Conferenza tenuta a Vigo, presso la sede dell'Escuela Lacaniana de psicoanalisis, il 20 novembre 2015 di Marco Focchi Lacan legge il testo di Amleto seguendo il filo della sua riflessione sul desiderio, che ha cominciato a interrogare per criticare la prospettiva espressa in particolare da William Fairbairn. Rovesciando la concezione freudiana, Fairbairn formula l’idea che la libido non sia in cerca del piacere, ma dell’oggetto. Sono gli anni del ritorno a Freud, e Lacan prende come obiettivo critico questa affermazione. Passando per la rilettura dell’Interpretazione dei sogni per cercare la chiave freudiana del desiderio, rielabora il famoso sogno del padre che era morto ma non lo sapeva, oltre a quello della figlia, la piccola Anna, sulle fragole e la pappa, ed è qui, ritraversando l’Interpretazione dei sogni, che si imbatte nelle osservazioni di Freud su Amleto. Il punto di partenza della riflessione di Lacan su Amleto è quindi freudiana, ma sullo sfondo della ripresa di Freud c’è il seminario dell’anno precedente, Le formazioni dell’inconscio, con gli importanti sviluppi sulla metafora paterna e sul fallo, dove il problema della castrazione viene riformulato in termini di castrazione dell’Altro, e dove l’intervento paterno ha la funzione di separare il soggetto dalla posizione in cui si trova a essere il fallo della madre. Nella metafora paterna il problema, in prima battuta, nel rapporto con il fallo non è se averlo o non averlo, come appare nella narrativa freudiana, ma se esserlo o non esserlo. È in risonanza con questo spostamento d’accento che il to be or not to be amletico diventa per Lacan un interrogativo di portata cruciale. Potremmo infatti domandarci: to be or not to be…what? Ciò che si tratta di essere o non essere, per Lacan, è infatti il fallo.
Il punto di partenza di Lacan è freudiano quando sostiene che Freud ha detto con tale esattezza quel che si poteva dire su Amleto, che tutto quel che è venuto dopo, da Ernest Jones, a Ella Sharpe, a Otto Rank, sono solo ricami sul tema base impostato da Freud. Vedremo però che lo sviluppo del tema prende una direzione molto più complessa. Come tratta Freud, nell’Interpretazione dei sogni, il problema di Amleto? Lo tratta come un prolungamento dell’Edipo. Amleto è sulla stessa lunghezza d’onda di Edipo, lo innalza allo stesso livello di importanza dell’Edipo, e ne fa una lettura in chiave di desiderio per la madre. Naturalmente Freud non dice che Amleto è la stessa cosa di Edipo, ma semplicemente che presentano la stessa struttura soggiacente. Lacan inizia le sue lezioni riportando esattamente il lungo passaggio dell’Interpretazione dei sogni dove Freud cerca di spiegare le ragioni dell’esitazione nel compiere la vendetta di cui gli è assegnato il compito, che è il tema centrale di ogni interpretazione di Amleto. Freud riprende la spiegazione di Goethe, l’idea che l’azione sia paralizzata da uno sviluppo eccessivo del pensiero. In realtà l’interpretazione di Goethe, che segnerà la storia della lettura dell’Amleto, è più complessa, e vede in Amleto un delicato vaso prezioso in cui viene piantato un germoglio di quercia che non è in grado di sostenere, e che lo farà andare in pezzi. Amleto è un essere nobile, puro, morale, ma privo dell’energia virile necessaria al compito che gli spetta, e che risulta più grande di lui. Soccombe quando sotto un peso che non può reggere né respingere. Sappiamo come invece Freud noti che Amleto agisce senza esitare quando uccide Polonio e quando manda a morte Rosencrantz e Guildenstern. Le ragioni che gli impediscono di portare a compimento la vendetta chiestagli dallo spettro del padre devono quindi essere altre che non la sua debolezza e delicatezza, e stanno nel fatto che Amleto non può vendicarsi dell’uomo che ha tolto di mezzo suo padre prendendo il suo posto accanto a sua madre, perché egli desidera la stessa cosa. L’uomo che lui dovrebbe uccidere è l’uomo che ha fatto ciò che Amleto stesso, nei suoi desideri infantili, avrebbe voluto fare. Il senso dell’onore che dovrebbe spingerlo alla vendetta è così sostituito dagli scrupoli di coscienza e dai rimorsi che lo frenano. Possiamo in un certo senso dire che c’è un Amleto prima di Freud, fragile e inadatto la compito, e un Amleto dopo Freud, pieno di energia ma bloccato. La lettura freudiana dell’Amleto ha quindi profondamente influenzato non solo la comprensione del testo, ma la sua rappresentazione teatrale. In particolare una delle più note interpretazioni drammaturgiche dell’Amleto, quella di Laurence Olivier, fu fortemente influenzata dalla visione freudiana. Nel film del 1948 non può sfuggire la forte tensione erotica, nella scena della camera da letto, tra Olivier nella parte di Amleto, che all’epoca ha quarant’anni, e Eileen Herbie, di ventisette anni, che impersona Gertrude. Il modo in cui Olivier si muove sul corpo di lei fa pensare a una violenza carnale più che non pensiero omicida, il modo in cui punta il pugnale è più fallico più che non da assassino, e il rovesciato rapporto d’età dei due attori, dove una giovane recita la parte della