Conferenza tenuta a Siviglia il 19 gennaio 2019 presso l'Escuela lacaniana de psicoanalisis Marco Focchi Lacan affronta il tema dell’angoscia quando si trova in un momento critico della sua vita e della sua riflessione. È in un momento critico della sua vita perché siamo nell’anno che prelude a quel che lui chiamerà la Scomunica, cioè il divieto di esercitare la didattica all’interno dell’IPA, e la turbolenza emotiva che questo provoca in lui si sente nell’andamento del seminario, che è più serpeggiante, meno sistematico, anche se sistematico è un termine che non possiamo davvero applicare a Lacan. Nei seminari precedenti c’è tuttavia, possiamo dire, una focalizzazione a partire dai temi di Freud e da grandi questioni cliniche, come la psicosi, che Lacan trascrive man mano nei termini della linguistica strutturale che sta seguendo in quegli anni. Cosa significa inquadrare la prospettiva freudiana nell’ottica strutturalista seguita in quel momento? Significa far funzionare il dispositivo della cura a partire dagli assi immaginario e simbolico, criticando l’impostazione realista che nel mondo anglosassone viene espressa dalla corrente, allora nascente, delle relazioni d’oggetto. Si parla di teoria delle relazioni d’oggetto ma in realtà non esiste una teoria unitaria in questo senso. Ci sono piuttosto degli autori, per altro interessanti, come Melanie Klein, Donald Winnicott, i coniugi Balint, William Fairbairn che esprimono orientamenti e concezioni molto diversi fra loro. Lacan li critica per la loro comune tendenza realistica nella conduzione della cura. Se la cura ha infatti come propria misura la realtà, l’obiettivo che si prefigge diventa quello di regolare la buona distanza dall’oggetto. Lacan si diverte molto commentando, per esempio, un caso di Ruth Lebovici. Si tratta del caso di un paziente che sviluppa una perversione transitoria per cui si eccita nel vedere da una fessura le donne urinare nella toilette di un cinema. L’analista considera allora che abbia raggiunto la buona distanza dall’oggetto quando, in presenza dell’analista, sente come un odore di urina. L’odore è qui preso come indice della giusta distanza dell’oggetto reale.
Ora tutto il lavoro di Lacan nei primi seminari, va nel senso di costruire un orientamento della cura costituito dallo schema L che mostra l’operatività della psicoanalisi attraverso l’opportuno utilizzo degli assi simbolico e immaginario. Il terzo termine, il reale, resta in un certo senso fuori. Bisogna però considerare che in quegli anni quando Lacan parla del reale, parla della realtà, e la realtà deve in effetti stare fuori dalla stanza analitica, perché l’analisi prende come proprio referente il fantasma. L’analisi che prende invece come referente la realtà si svia, perde la strada, utilizza modalità d’intervento che alla fin fine girano a vuoto. Per esempio la famosa confrontation degli autori angloamericani, il confronto con la realtà: il paziente gira a vuoto con le sue richieste impossibili, e l’analista lo forza in un confronto con la realtà per mostrarne l’impossibilità. Ma il paziente sa benissimo che quel che chiede è impossibile, perché il desiderio in quanto tale è impossibile da soddisfare, perché è un meccanismo a doppio scatto, che vuole una cosa e il suo contrario, come nel paradosso del mentitore. La psicoanalisi ha però a che fare proprio con questo tipo di paradossi, e non con desideri realistici che si potrebbero appagare con un po’ di buon senso. La realtà è quindi come il cappello che si appende all’attaccapanni prima di entrare nella stanza di analisi, perché l’analisi, almeno nella prospettiva assunta da Lacan in quegli anni, ha come obiettivo di far emergere il puro funzionamento del simbolico non impedito dall’immaginario. Ebbene: il seminario sull’angoscia viene a confrontarsi proprio con i limiti di questa prospettiva, con i punti morti di questo progetto terapeutico. Sappiamo che Miller definisce questo seminario come un laboratorio per la rifondazione della psicoanalisi dopo la separazione dall’IPA, una rifondazione che si realizza a partire dal Seminario XI sui quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. Ci sono dunque in gioco, a