli come muoversi nel labirinto. Perché ormai sappiamo che non c’è, come per Dedalo, il meraviglioso colpo d’ala che in un baleno ci porta in cielo, sappiamo che non c’è un fuori dal labirinto, e che possiamo però trasformare le sue pesanti mura nella guida leggera di un passo di danza. L’idea del labirinto articolata con il tema del padre viene espressa in un’immagine narrativa uscita dalla penna di Paul Auster, scrittore dove nessuna trama ha una vera conclusione, nessuna storia si compie nella funzione unificante di un punto d’arrivo. Ne La città di vetro un finto investigatore segue i percorsi erratici del padre di uno schizofrenico da cui, per errore e per caso, ha ricevuto l’incarico di pedinarlo. L’uomo si perde per giorni dietro la sua preda, fino a che si accorge che le sue peregrinazioni apparentemente casuali per le vie di New York disegnano delle lettere che ricomposte si leggono: “The tower of Babel”. Se fossimo in un racconto di Poe questo sarebbe un messaggio in codice, misterioso, presago di morte e di distruzione. Nella storia di Auster resta una parvenza senza altri rimandi, un enigma indecifrato che, in realtà, non chiede nessuna interpretazione. Semplicemente oggi sappiamo che il labirinto da cui non potremo mai uscire è il linguaggio, che il linguaggio è qualcosa di denso e opaco, fatto di grovigli tortuosi, che è la malattia incurabile di cui soffre l’essere parlante. E sappiamo che il padre non è fuori dalla mischia, anche se può ancora indicare delle vie. Marco Focchi
2 Comments
Eva Luz Samperio Añorve
28/1/2014 08:54:54 am
Lo que dice me hace pensar que ¿no será un problema en la estructura psíquica del sujeto que la formación del inconsciente con su fase edipica, se igual a la época victoriana o freudiana, cuando la estructura social y subjetiva sea totalmente distinta? Es decir tenemos un complejo de edipo victoriano o freudiano, en una época donde hasta algunos conceptos lacanianos -ya no decimos freudianos- son inoperantes.
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marco focchi
28/1/2014 09:09:13 am
Si, credo che sarebbe un problema se fosse così, ci sarebbe una discrasia che toccherebbe il legame sociale. Ma dobbiamo domandarci: è proprio così? Dobbiamo considerare che l'inconscio del soggetto contemporaneo si costituisca con un modello edipico vittoriano?
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