madre di un uomo maturo, rafforza quest’impressione. Sappiamo d’altra parte dalla sua autobiografia che Olivier ha consultato Ernest Jones per la realizzazione del film. Nel film il sottotesto freudiano è continuamente leggibile e segna il distacco dell’interpretazione di Olivier da quelle ottocentesche, che presentano Amleto come sognatore, anima fragile. Olivier mette in scena un personaggio energico, vigoroso, disturbato soltanto dall’interferenza delle circostanze psicologiche che bloccano l’azione. Questo senso di energia appare per esempio nella scena finale dell’assassinio di Claudio, nel balzo dall’altezza di cinque metri che Olivier spicca sullo stuntman che impersonava Claudio, balzo in cui Olivier era consapevole di rischiare davvero la vita, ma per il quale non volle essere sostituito. In un certo senso, l’interpretazione di Olivier si riflette nella lettura di Lacan, nella parte in cui Lacan rifiuta di considerare il topos letterario che presenta Amleto come “personaggio moderno”. Sarebbero l’irresolutezza, la debolezza, l’esitazione a rendere Amleto moderno, rispetto agli eroi antichi, per esempio Agamennone, che non ha il minimo dubbio quando deve destinare Ifigenia al sacrificio o, se vogliamo un riferimento in un’altra tradizione, rispetto ad Abramo, che sente la voce di Dio e non si fa domande, porta Isacco sul monte Moriah per immolarlo. Seguendo questo criterio dovremmo però dire che John Wayne è il personaggio antico per eccellenza, che non deve pensarci un solo momento prima di balzare sui cavalli della diligenza in Stagecoach e prendere le redini della situazione, o che sa sempre dove c’è un Comance a cui sparare, in The Searchers. Lacan segue un’altra via per separare le fibre dalla tragedia, e la prima che prende è il sapere. Nelle lezioni precedenti Lacan ha commentato il sogno del padre che “era morto ma non lo sapeva”. Nell’Amleto il padre sa bene di essere morto, di essere stato ucciso per mano di Claudio, che ha preso il suo posto, e questa è una differenza fondamentale rispetto a Edipo. L’azione incestuosa e parricida di Edipo è compiuta in modo inconsapevole. Edipo non sa. In Amleto invece i delitti sono noti, sia a chi ne è vittima, sia a chi deve vendicarli. Occorre notare che già solo sottolineando queste differenze Lacan prende un’altra via rispetto a Freud nel diversificare le due tragedie. Anche Freud infatti, pur considerando che le due tragedie attingono allo stesso terreno dei desideri incestuosi, e si riferiscono a due elaborazioni della stessa materia attraverso una sorta di macrotesto che costituisce una sorta di “leggenda mediana”, malgrado il terreno comune pone le due tragedie su piani distinti. L’Edipo esprime apertamente gli impulsi che nell’Amleto sono rimossi, nascosti. Nell’Edipo vediamo raffigurato, come in una scena onirica, l’appagamento del desiderio che nell’Amleto rimane confinato nel conflitto nevrotico. L’Edipo è come un sogno, Amleto è come una nevrosi. Quel che nell’Edipo è esplicito nell’Amleto è occultato. Lacan prende una via in un certo senso opposta, perché la sua idea è che rispetto al sapere nell’Edipo, tutto avviene su un piano inconscio, l’eroe non sa, agisce senza sapere ̶ nell’Amleto l’eroe sa chiaramente. Amleto sa, e il padre sa, entrambi sanno e questa è la loro communauté de decillement, cioè hanno insieme gli occhi aperti ̶ e questo fa parte della difficoltà per Amleto di compiere il proprio atto. Tutto lo sviluppo della tragedia consiste dunque nel trovare la via per compiere l’atto impossibile, reso impossibile dal fatto che l’Altro sa. Edipo ha espiato il delitto che non sapeva di avere commesso, il padre Amleto, al contrario, non ha potuto espiare le colpe che sa di avere commesso, e Amleto si trova nella posizione di non potere espiare al posto del padre, di non potere pagare il debito da lui contrato – conosciamo questo tema, che costituisce l’ossessione dell’Uomo dei topi ̶ e al tempo stesso di non poterlo lasciare insoluto. Amleto si trova così in una posizione di stallo, e non potendo pagare il debito non può perdere la “libbra di carne”, che gli permetterebbe di accedere al desiderio. In effetti il problema di Amleto è la castrazione, ma in quanto mancata. Tanto l’Edipo quanto l’Amleto sono costruiti sul canovaccio comune delle rivalità tra padre e figlio, che è in fondo la sostanza del romanzo familiare freudiano. Nell’Amleto manca però all’interno del dramma la castrazione, e tutto il dramma, nel suo lento percorso, nei suoi ondeggiamenti, deve costruire qualcosa di equivalente a ciò che è mancato, ed è ciò che si realizza nell’azione finale, nel duello in cui Amleto soccombe insieme a Laerte. Amleto è la tragedia del desiderio, perché il protagonista perde la strada del proprio desiderio, e la perde per via della propria dipendenza dal desiderio dell’Altro, del desiderio della madre, con la sua voracità sensuale. Nella tragedia è chiaro il punto in cui Amleto smarrisce la strada del desiderio: è dopo il famoso monologo to be or not to be, quando si stacca da Ofelia allontanandola in modo brutale. Freud