partire da questo seminario, sia una valenza politica sia una valenza clinica. Si tratta, in un certo senso, di riformulare la teoria del desiderio perché pensato come pura metonimia, il desiderio non si perda nel reticolo infinito di rimandi del significante. Se la concezione della cura concepita in base all’immaginario e al simbolico faceva girare all’infinito la metonimia del desiderio tenendo fuori la realtà, il seminario sull’angoscia fa apparire qualcosa che inceppa la macchina, e questo qualcosa è la nostra carne “che resta necessariamente presa dentro la macchina formale e senza la quale il formalismo logico non sarebbe per noi assolutamente niente” (p.233). L’inciampo nella macchina formale appare quando Lacan comincia a riflettere sulla causa. Ritroveremo il problema della causa nel seminario XI: la cause est qu’il y a quelque chose qui cloche. Lacan comincia qui a declinare insieme l’oggetto e la causa, per arrivare alla formulazione che sarà quella dell’oggetto causa di desiderio. Il punto di partenza è quello che chiama “il luogo centrale della funzione pura del desiderio” (p.232). È qui che si forma a, “l’oggetto degli oggetti”. Vediamo che qui l’oggetto a sta già cominciando a cambiare senso rispetto all’uso precedente, che lo attribuisce all’immaginario. Per questo oggetto a “il nostro vocabolario ha promosso il termine oggettualità in quanto si oppone a quello di oggettività”. Qui c’è già una definizione fondamentale dell’oggetto: non è un oggetto empirico, non è un oggetto che si presenta nel quadro di quella realtà empirica che la scienza prende come referente. L’oggettivo è quel che ci sta di fronte, quel che è ob-jectum. In questa valorizzazione della differenza tra oggettivo e oggettuale Lacan sta inserendo nella logica della cura qualcosa che, pur non appartenendo al piano empirico della realtà cui si riferisce la teoria anglosassone criticata nel seminario IV, non è neppure integrato negli assi incrociati di immaginario e simbolico che costituiscono lo schema L, e che nel seminario IV aveva presentato come bussola per la conduzione della cura. Il riferimento alla scienza serve però a introdurre un tema che diventa fondamentale nello sviluppo del seminario: quello della causa. La filosofia, a partire da Hume, ha cercato di ridurre la funzione della causa. Hume l’ha ricondotta all’abitudine, questo potente fattore di condizionamento mentale: ci si può abituare a tutto. È una posizione che riprende anche Lacan quando dice, ne Il trionfo della religione, che il reale non va drammatizzato, che ci si può abituare. È una frase questa che è colpo di cannone. Non possiamo interpretarlo, il reale, non possiamo integrarlo nelle coordinate del simbolico e dell’immaginario, la soluzione è abituarcisi, cosa peraltro molto diversa dalla rassegnazione. La rassegnazione prende piede quando abbiamo una spina nel fianco di cui non possiamo liberarci e quindi, puramente e semplicemente, ce la teniamo. L’abitudine invece è collegata al concetto di ripetizione, e la spina, in questo caso, non è tenuta come dolorosa, né con rassegnazione, proprio perché è levigata dall’abitudine attraverso il ritorno reiterato dell’esperienza. Il reale all’inizio è sicuramente sorpresa, stupore, fastidio, trauma, ma poi alla lunga è come il granello di sabbia che nell’ostrica, con l’andare del tempo, diventa perla,. Malgrado il tentativo del pensiero di ridurre la funzione della causalità, la nozione di causa resiste, e dopo Hume viene Kant, risvegliato dal filosofo inglese ma acceso di spirito critico. Lacan si riferisce proprio a Kant per dire che “la causa si rivela alla critica come irrefutabile, irriducibile, quasi inafferrabile” (p.233). Quando si domanda cosa determini la resistenza della causa a tutti i tentativi di ridurla, si verifica la virata fondamentale, perché Lacan apre qui la via a un pensiero senza precedenti: se non possiamo fare a meno dell’idea della causa non è perché questa sia utile nel quadro scientifico in cui si presenta come un oggetto empirico, che agisce su un altro oggetto empirico in una catena infinita. La causa è irriducibile non perché appartiene al campo dell’oggettività, ma perché rientra