di Marco Focchi Lacan conduce un grande lavoro di ripensamento della psicoanalisi lungo tutto il corso dei suoi seminari che passa – in particolare in quel che chiamiamo il suo ultimo insegnamento, a partire dagli anni ’70 – attraverso un serrato confronto con diversi campi del sapere e con la filosofia. Lacan cita, e commenta in modo memorabile, soprattutto Platone, Aristotele, Cartesio, Kant, Hegel, Kierkegaard e Heidegger. Con tutti questi filosofi Lacan dialoga, anche se non con tutti con la stessa intensità. Il filosofo che ha dato l’impronta decisiva alle riflessioni di Lacan negli anni fino al ‘60 è certamente Hegel. Avendo frequentato i seminari di Kojeve su Hegel, Lacan ne assorbe i concetti, e li riformula alla luce della clinica psicoanalitica. L’anima bella, l’infatuazione, la legge del cuore, sono tutti temi hegeliani trasformati da Lacan in concetti clinici, e che contrassegnano la prima parte del suo insegnamento. Qualcosa poi comincia a cambiare, e si sente in particolare nel seminario del ‘62-‘63 sull’angoscia, quando Lacan comincia a modificare lo schema hegeliano di Signoria e servitù da cui Kojeve desume la formula: ”Il desiderio dell’uomo è il desiderio dell’altro”. Nella problematica hegeliana della lotta di puro prestigio con l’altro per far riconoscere il proprio desiderio, l’altro è ancora una coscienza, e la posizione tra le due coscienze è simmetrica. Lacan fa entrare in gioco, in questo confronto, attraverso l’inconscio, l’idea di una mancanza che dissimmetrizza lo schema hegeliano. Nelle formule di Hegel, fronteggiandosi, il soggetto e l’altro sanno cosa vogliono, e vogliono farlo riconoscere. Nella formula di Lacan, l’inconscio fa entrare un margine di non sapere: l’altro che il soggetto ha di fronte non è semplicemente una figura in carne e ossa, è uno schermo, è lo schermo del fantasma. L’altro che si ha di fronte è un Altro incompleto, dove qualcosa fa da punto d’arresto alla risoluzione dialettica del confronto.
Ci sono quindi una serie di temi, che vanno dall’introduzione di un Altro incompleto alle critiche dell’intersoggettività, all’introduzione del fantasma nel circuito in cui il desiderio dell’uomo è il desiderio dell’altro. Queste aggiunte di Lacan alla problematica hegeliana spostano il piano dell’analisi da una logica di riconoscimento a una logica di soddisfacimento. Non a caso infatti, nella rielaborazione di Lacan, la macchina della dialettica hegeliana s’inceppa quando trova nei proprio ingranaggi il granello di sabbia dell’oggetto a, che non riesce a macinare. Il seminario sull’angoscia è infatti quello in cui Lacan da uno statuto reale all’oggetto a, ne fa il condensatore libidico presente nel fantasma, dove il fantasma è ciò che non risulta interpretabile. In altre parole l’oggetto è ciò che non viene riassorbito dal sistema significante, è ciò che resiste all’operazione di senso e che richiede quindi un altro piano operativo della psicoanalisi, che Lacan identifica nella nozione di atto psicoanalitico. Ora, l’atto psicoanalitico è ciò che decompleta il sistema significante, ed è ciò che costituisce il perno dell’antifilosofia, di cui Lacan parlerà negli ultimi anni del suo insegnamento. L’atto psicoanalitico infatti si costruisce rovesciando il cogito cartesiano. “Dove sono, lì penso” diventa: “Penso dove non sono”, “Sono dove non penso”. Questo rovesciamento del cogito cartesiano è il perno dell’antifilosofia a cui si riferisce Lacan, perché mette un cuneo nella coincidenza di pensiero ed essere, sulla cui base, a partire da Parmenide, si fonda la tradizione occidentale. È la ragione per cui Lacan considera la filosofia come una variante del discorso del padrone. La filosofia è il pensiero dell’essere, un pensiero che tocca le cose, le domina. Il linguaggio aggancia la cosa, questo è, in fondo, la posta in gioco delle stupefacenti etimologie del Cratilo. Il linguaggio può toccare le cose e prenderne possesso. La stessa ambizione, in modo amplificato e sconcertante, si presenta con il progetto tecnico-scientifico contemporaneo, teso ad appropriare tutto l’essere in termini di disponibilità. Lacan ha sempre voluto ben delimitare i confini tra la psicoanalisi e la filosofia. Lo vediamo per esempio nel 1955, quando dice: “Il mondo freudiano non è un mondo di cose, è un mondo del desiderio in quanto tale”. O ancora quando, nel Seminario XX dice: “L’io non è un essere, ma la traccia di una rottura nell’essere”. E, ancora nel seminario