fa leva proprio su questa scena per definire isterico Amleto, per il disgusto che mostra nei confronti della sessualità. Ma su questo punto, direi, si apre un ventaglio di interpretazioni possibili e queste interpretazioni dipendono non solo dal testo, ma dal particolare genio, dalla disposizione dell’attore che interpreta Amleto. Lacan dedica una lunga riflessione all’interpretazione dell’attore, a quel che l’attore aggiunge rispetto alla lettura del testo. Per quanto riguarda il testo, quello di Shakespeare Lacan ce lo descrive come il contrario di quello di Joyce. Se Joyce è disabbonato all’inconscio, il testo shakespeariano è piuttosto il contrario, e può essere definito con le parole che Miller usa per dare il titolo al capitolo XIV: piege à desir, una trappola per il desiderio. Quello di Shakespeare è infatti un testo in grado di far entrare in risonanza l’inconscio, è una composizione in cui il desiderio può trovare posto, ed è strutturato con rigore in modo tale che possano proiettarvisi tutti i desideri o, come precisa Lacan, tutti i problemi che pone il rapporto del soggetto con il desiderio. Questo aspetto riguarda l’inconscio come discorso dell’Altro, ed è la dimensione trasmessaci dal poeta. L’attore invece, nella rappresentazione, mette il proprio corpo, cioè l’immaginario, ci mette cioè gli elementi che costituiscono l’alfabeto dell’inconscio. Qui entra in gioco una dimensione diversa da quella dell’azione, quella che Amleto non riesce a compiere, e diversa anche dall’azione scenica in quanto tale. L’azione, sappiamo, è il fondamento del teatro drammatico. Nel teatro drammatico è prevista infatti un’azione che si sviluppa in una storia, in un intreccio, e quello di Amleto è un intreccio particolarmente ricco. La drammatizzazione teatrale illustra poi i tratti di carattere che appartengono a personaggi messi in scena e mobilita le emozioni che rispondono a stati vissuti. Ha poi uno sviluppo lungo una linea dove si concentrano l’azione e la reazione, gli ostacoli da superare e le tappe man mano conseguite. Quando parliamo dello specifico apporto dell’attore, dobbiamo riferirci a un concetto diverso da quello di azione e, in una certa misura, contrapposto all’azione: è il concetto di gesto. Cos’è il gesto? È un concetto introdotto da Brecht nel suo scritto Kleines Organon für des Theater, dove è concettualizzato il teatro epico. Questo si contrappone alla concezione aristotelica, fondata sull’identificazione dello spettatore con i personaggi e con le azioni rappresentate. Brecht rifiuta tutto questo e punta piuttosto sull’effetto di estraniamento, sulla negazione della prospettiva che ritiene di offrire un rispecchiamento della realtà, e si prefigge invece di dare accesso alla conoscenza dei processi storici. Il gesto è al centro di questo dispositivo, ed è qualcosa di sociale, non di individuale: indica un intreccio di relazioni complesse in cui possa essere letta un’intera situazione sociale. Quando Roland Barthes commenta questo concetto brechtiano fa l’esempio di Madre Coraggio nel momento in cui la locandiera morde la moneta per saggiare se è buona. Questo indica la decisione di fare denaro con la guerra, una guerra dove perderà tutti i figli. Il gesto non c’entra quindi con l’intreccio e con l’argomento del dramma, se vogliamo considerare che l’argomento di Madre Coraggio è la guerra dei Trent’anni. Quando questo concetto è ripreso da Deleuze nel suo straordinario libro sul cinema, prende una torsione diversa, ed esprime una concatenazione di atteggiamenti. Implica il corpo, ma non il corpo esibito in posa statuaria, come quando il culturista mostra i muscoli. Si tratta del corpo teatralizzato, del corpo che, indipendentemente dall’intreccio, produce una drammatizzazione, perché esce dalla posa fa entrare nella dimensione del tempo: è il corpo che esprime il tempo, in un plesso di atteggiamenti. Se prendiamo il linguaggio di Lacan in questo seminario, nel gesto si manifesta l’inconscio reale dell’attore, che non essendo sul palco come la marionetta di cui il testo dell’autore deve tirare i fili, calca la scena con tutte le implicazioni della sua presenza fisica, che non sono solo espressive, ma mettono in gioco un’intensità. È attraverso la forza della sua presenza che possiamo percepire l’implicazione del desiderio. Vi ho detto prima come l’interpretazione di Laurence Oliver faccia sentire tutta la tensione erotica della closet scene, la scena nella camera da letto tra Amleto e Gertrude: l’inquadratura sui due volti in primo piano e il gesto violento con cui Amleto si sottrae alla calamita del desiderio materno. C’è però un’altra interpretazione monumentale, straordinaria dell’Amleto, sempre di un attore inglese, che sa portarlo in scena come se lo vedessimo per la prima volta: è l’Amleto di Kenneth Branagh, nel film del 1996, un film di quattro ore che si beve tutto d’un fiato. Nella versione di Branagh la tensione erotica non è affatto nella closet scene con Gertrude, interpretata qui da una splendida Julie Christie. Kenneth Branagh nel 1996 ha trentasei anni, e