in quello della oggettualità, che Lacan definisce come “il correlato di un pathos di taglio” (p.232). In questa definizione formidabile abbiamo tre termini da articolare: causa, pathos, taglio, e sono tutti e tre luminosamente chiari: abbiamo pathos perché l’oggetto, nel senso dell’oggettualità (e non dell’oggettività), si materializza nostra carne stessa, nella parte di noi stessi che, presa nella macchina formale, rimane per sempre irrecuperabile. L’oggetto perduto si genera nel trauma della lingua che morde sul corpo, che costruisce il corpo, che ci dà il corpo che abbiamo, attraverso le forme di simbolizzazione che passano per la pulizia, l’ornamento, l’abbigliamento, il tatuaggio, quelle patologie moderne che sono le scarificazioni e le loro trasformazioni in cutting. Il corpo che abbiamo è il corpo simbolizzato e immaginato, passato per lo stadio dello specchio e per il posizionamento gerarchico nel sociale. Questo riguarda il corpo che abbiamo, perché il corpo che siamo, quello non passa per le procedure civilizzatrici del linguaggio, né per l’estetica dell’immagine. Resta carne, come carne fuori corpo, e si capisce qui perché Lacan definisce l’oggetto a come hors-corps, fuori corpo: è fuori dal corpo che abbiamo. È questo oggetto perduto, nei diversi piani dell’esperienza corporea in cui si produce il taglio, che costituisce il supporto, il substrato autentico di ogni funzione della causa (p.233). Lacan riporta quindi completamente la nozione di causa alla corporeità. Siamo oggetti del desiderio solo in quanto corpi, e quando diciamo all’essere amato: “Voglio solo il tuo cuore”, diciamo qualcosa di molto meno spirituale di quanto non appaia. È un desiderio che si rivolge al cuore come parte del corpo, come viscere. In questo rimando alle viscere Lacan vede il desiderio che va al di là dell’apparenza, che va alla causa situata nelle viscere come raffigurazione della mancanza. Non a caso si riferisce a Maine de Biran, che ha costruito la sua metafisica interpretando i concetti di forza, di sostanza, di causa nei termini della volontà sperimentata direttamente e fisicamente, come emanazione della presenza corporea. Con queste premesse, con questa costruzione assolutamente concreta anche se opposta all’empirico, Lacan si appresta ad estendere il catalogo degli oggetti rispetto quello classico freudiano, aggiungendo lo sguardo e la voce al seno e alle feci, e introduce a questo proposito il riferimento allo Shofar, rifacendosi a uno studio del Reik del 1946. La prospettiva e la posta in gioco in questo passaggio è il superamento di quello che Freud considerava come il punto di arrivo ultimo della psicoanalisi, la roccia basilare della castrazione. È un punto di vista questo che Lacan aveva fatto suo fino agli anni ’60, e che ancora ritroviamo per esempio nel seminario su Il transfert. L’idea della fine di analisi per Lacan era che la mancanza andasse al suo posto e fosse riconosciuta come tale e come non superabile, non colmabile. In altri termini è il riconoscimento della castrazione su cui si conclude Analisi interminabile e terminabile. Nel seminario su L’angoscia Lacan si prefigge di forzare il limite della castrazione, e questo diventa possibile proprio grazie al concetto di angoscia che produce, che non è, come nella visione freudiana classica, angoscia di castrazione, ma angoscia in presenza d’oggetto. Perché questo oggetto diventi angosciante deve però essere separato dall’Altro, deve essere prodotto da un taglio. Si delinea allora qui il concetto di separazione, che avrà il suo pieno sviluppo nel seminario XI. Per puntualizzare la posta in gioco possiamo dire che la differenza fondamentale tra la castrazione e la separazione è che la prima si produce in rapporto ad una mancanza, la seconda rispetto a un oggetto in eccesso, un oggetto che deve mancare perché il mondo possa seguire tranquillo il suo corso. Nello studio del testo di Reik sullo Shofar Lacan riesplora la tematica totemica, il mito dell’omicidio del padre. La concatenazione classica è che tutto comincia con l’omicidio del padre perché il desiderio originario è legato alla proibizione. È in quanto proibito che un oggetto diventa oggetto di