XX: “Ci sono rapporti d’essere che non si possono sapere. Nel mio insegnamento ne interrogo la struttura”. Questo sapere è censurato, vietato, ma lo si può attingere attraverso gli equivoci .”Si tratta di denunciare a quale sorta di reale ci consente l’accesso”. Occorre qui tenere presente la differenza tra essere e reale, che ha tutto il suo valore quando si considera l’importanza di Kierkegaard per Lacan. Considerando l’attenzione che, come abbiamo visto, Lacan pone a delimitare il campo della psicoanalisi da quello della filosofia, già presente nei tempi in cui attinge pienamente al testo di Hegel, Kiekegaard viene ad assumere un ruolo particolare a partire dal suo ridimensionamento dell’hegelismo con il seminario sull’angoscia. La dialettica, come abbiamo rilevato, trova un punto d’inciampo nell’oggetto a, che incarna la dimensione pulsionale restia a entrare nel gioco significante. La critica di Lacan investe quindi il concetto che è al cuore della dialettica hegeliana, il concetto di Aufhebung. Dice per esempio in Posizione dell’inconscio, a p. 837: “È la nostra Aufhebung che trasforma quella di Hegel”. Sappiamo, d’altra parte, che l’Aufhebung è il concetto da cui parte anche la critica di Kierkegaard. Da essa Kierkegaard prende lo spunto infatti, nello scritto su La ripetizione, e proprio la ripetizione diventa la chiave di volta che gli permette di superare la categoria hegeliana di mediazione. Questo aspetto viene fatto proprio da Lacan. Ne troviamo specificamente menzione in quella che è l’ultima citazione di Kierkegaard fatta da Lacan, nel seminario RSI, il 15 febbraio 1974: “In seguito a un’estenuazione filosofica tradizionale il cui vertice si trova in Hegel, qualcosa è rispuntato sotto il nome di Kierkegaard. Sapete che ho già denunciato le conseguenze [di quel che c’è in Kierkegaard] con l’esperienza apparsa più tardi in Freud, la promozione dell’esistenza in quanto tale. Pensate alla valorizzazione in quanto tale della ripetizione come più fondamentale nell’esperienza, che non ha risoluzione della tesi-antitesi-sintesi su cui Hegel tramava la storia. Il punto di riferimento di questa funzione si trova nel godimento. Le relazioni vissute da Kierkegaard sono quelle di un nodo mai confessato di suo padre con la colpa”. Questo fatto inquadra in una cornice ampia i temi del rapporto tra Lacan e Kierkegaard: c’è la valorizzazione della ripetizione rispetto alla dialettica hegeliana, c’è il tema dell’esistenza, cioè tutto ciò che si contrappone al generico pensiero oggettivante delle scienze. C’è il riferimento al godimento, e al padre nella sua relazione con la colpa. Prendiamo per cominciare la ripetizione. Quando nel seminario del 19 gennaio ’55 Lacan evoca per la prima volta Kierkegaard in riferimento a questo, suggerisce ai suoi ascoltatori la lettura del testo di Kierkegaard, aggiungendo che coloro che non hanno molto tempo, possono leggere almeno la prima parte. Ciò è abbastanza significativo perché, in fondo, la prima parte, secondo quando Kierkegaard ne ha detto, consiste nel porre il problema, la cui soluzione giunge solo nella parte finale. Nella prima parte Kierkegaard mostra l’impossibilità della ripetizione, mostra come sia vano tentare di ricostruire una situazione che ci ha dato piacere una volta, mostra come il calcolo meticoloso, il seguire le tracce di un piacere incontrato una volta sia vano e vada solo incontro al fallimento. Nella seconda parte invece, sul modello del libro di Giobbe, la ripetizione viene incontrata come restituzione: ciò che è perduto è riacquisito due volte. Il giovane innamorato di cui l’autore riceve le confidenze viene a sapere che la donna che non si decideva a fare sua, si è sposata, e questo lo restituisce a se stesso. “Sono di nuovo me stesso”, dice, e il tema del secondo capitolo è per l’appunto: “La discordia che era in me si è placata!”