Julie Christie ne ha cinquantacinque. È un rapporto di età che si avvicina più realisticamente a quello tra una madre e un figlio di quanto non fosse nel film di Olivier. Nel film di Branagh la closet scene esprime piuttosto l’aggressività di Amleto, il senso di ostacolo che il principe incontra di fronte alla forza del desiderio di lei, la frustrazione delle sue inutile suppliche per non farla tornare nel letto di Claudio. La tensione erotica è invece messa completamente nella scena del distacco da Ofelia, dove fa vedere tutto il senso di costrizione, di forzatura, di violenza fatta su di sé per allontanarsi da un oggetto di desiderio sentito al tempo stesso irrinunciabile. Fa avvertire tutto lo strappo, il cuore spezzato nell’allontanare da sé una donna alla quale non rinuncerebbe per nulla al mondo, e mentre l’allontana la riprende e la bacia, e di nuovo la respinge, ma trasmettendoci tutto lo strazio che genera in lui questa ripulsa. Proprio per questo però fa trasparire con chiarezza un aspetto che Lacan mette bene in luce: che Ofelia è un’esca, è la donna-trappola mossa da Claudio e da Polonio per mettere Amleto nella rete. La scena si svolge in un ampio salone circolare pieno di specchi che possono essere o apparire porte. Amleto ha appena pronunciato il suo monologo to be or not to be davanti a uno specchio unidirezionale, dietro il quale sono nascosti Claudio e Polonio che lo osservano. A questo punto entra Ofelia, che non solo viene investita dalle dure parole di cui è tessuto questo dialogo, ma viene presa e sbattuta violentemente contro uno specchio, e noi spettatori vediamo la scena con gli occhi di Claudio e di Polonio, vediamo il suo viso appiattito sulla parete liscia del vetro, e quando, assalito dal sospetto, Amleto domanda: “Dov’è tuo padre” e lei risponde: “A casa”, lui la trascina con veemenza lungo tutta la parete, spalancando le porte-specchio una ad una, con furia, lasciandoci con il fiato sospeso, quasi dovesse scoprire i due spioni che origliano dietro la porta, anche se conosciamo la trama e sappiamo che non succederà. È chiaro tuttavia che Amleto si è reso conto di essere spiato, ha capito che Ofelia è uno strumento nelle loro mani, e che staccarsi da lei è il solo modo per portare a termine la sua missione. Nell’allontanamento di Ofelia non c’è una caduta del desiderio per fiacchezza, per disinteressamento, per rifiuto della sessualità. C’è strapparsi dal cuore qualcosa di imperdibile per arrivare in fondo al proprio compito. Ed è qui che Amleto, come dice Lacan, perde la via del desiderio, perché il suo desiderio resta senza oggetto, e quindi senza bussola, ed entra allora potentemente nell’orbita del desiderio della madre, ne diventa dipendente, viene da esso come risucchiato. In questa lettura, in fondo, la posizione di Amleto è molto meno incestuosa, di base, e il suo imprigionamento nel desiderio della madre è un effetto del distacco forzato da Ofelia. Lacan mette ben in luce come l’Amleto delinei un posto vuoto, sottolineando che se in questo le esperienze personali dell’autore non sono indifferenti, non sono tuttavia determinanti. Si dice infatti che, al tempo della stesura dell’Amleto, Shakespeare fosse afflitto dalla morte del padre, oltre che dal tradimento della Dark Lady dei suoi sonetti, chiunque essa fosse, Mary Fitton, una damigella d’onore di Elisabetta o, come sostengono recentemente gli studiosi, la prostituta Black Luce. Questo non è rilevante rispetto a quel che è la struttura della composizione. Lacan dice, a p.326, che Amleto è un personaggio di cui non riusciamo a sondare la profondità, e questo avviene non solo per via della nostra ignoranza, ma perché è composto in modo da delineare un posto in cui situare la nostra ignoranza. E, aggiunge, l’ignoranza situata non è qualcosa di puramente negativo, perché non è niente altro che la presentificazione del nostro inconscio. Ora, cosa vuol dire la “presentificazione del nostro inconscio” in questo caso? Lacan correla qui questa dimensione a qualcosa d’insondabile, che ci seduce senza che possiamo capire perché, senza che possiamo darne veramente delle ragioni. Questo testo è un gorgo in cui il nostro desiderio viene catturato, risucchiato senza che possiamo spiegarcelo. Evidenzia un punto di struttura che, nei capitoli successivi, Lacan riprende nei termini di S(Ⱥ) quando per la prima volta lancia l’idea che non c’è Altro dell’Altro. È nel punto dove c’è S(Ⱥ) che si rivela ̶ e per Amleto si rivela per bocca del padre ̶ l’insondabile, l’assoluto, l’irrimediabile tradimento dell’amore. Qui si manifesta ad Amleto l’assoluta falsità di ciò che gli era apparso come testimonianza della bellezza, della verità, dell’essenziale. Con i termini del Lacan successivo potremmo dire che qui c’è per Amleto l’incontro con la verità mentitrice, ma che Lacan già dice esplicitamente, quando afferma che S(Ⱥ) sigla il fatto che tutto quel che avviene a livello dell’Altro non vale nulla, o cioè che “toute verité est fallacieuse” (p.353). Questa risposta appare dolorosamente nella sfera del sensibile, del patetico, nella