desiderio, e questo valorizza il concetto di trasgressione, che Lacan mette in primo piano nel seminario su L’etica, seguendo il drittofilo dell’elaborazione di Bataille. Per cogliere l’oggetto desiderio, in questa prospettiva, è necessario superare la barriera del divieto al di là del quale è posto. Questo lega inscindibilmente il desiderio con la colpa, e fa di noi degli uomini della colpa, come aveva ben illustrato Nietzsche. Alla luce del seminario sull’angoscia tutto questo diventa impalcatura, diventa sovrastruttura, poiché il ragionamento si sviluppa su una base diversa. Nella prima prospettiva la castrazione e il divieto implicano infatti l’idea di un agente del divieto, di colui che formula il divieto, il Padre, il Dio del paradiso terrestre che vieta il frutto della conoscenza: “Non devi sapere”. Il presupposto dunque è che il sapere è possibile, ma qualcuno non vuole che sia accessibile. Con la separazione invece sparisce proprio la figura dell’agente, poiché la separazione avviene non per un intervento esterno ma per una cessione da parte del soggetto. Lacan lo esprime molto chiaramente alla fine del seminario sull’angoscia parlando del carattere cedibile dell’oggetto, e dicendo come questo carattere di essere cedibile riguarda tutte le forme dell’oggetto a esplorate nel seminario. In questo senso, il grande passaggio sul piano clinico realizzato nel seminario sull’angoscia è porre le premesse per il superamento dell’Edipo. Lacan lo dice chiaro e tondo (p.383 ): “Edipo non è innanzitutto il padre. È quel che volevo dire da tempo facendo notare ironicamente che Edipo non avrebbe saputo di avere il complesso di Edipo […] Edipo è colui che ha voluto vedere quel che c’è al di là del soddisfacimento del desiderio, soddisfacimento qui riuscito. Il peccato di Edipo è la “cupiditas sciendi”. Non c’è un padre che proibisce, c’è una volontà di sapere, potremmo dire, spinta al di là dello schermo immaginario. Ora il tema dell’oggetto cedibile, che conclude il seminario, passa per la costruzione degli oggetti a nella parte centrale, e in particolare per la costruzione dell’oggetto vocale, per reperire il quale traversa l’analisi dello Shofar. Reik spiega come si tratti di uno strumento rituale che ricorre in diversi passi della Bibbia, nell’Esodo, in Samuele, nelle Cronache, ogni volta che appare necessario rinnovare l’alleanza con Dio dopo qualche contrasto, e Lacan mette in luce che, confrontando le diverse ricorrenze in cui compare, lo Shofar è ciò che fa risuonare la voce di Dio. Questo riferimento biblico ha tutta la sua importanza, in primo luogo perché si riferisce alla nostra tradizione culturale, e poi perché è stato studiato nella letteratura psicoanalitica. Si può però sicuramente allargare il grandangolo per meglio cogliere la dimensione mitica in cui la voce assume una funzione fondamentale, fondativa e creativa. Sempre restando nel mondo cristiano la mistica spagnola fa riferimento a questa dimensione sacra della voce. Per Giovanni della Croce i fiumi risonanti (rios sonorosos), il sibilare del vento (el sibilo de los aires) la musica non udibile (soledad sonora) sono manifestazioni della voce di Dio. A San Cugat, a Girona, a Ripoll ci sono monasteri i cui chiostri sono scolpiti con animali che ricordano quelli analoghi che nelle mitologie indiane sono presentati come pure concrezioni di suoni. Uno studioso tedesco, Marius Schneider ha analizzato a fondo questi chiostri in uno straordinario libro Le pietre che cantano rendendosi conto che ogni animale scolpito esprime un suono: il leone il fa, il toro il mi, il pavone il re, e così via. I chiostri di questi monasteri sono praticamente degli spartiti musicali sui quali sono scritti, o meglio scolpiti, dei canti gregoriani. Schneider mostra poi come nelle antiche azioni cultuali non bisogna lasciarsi distrarre dalla ricchezza dei colori, degli abbigliamenti e degli attrezzi rituali, poiché l’evento centrale e acustico, che può andare dal bisbiglio al linguaggio, dal canto fino al grido, costituisce l’autentico punto centrale del sacrificio. La parola – dice Schneider (p.14) – rende effettiva l’azione. Il suono costituisce l’unico legame tra i vivi