di Marco Focchi Testo presentato il 24 aprile 2008 al Congresso AMP di Buenos Aires Ho sempre trovato affascinanti i classici affreschi postfreudiani d’inizio analisi, che dipingono un analista silenzioso, come innalzato su un piedestallo, apparentemente irraggiungibile, a cui il paziente si rivolge senza ottenere risposta. Se il paziente fa una battuta l’analista non ride, se racconta con grande pathos una scena drammatica che lo ha travolto l’analista gli fa domande su dettagli irrilevanti, se chiede un consiglio gli viene negato, se cerca di provocare non ottiene reazione. L’analista sembra qui appartenere a una dimensione sacrale, dove nulla del mondo in cui viviamo lo tocca. Questa innaturale passività man mano finisce per irritare il paziente, per generare in lui collera e senso di frustrazione. Ma proprio questa è la risorsa: la frustrazione induce regressione, il paziente s’infantilizza e cerca modi sempre più puerili di ingraziarsi l’analista, di avere da lui un qualunque segno, se non d’amore, almeno di attenzione. Quando la regressione è giunta alle fasi germinali dell’esistenza soggettiva, avendo traversato tutti i fraintendimenti e tutti gli errori nella comprensione e nella gestione di sé, dopo avere ammesso questi errori e perdonato quelli degli altri, riconosciute come irrealistiche le proprie pretese, gradualmente il paziente accantona gli infantilismi, la regressione si inverte e comincia la scalata trionfale di una nuova crescita.
La democratizzazione della vita moderna ha reso desueta questo tipo di figura d’analista quasi immateriale – come sospeso in una bolla di sapone forse destinata a evaporare con la liquidazione della traslazione – e ha lasciato il posto alle relazioni egualitarie degli intersoggettivisti, senz’altro più empatici con le variazioni umorali dei pazienti. L’analista ieratico-sacramentale illustra tuttavia un algoritmo perfetto: passo primo, mostrare un’impassibilità inossidabile; passo secondo, indurre la regressione nel paziente; passo terzo, lasciarla lavorare fino al punto d’inversione e di risalita. Lacan, all’epoca de La direzione della cura, si è impegnato nel dibattito con questa impostazione della psicoanalisi, che ho definito classica, e ha sentito la necessità di contrastare l’automatismo di questo algoritmo. Il tema della rettifica soggettiva viene per l’appunto a indicare che la traslazione non sorge spontaneamente da un’automatismo, ma si sviluppa a partire da una correzione di prospettiva che è posta all’inizio, e non alla fine del percorso. Quando, nella Proposta del 9 ottobre, Lacan dice che all’inizio dell’analisi è la traslazione, dobbiamo dunque mettere in conto che è un inizio a cui va dato inizio, e che il suo innesco non è l’impassibilità, ma piuttosto un atto. Solo dopo quest’atto si avvia quel che siamo soliti chiamare l’algoritmo della traslazione. E a questo punto, nei casi felici, le cose partono davvero, e l’analisi prende la via del largo. Il paziente allora associa copiosamente, mostra fiducia nei confronti dell’analista, gli attribuisce intenzioni nascoste dietro i gesti più insignificanti, fondate sui presupposti di un sapere, nascosto ai suoi occhi, che gli attribuisce come depositario della lettera del suo inconscio. Per parte sua, l’analista, come suggerisce Lacan, segue una rigorosa concatenazione di lettere che, a condizione di non mancarne neanche una, si ordina come il quadro di un sapere. Domandiamoci però se, presa così, anche questa descrizione non abbia un po’ un tono d’affresco, che rappresenta forse un’altra classicità, ma in modo altrettanto oleografico. D’altra parte, proviamo a immaginare un’analisi che continuasse troppo a lungo su questo abbrivio, dove l’associazione libera funziona sempre, dove va con il vento in poppa, dove naviga sulla coordinata che Miller – nel suo seminario su La traslazione negativa – ha definito come il lato che nella traslazione è rivolto all’alienazione. Un analista non avrebbe di che esserne troppo contento: si sa che sono i casi in cui le cose girano da sole, ma sono anche quelli in cui girano a vuoto. L’algoritmo funziona ma non morde su niente di reale, non c’è uno step di