dimensione tragica che il testo espone, ma io credo che la forza del testo, della sua composizione, della struttura che presenta, sia anche di resistere al trattamento comico. C’è stato infatti un trattamento comico di Amleto, e il tentativo più interessante è quello di Tom Stoppard, con la commedia del 1967 “Rosencrantz & Guildenstern are dead” , diventata film nel 1990. Per fare un trattamento comico dell’Amleto è necessario fare uno spostamento radicale di asse dal desiderio al godimento, perché il riso che la commedia strappa non lascia il desiderio a bocca asciutta, e Tom Stoppard lo incentra questo spostamento su quelli che già nel testo di Shakespeare sono in effetti i personaggi comici, di cui Amleto si burla, Rosencrantz e Guildenstern. Nelle prime scene della commedia di Stoppard li vediamo avanzare in un indefinito luogo roccioso e selvaggio. Rosencrantz trova sul sentiero una moneta, la lancia, esce testa. La rilancia, ancora testa, poi ancora e ancora. Ad ogni lancio esce testa, Guildenstern allora comincia a preoccuparsi e a considerare se non siano entrati in un universo parallelo, dove le leggi della probabilità non valgono, o se il tempo non si sia fermato. L’ S(Ⱥ) si presenta qui come un disancoraggio dalle leggi che reggono l’universo, ed è un modo di mostrare i due personaggi non siano padroni del loro destino: anche questo è un modo di presentificare l’inconscio. I due infatti si chiedono se ricordino quel che è accaduto il mattino, e non ricordano se non di essere stati svegliati. Noi sappiamo che stanno andando al castello di Elsinor, chiamati da un messaggero di Claudio, mentre loro passeranno da una situazione all’altra senza averlo deciso o scelto, fino all’esito finale. Stoppard ci presenta quindi il lato comico in cui l’uomo è mostrato non essere padrone delle proprie azioni, come per altro verso non lo è Amleto delle sue, motivo per cui è bloccato nel suo compito. Cosa in realtà blocca l’azione di Amleto? È il quesito che traversa tutti coloro che se ne sono occupati, da Goethe a oggi. Vediamo infatti ̶ ed è una scena che Lacan commenta ̶ quando Amleto assiste alla partenza dell’esercito di Fortebraccio. Considera tra sé che quegli uomini trovano una spinta ad andare a sacrificare la propria vita per un motivo banale, per un fazzoletto di terra in Polonia, mentre lui avrebbe tutto a disposizione per agire, una causa sicuramente di maggior peso, avrebbe la volontà, la forza e i mezzi, e resta invece a rimuginare, a dire senza fare. Goethe ha visto in questo sovraccarico del pensiero l’impedimento all’azione. Ma la lettura psicoanalitica ci apre altre vie e quella che imbocca Lacan è quella del desiderio della madre. Da questo punto di vista Amleto e Claudio sono dalla stessa parte, con la differenza che Claudio è in una posizione migliore, poiché ha realizzato quel che Amleto può solo sognare. Questo aspetto rende ripugnante l’azione che deve compiere, perché non è un’azione disinteressata, non è ̶ dice Lacan ̶ kantianamente disinteressata. Su questa linea seguiamo in fondo ancora la direzione freudiana. Ma Lacan aggiunge l’idea ̶ non presente in Freud ̶ che per Amleto non si tratti solo del suo desiderio, non solo del desiderio di Amleto per la madre, ma del desiderio della madre, genitivo soggettivo. In questo senso svolge un ruolo chiaro la closet scene, l’incontro con la madre che avviene dopo la play scene. Nella closet scene, a Gertrude che si torce le mani, Amleto intima di smettere, perché quel che lui vuol fare è torcerle il cuore, metterla di fronte a quel che lei è. Prende allora i due medaglioni, quello che lui ha al collo con l’immagine del padre e quello che invece porta al collo la madre, con l’immagine di Claudio, li confronta, e afferma come il padre sia simile a Iperione, come porti il segno di tutti gli dei, mentre Claudio sia poco più che un tagliaborse, una canaglia che ha rubato il potere del regno e l’amore della regina. Amleto scongiura la madre di dominarsi, di riprendersi, di non entrare nel letto di Claudio almeno per quella notte, e che poi sarà l’abitudine ad aiutarla a rinunciarvi. La madre appare qui, secondo le parole di Lacan, come un con beant, come una che via uno dentro l’altro, dal funerale alle nozze non c’è stato un tempo di esitazione, il tempo di un lutto. La madre è un carattere genitale, e dopo la tempesta, le ingiurie, gli scongiuri, Amleto si arrende, abbandona la presa: il desiderio della madre non è dominabile, non può essere attenuato, temperato. Mai come in questa scena, dice Lacan, si sente la pertinenza della sua formula il desiderio dell’uomo è il desiderio dell’Altro, perché è un momento in cui Amleto si rivolge all’Altro non con la propria volontà, ma facendo leva sulla volontà del padre come rappresentante di questa volontà. È in questa scena infatti che abbiamo la seconda apparizione dello spettro, venuto ̶ come dichiara, per affilare una volontà che si sta indebolendo. Lacan dice che in questa scena è come se il soggetto volesse innalzarsi al livello della pulsione, sul secondo piano del grafo, e