e i morti, che sono i loro dei, e questo collegamento esprime quel che viene chiamato “espansione della parola” dove la forza canora, quale prima manifestazione di un pensiero, creò il mondo. Il suono – scrive ancora Schneider – della vibrazione primordiale sacrificò se stesso per diffondersi con un ritmo e trasformarsi in pietra e carne. Mi sembra importante questa idea del suono che sacrifica se stesso per dare luogo alla creazione, perché mi sembra faccia capire bene la contrapposizione che traversa il seminario di Lacan tra la serie divieto-castrazione-agente del divieto e quella separazione-cessione-taglio. Come nelle pietre che cantano non ci sono un sacrificatore e un sacrificato, ma un cedere la propria qualità sonora per realizzare il mondo, nella logica della cessione e del taglio non c’è un autore del taglio ma “il soggetto che cede alla situazione” (p.361). “Il momento più decisivo dell’angoscia di svezzamento non è che il seno manchi al bisogno del soggetto, è piuttosto che il bambino cede il seno al quale è attaccato come a una parte di sé”. Questo carattere eminentemente separabile appare ora con particolare chiarezza nell’oggetto vocale, perché nell’oggetto scopico questo aspetto rimane mascherato. Lacan conduce su questo punto un confronto serrato con la dimensione della pulsione scopica, dove il piano di analisi è quello dello spazio. L’idea di fondo è che nello spazio non c’è nulla di separato, che lo spazio è omogeneo – e nello spazio un corpo, che viene localizzato attraverso le coordinate cartesiane, è un punto. La funzione dello spazio implica, secondo Lacan, l’unità insecabile e puntiforme dell’atomo. L’interesse dello spazio è di resistere alla sezione, e il punto, come sua unità costitutiva, non può apparire in due posizioni diverse. È quel che Lacan definisce come l’essere inalienabile del punto, che proprio per questo non può essere l’oggetto a. In altri termini il piano scopico mette avanti piuttosto l’immagine nella sua forma i(a), l’immagine narcisistica dove l’oggetto a è velato, nascosto, mimetizzato. Per fare apparire la funzione di a nel campo visivo bisogna passare per la macchia. Può essere il neo, o può essere il mostro che appare sulla spiaggia nelle scene finali de La dolce vita. Può essere il tatuaggio, e può essere ancora la storia di Petit-Jean e della scatola di sardine che Lacan racconterà nel seminario dell’anno successivo. Sul piano scopico insomma, l’oggetto a è compreso nell’idea di un certo mimetismo, e appare solo con la forzatura della macchia. Al mimetismo dedicherà infatti attenzione Lacan nel seminario dell’anno successivo, affiancandolo al travestimento, al camuffamento e all’intimidazione, sulla traccia delle ricerche di Roger Callois. Se in tutto questo mettiamo in gioco la finalità sessuale, facciamo apparire fenomeni come la mascherata o l’adescamento. L’interessante di tutto questo sviluppo è però la ricaduta che ha sul piano concreto della clinica, perché implica una riformulazione e un rimodellamento della seduta stessa. Nella prospettiva dominata dal Nome del Padre, dove il desiderio dipende dal divieto e dove il Nome del Padre dà il senso della castrazione, la scansione della seduta ha il valore di una punteggiatura che ridefinisce il discorso del paziente a partire dal punto di capitone che vi determina. Nella nuova prospettiva, orientata dall’idea di una cessione, il taglio della seduta non ha più semplicemente la funzione di riconfigurare il senso, ma deve implicare una cessione di godimento o comunque almeno la prospettiva di una cessione di godimento. Ciò vuol dire che c’è una implicazione attiva del soggetto”. Non è lo psicoanalista che con il taglio provoca una perdita di godimento. Lo psicoanalista piuttosto orienta il lavoro verso una direzione in cui il soggetto, per l’appunto, è indotto a cedere alla situazione nel momento in cui cade il fantasma di qualcuno che si appropria del suo godimento. È la nuova prospettiva della psicoanalisi, in cui ancora oggi ci troviamo, e che ha grande valore anche per i programmi di psicoanalisi applicata che caratterizzano il lavoro del Campo Freudiano.
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