chiusura. Consideriamo ora che in un trattamento terapeutico efficace le cose si svolgono in un maniera molto diversa da quella che potrebbe essere data dal modello di funzionamento dei computer. Un glitch in un computer non è una catastrofe, non è un crash, è un guasto di breve durata nel sistema operativo, uno iato nelle connessioni logiche dell’algoritmo, è un inciampo lieve, ma sufficiente a impedirci di lavorare. Un glitch nell’algoritmo della traslazione è invece qualcosa che aspettiamo proprio per cominciare a lavorare, perché a partire da lì le cose si fanno serie, a partire da lì possiamo iniziare a vedere l’altra coordinata della traslazione, quella sul lato della separazione, quella in cui si manifesta la realtà sessuale dell’inconscio. Come sempre, e come Freud ci ha fatto alla fine vedere, la sessualità costituisce un intoppo per le cose umane, e il glitch nell’algoritmo della traslazione appare come l’epressione fenomenica del non rapporto. A differenza dell’algoritmo perfetto funzionante per l’analista sacramentale, è essenziale che l’algortimo lacaniano della traslazione sia abbastanza imperfetto da contenere un glitch, un contrattempo che interrompe la rigorosa concatenazione di lettere disordinando il quadro di un sapere per far emergere l’assenza di rapporto. Naturalmente sorge il problema di come trattare, nella pragmatica della cura, qualcosa di così radicalmente evasivo rispetto al sapere e alle sue prescrizioni. C’è un passaggio, in un intervento di Lacan al Congresso su La trasmissione, nella seconda metà degli anni Settanta, che ci può forse essere utile in questa direzione. Lacan si domanda com’è che alcune persone guariscano attraverso l’operazione significante, e sostiene con modestia, falsa o vera, di non saperne niente. Si tratta – dice – di un trucco. Il modo in cui si sussurra all’orecchio della persona in analisi qualcosa che ha l’effetto di guarirlo è questione d’esperienza, ma sicuramente – aggiunge – nella faccenda svolge un certo ruolo il soggetto supposto sapere. E dopo avere creato questa suspense prosegue e scopre le sue carte: il soggetto supposto sapere è qualcuno che sa, sa il trucco per guarire la nevrosi. Credo che tutti noi vorremmo sapere qual è questo trucco, la conoscenza del quale faciliterebbe grandemente la nostra pratica clinica. Ma evidentemente non è come quei trucchi da prestigiatore che affascinano il pubblico, che si possono mettere in un manuale e con i quali si può acquisire destrezza, attraverso un paziente esercizio, per far colpo nei giochi di società. Questo tipo di abilità spettacolare è piuttosto quel che, nel nostro mondo mediatizzato, si richiede allo psicoterapeuta assiduo degli show televisivi: “Mostraci il cappello da cui tiri fuori i tuoi splendidi conigli bianchi!” Trucco mi sembra invece sia qui un’idea che possiamo interpretare nel senso di ciò che abitualmente chiamiamo parvenza. Possiamo star certi che quando l’analista si limita alle chiacchiere – dice Lacan poco più avanti – non arriva a nessun risultato. Proprio perché non basta chiacchierare, nel trucco possiamo allora scorgere qualcos’altro, l’oggetto come parvenza, quella parvenza che viene al posto dell’assenza di rapporto sessuale. Per dir le cose fino in fondo non si tratta, in realtà, di un trucco destinato ad avere successo, come quello del prestigiatore, fatto per incantare, per illudere, per distrarre l’attenzione. Si tratta per noi piuttosto del trucco, o della parvenza, che vacilla rivelando dove le cose fan cilecca. È forse in questo glitch – inconveniente ma non catastrofe, impedimento ma non impotenza nevrotica, disturbo ma non paralisi della vita annegata in un mare di sofferenza – è forse in questo piccolo scoglio nella concatenazione logica che possiamo vedere l’equivalenza, a cui Lacan accenna nella Proposta del 9 ottobre, tra l’algoritmo della traslazione e l’agalma? L’algoritmo imperfetto, in questo caso, contiene il proprio punto d’inciampo, dove affiora l’oggetto come parvenza soltanto per condurci all’impossibilità del rapporto, giunti al quale ciascuno deve inventarsi il trucco del proprio sinthome.
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