ricadesse invece semplicemente sul messaggio dell’Altro, dove l’articolazione dell’Altro può dare come unico messaggio il significato dell’Altro s(A), che è la risposta della madre ̶ ovvero: sono quel che sono, con me non c’è niente da fare, la mia sensualità non conosce lutto, tra l’immagine divinizzata del padre e quella dello zio, che è una spazzatura, lei non può fare nessuna differenza, non sceglie. E in un certo senso, l’indecisione, la dubbiosità di Amleto, la sua incapacità di scegliere il momento in cui agire, riflette il desiderio della madre, il suo non saper agire rispecchia il non saper scegliere della madre tra un oggetto degno e uno indegno. Non sa scegliere per via di una sorta di voracità pulsionale, perché resta sul piano di un godimento diretto, di un soddisfacimento del bisogno, che non giunge a simbolizzarsi nel fallo. Amleto perde la strada del desiderio perché entra nell’orbita di un desiderio strutturato come quello della madre dopo essere restato privo dell’oggetto che amava, dell’oggetto che aveva in Ofelia e che ha strappato da sé. In questo senso Lacan dice che il desiderio di Amleto è il desiderio del nevrotico, che può essere un desiderio isterico, dato il gran da fare che si dà per rendersi insoddisfatto, può essere ossessivo, perché l’ossessivo si trova di fronte a un desiderio bloccato. Amleto può essere l’uno o l’altro, non importa, giacché Amleto non è un caso clinico, e indica piuttosto puramente e semplicemente il posto del desiderio, come una plaque tournante ̶ espressione che Lacan aveva già usato per la fobia ̶ una plaque tournante, una piattaforma mobile in cui ciascuno di noi può ritrovare i tratti del proprio desiderio. Amleto deve passare attraverso il lutto, il lutto mancato della madre, la sua incapacità non solo di elaborare ma di sostenere la perdita, perché questa è la chiave per ricostituire l’oggetto. Se è vero infatti che il lutto consiste nell’introiezione dell’oggetto perduto, perché sia introiettato deve essere però costituito come oggetto, e qui, sul tema del lutto, entra in gioco Laerte. Vediamo allora come si costituisce l’oggetto attraverso la figura di Ofelia. Nell’Amleto di Branagh risulta in modo particolarmente chiaro come Ofelia sia manovrata per capire cosa gira in testa al principe di Danimarca. Amleto fa il pazzo, e ci si interroga su cosa abbia in mente. Lacan si appoggia a una delle fonti shakespeariane, Belleforest, dove Ofelia non è che una sgualdrina destinata ad attirare Amleto in un angolo della foresta per carpirgli alcune confidenze mentre qualcuno nascosto ascolta. È esattamente la scena che vediamo nella sala degli specchi, dove Claudio e Polonio nascosti ascoltano il discorso che Amleto rivolge a Ofelia. Anche in Belleforest lo stratagemma fallisce, perché la ragazza si innamora di Amleto. Naturalmente in Shakespeare tutto si trasforma e Ofelia resta indefinita, ha la figura di innocenza che si esprime con una semplicità ignara del pudore, o è una puttanella pronta a tutto. Agli occhi di Amleto Ofelia appare come l’immagine che usa per respingerla, come un’immagine di fecondità vitale in cui Lacan riconosce l’equivalente del fallo. Lacan considera comunque che Shakespeare porti a una potenza superiore la figura di cortigiana dipinta da Belleforest per carpire i segreti di Amleto, perché ̶ dice ̶ anche Ofelia è lì per interrogare un segreto, ma si tratta del segreto del desiderio, e il rapporto di Amleto con Ofelia ci permette di cogliere in modo particolarmente vivo l’articolazione del soggetto, in quanto parlante, con l’oggetto. E qui Lacan prende il filo del fantasma, di quella che Miller chiama la prima logica del fantasma, contrapposta a una seconda logica, quella che troviamo nel seminario XIV “La logica del fantasma”. La seconda logica del fantasma è quella che si sviluppa poi nel seminario XVI “D’un Autre à l’autre”, nella nozione di oggetto “a” come plus-de-jouir. Lacan prende quindi in seguito l’oggetto più a partire dalla pulsione, come godimento che soddisfa la pulsione che non come componente dello scenario immaginario. Nel seminario VI invece, la pulsione è ancora articolata in termini di domanda. La posizione nel grafo di S<>D è quella che Lacan definisce come codice. Nella pulsione il soggetto svanisce di fronte ai significanti in cui si articola la domanda. Nel fantasma il soggetto svanisce di fronte all’affiorare dell’oggetto. Ma, in quest’ultimo caso, è un oggetto pensato come immaginario, come ciò che viene al posto di quel che al soggetto manca, cioè il fallo. Per questo nella descrizione del personaggio di Ofelia Lacan può spiazzare, perché per un verso la definisce come il fallo, mentre per altro verso la identifica con l’oggetto “a” del fantasma. Credo però che questo corrisponda a due precise posizioni logiche di Ofelia: nel fantasma Ofelia è il fallo, quando deve essere sacrificata, quando Amleto si strappa da lei e inizia a smarrire la via del desiderio, ma si costituisce poi come oggetto con la scena del cimitero, a cui Lacan dà un ruolo chiave, pari a quello della camera da letto con la madre. Lacan passa un certo tempo poi a spiegare la posizione del fantasma nel suo grafo, posizione su cui prende appoggio la questione, l’interrogativo del soggetto. Il fantasma è il punto su cui si arresta il desiderio, e che resta nel circuito del piano alto del grafo, separato da quello che il soggetto ha a propria disposizione sul vettore s(A)→ (A) dove, diciamo, il soggetto è padrone a casa propria. Il fantasma non entra nel messaggio dell’Altro s(A). La via tra S(barrato) a e s(A) è normalmente chiusa. Ci sono tuttavia alcuni momenti di sbilanciamento della struttura soggettiva, per esempio nei fenomeni di depersonalizzazione, in cui questa soglia viene varcata. Ne abbiamo l’esempio proprio nel momento in cui Amleto si presenta pallido e in disordine di fronte a Ofelia. È la famosa descrizione che abbiamo per bocca di Ofelia: “Pallido come una camicia, con i ginocchi tremanti, mi stringe forte il polso, mi scruta il volto ed emette un sospiro profondo che pare scuotere tutto il suo essere”. Lacan parte da qui per descrivere i tre tempi della costituzione di Ofelia come oggetto. Il primo è l’estraniamento, e coincide con un tempo di disorganizzazione soggettiva che si realizza quando vacilla il fantasma facendo apparire i propri elementi, e dando luogo all’esperienza di depersonalizzazione. Questo avviene quando elementi immaginari del fantasma varcano la soglia che li separa dal livello del messaggio s(A) e cioè dell’immagine dell’altro i(a). Sono gli aspetti sfruttati dalla letteratura del fantastico, relativi alla struttura dell’Unheimliche, che non dipende quindi da un’irruzione dell’inconscio, ma da un disequilibrio del fantasma. Perché questo costituisce il primo tempo nella costituzione dell’oggetto? Perché produce uno sbilanciamento del fantasma verso l’oggetto perverso, dice Lacan, e in quanto tale Ofelia non può più essere trattata come prima, come una donna. Qui si produce allora il secondo tempo, che Lacan chiama di esteriorizzazione del fallo. Il fallo come simbolo significante della vita viene esteriorizzato e rigettato. La distruzione, o la perdita d’oggetto è reintegrata nel quadro narcisistico. Questo è splendidamente reso da una delle più sconcertanti interpretazioni dell’Amleto, quella di Carmelo Bene. La tragedia di Amleto si sbriciola sotto la potenza interpretativa di Carmelo Bene, che spoglia la recitazione di ogni retorica, la colma di ironia, ma ne rende la struttura con una purezza scheletrica riempita di potenza vocale. Nella scena del ripudio la figura di Ofelia è sdoppiata. Insieme a Carmelo Bene ci sono due attrici in scena. Una è accanto a lui e intermezza il dialogo baciandolo e abbracciandolo, l’altra è ai suoi piedi, e lui la riempie di schiaffi. All’attrice che bacia Amleto-Bene suggerisce le battute che lei ripete come incespicandosi, mentre lui le mette letteralmente in bocca le parole con cui deve rispondere. Abbiamo dunque un’Ofelia che è un manichino narcisistico, e che lui anima come un Pigmalione, e un’Ofelia disprezzata, ridotta a ricettacolo di figli. Il secondo tempo è quello delle due Ofelie, quella amata ora come specchio di se stesso, e quella amata “una volta”, ora schiaffeggiata e respinta. Quella di Carmelo Bene è il contrario dell’interpretazione di Branagh, che fa sentire tutto l’insopportabile dolore del distacco, perché divide, separa ciò che tiene e ciò che getta. Il terzo tempo è la scena del cimitero. Per Lacan questa scena è fondamentale perché Amleto possa ritrovare la via del desiderio. Nella scena del cimitero assistiamo a una furiosa battaglia sul fondo di una tomba, perché Laerte si getta sul corpo di Ofelia prima che la terra la ricopra, e Amleto non sopporta l’eccesso di questa manifestazione del lutto, ma proprio a partire da qui può iniziare la propria elaborazione del lutto. Lacan dice infatti che si tratta di un lutto assunto nel rapporto narcisistico tra “a” e l’immagine dell’altro i(a). È vedendo Laerte gettarsi ad abbracciare Ofelia morta che Amleto si presenta, esce dal nascondiglio e proclama “This is I, Hamlet the Dane”. È il momento in cui Amleto si presenta usando un appellativo insolito per lui, Amleto il Danese, e si presenta come soggetto diviso, come S(barrato) di fronte a Ofelia oggetto “a”, qui non oggetto respinto ma perduto, e nella misura in cui è perduto si chiude la catena dei tre tempi di costituzione dell’oggetto. Il tempo di sbilanciamento del fantasma, da cui eravamo partiti, ritrova ora il proprio asse bilanciandosi sull’oggetto perduto, e a partire da qui Amleto può ritrovare la determinazione necessaria per portare a termine il proprio compito. Sappiamo però che il compimento del proprio atto viene insieme alla sua morte, nel culmine della tragedia. Qui Laerte ha una funzione essenziale. È il rivale ma è anche l’alter ego. Amleto è sfidato in una gara, che è una trappola ordita da Claudio e da Laerte perché nel duello che stanno preparando uno dei fioretti non avrà la punta coperta, e sarà per di più avvelenato. In questa contesa ̶ dice Lacan ̶ Amleto entra senza fallo. Siamo al punto culminante del problema di tutta la tragedia, che è di situare la mancanza. Lacan, in effetti, non presenta qui il fallo come indicizzato della fecondità della vita, ma come strumento per dare la morte, e questo strumento Amleto lo riceve dall’altro. Il trucco scenico è infatti che il fioretto in mano a Laerte è quello a punta scoperta e avvelenata. Quando, dopo essere stato toccato tre volte, Laerte ferisce a tradimento Amleto con la punta avvelenata, quest’ultimo lo assale e lo disarma, ma per continuare il combattimento gli lancia il suo fioretto raccogliendo quello di Laerte. A questo punto succede un po’ il contrario della lettera rubata di Poe, perché nulla va a destinazione: il veleno preparato da Claudio per Amleto nella coppa viene bevuto da Gertrude, e il fioretto avvelenato finisce in mano ad Amleto per colpire Laerte. Su questo scambio di fioretti c’è un particolare davvero interessante che Lacan mette in risalto. Preparandosi al duello, quando vengono distribuiti i fioretti, Amleto fa un gioco di parole dicendo a Laerte “I will be your foil, Laërtes. In mine ignorance your skill shall, like a star in the darkest night, stick fiery off indeed”. Cioè “Io sarò il tuo fioretto”, ma foil è anche la lamina sullo sfondo della quale si fa risaltare un oggetto prezioso. E Lacan traduce proponendo il termine “ecrin”, l’astuccio sul cui fondo viene presentato il gioiello. Ma in inglese foil è qualcosa di più ancora, è la “spalla”, cioè l’attore che presta le battute al comico protagonista per farlo risaltare. Amleto da così ironicamente a Laerte il ruolo di protagonista, e lui sarà la spalla necessaria a far risaltare il suo valore. Laerte è quindi l’alter ego, l’immagine i(a) è finalmente un rivale degno che permette ad Amleto di mettersi in gioco come uomo, e se ora può prendere in mano il foil, lo strumento mortale, il fallo con cui dare la morte, è perché ̶ dice Lacan ̶ c’è stata la scena del cimitero, dove Ofelia come oggetto perduto riprende valore permettendogli di riequilibrare il fantasma. Al tempo stesso si pone qui per Lacan la questione del lutto: l’oggetto disprezzato riacquista valore quando diventa impossibile, quando è irreversibilmente perduto. Il lutto apre un buco nel reale, è la formula che usa Lacan a questo proposito. I rituali del lutto hanno la funzione di compensare questo buco con dei significanti, di evocare la memoria del morto, di innalzarne l’immagine, ma nulla può colmare di significanti questo buco se non la totalità del significante (p. 398). Cosa vuol dire? Qui Lacan ricorre al testo di Freud sul tramonto del complesso edipico: l’Edipo declina quando il soggetto si rende conto che non c’è più nessun soddisfacimento possibile da aspettarsi dal fallo, e comincia a farne il lutto. Quali sono gli oggetti di cui si può fare il lutto, si domanda Lacan? Qualunque siano, tra questi il fallo ha un posto particolare, diverso da tutti gli altri. Nei termini di Freud, nell’Untergang, nel tramonto, egli sostiene che “se il soddisfacimento dell’amore sul terreno del complesso edipico deve costare la perdita del pene, è inevitabile il conflitto tra l’interesse narcisistico per questa parte del corpo e l’investimento degli oggetti genitoriali. In questo conflitto la vittoria arride normalmente alla prima delle due forze e l’io del bambino si distoglie dal complesso edipico”. L’abbandono degli investimenti edipici è per Lacan l’evento che fonda la soggettività e di ciò che ha dato in sacrificio il soggetto deve farne il lutto, e con un riferimento all’esistenzialismo, definisce il soggetto come quel che introduce una moltiplicazione, che riguarda ciò che il soggetto non è, cioè non è il fallo. È quel che manca alla posizione di Amleto nel corso della tragedia: gli manca di non essere il fallo, e cioè di poter situare la castrazione, il fallo per lui non è collocato nel registro simbolico, e proprio perché non è inscritto nel simbolico mantiene una visibilità come reale e si costituisce così come impedimento all’azione per via della natura narcisistica di cui parla Freud nell’Untergang. È il motivo per cui Amleto non può colpire Claudio, in quanto portatore del fallo reale. Quel che si tratta di colpire è il fallo reale. E Amleto si ferma sempre. Quel che fa deviare costantemente il braccio di Amleto è quello stesso legame narcisistico di cui parla Freud nel suo testo sul tramonto dell’Edipo. Amleto non può colpirlo se non nel momento in cui, anche senza volerlo, ha compiuto completamente il sacrificio narcisistico, come avviene appunto nella scena conclusiva. Sparisce così l’oggetto-fallo, quello che legando a sé, nel reale, il desiderio della madre, non consentiva l’accesso alle funzioni soggettive, e appare il fallo come significante, in quella che Lacan chiama “fallofania”, termine con cui Miller dà il titolo all’ultimo capitolo del seminario che ha per oggetto Amleto: con l’apparizione del fallo nel registro simbolico la tragedia ha compiuto il suo corso, ed è ormai il momento per Fortebraccio di occupare la scena.
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