. La ripetizione non può compiersi nel tempo, e può realizzarsi solo nell’eternità. È l’aut-aut kierkegaardiano, la disgiunzione assoluta tra tempo ed eternità, rispetto alla quale s’impone una scelta. Il carattere di questa scelta sarà ulteriormente illustrato dal cavaliere della fede in Timore e tremore. Il tema della scelta non è alieno a Lacan, ma possiamo capire che la soluzione prospettata da Kierkegaard nel secondo capitolo de La ripetizione non sia fatta per soddisfarlo: il teorico del soggetto diviso non può appagarsi di questa restituzione a se stesso, di questa sorta di disalienazione, perché – lo articolerà più tardi, ma possiamo vederlo come anticipazione – ciò che fa da complemento all’alienazione in Lacan non è la disalienzaione, ma la separazione, cioè un recupero di godimento, o meglio di plusgodere, che non solo non implica una restituzione raddoppiata, ma che neppure cancella la perdita di godimento originaria. Troviamo dunque che il godimento è sia punto di riferimento a cui la ripetizione ritorna, sia – come éteron radicale – ciò che è perduto e irrecuperabile nella sua forma originaria. La ripetizione è mossa dalla domanda che cerca questo godimento e che, muovendosi, man mano lo ritrova ogni volta solo come punto di nuovo svanimento. Non c’è via di ritorno, non c’è un al di qua del trauma generato dall’incontro con il linguaggio. È tra l’altro quel che fa la differenza tra la prospettiva di Lacan e quella di Ferenczi. Il tema della ripetizione s’intreccia strettamente con la vicenda che si svolge tra Kierkegaard e Regina, in cui vediamo riapparire la struttura connessa con la colpa del padre. Sappiamo che Kierkegaard si fidanza con Regina e, appena compiuto il passo, sente di aver fatto un errore. Passa un anno di dubbi e di tormenti, fino a che, violando tutte le convenzioni borghesi, riesce a rompere il fidanzamento. La rinuncia alla donna in carne ed ossa crea però la donna letteraria, dalla quale Kierkegaard non divorzierà mai. L’impossibilità di continuare con la Regina concreta crea l’eternità della Regina sublimata, il monumento che la perpetua in parole. Potrebbe sembrare una situazione simile a quella del carteggio tra Kafka e Felice, dove Kafka riesce a mettere migliaia di lettere tra sé e la donna. Kafka stesso nota la somiglianza del suo comportamento con quello del filosofo danese, e a un certo punto si rivolge alla lettura di Kierkegaard quasi in cerca di risposte ai propri interrogativi. Ma Kafka è più carnale: la sua attrazione e avversione per il femminile sono molto più trasparenti. Kafka inoltre non si è mai privato della concreta compagnia delle prostitute di Praga, presso le quali trovava distrazione, ed è riuscito anche – al limite estremo della sua vita – ad avere una convivenza con una donna, con Dora Diamant. La difficoltà di Kafka con il matrimonio è legata al fatto che ciò stesso che costituisce il motivo d’attrazione per la donna – una certa sudiceria e lascivia su cui è esplicito in alcune lettere a Milena – è ciò stesso che gliela fa respingere. La ginofobia di Kierkegaard è di tutt’altra natura. È interessante considerare il primo incontro di Kierkegaard con Regina. Avviene nella primavera del 1837 nella casa di un amico teologo, Peter Rodam, che ha tre sorelle in età di matrimonio: Elisabeth, Emma e Bolette. Il giorno di maggio in cui Kierkegaard rende visita alla famiglia Rodam, è presente anche un’ospite, una ragazza quattordicenne di nome Regina. La visita lascia una forte impressione in Kierkegaard, e la sera scrive in una pagina del suo diario: “Di nuovo oggi ho tentato di dimenticare me stesso, anche se non nel frastuono e nel trambusto – questo surrogato non fa bene – ma facendo una passeggiata dai Rodam e parlando con Bolette e (se possibile) lasciando a casa il demone dell’arguzia, quell’angelo con la spada fiammeggiante che s’interpone – come merito – tra me ed il cuore di ogni ragazza innocente. Poi mi hai preso di sorpresa – grazie, Dio – per non avermi lasciato immediatamente uscire di senno. Non ho mai avuto cosi tanta angoscia di uscire di senno, grazie per avermi di nuovo prestato ascolto”. Kierkegaard in seguito cancellò la frase “dai Rodam e parlando con Bolette”, fatto che il primo editore del diario non menziona, e quando nel 1869 Regina poté leggere queste righe, pensò che questa prima infatuazione fosse per lei. Il vero obiettivo della visita di Kierkegaard, in realtà, non era la quattordicenne Regina, ma la ventiduenne Bolette. Non sappiamo cosa succede tra questo primo incontro e il momento in cui Kierkegaard incontra Regina, che trova intenta alla lezione di piano, e alla quale chiede di fidanzarsi. Da subito si vede però che lo scenario è complesso, e implica quattro personaggi. In quel momento infatti Regina ha già un corteggiatore nel giovane Fritz Schlegel, rappresentato ironicamente, nel Diario di un seduttore, nei panni del povero Edward. Quando Regina cerca di mettergli davanti Schlegel, Kierkegaard risponde: “Avresti potuto parlarmi di Fritz Schlegel fino al giorno del giudizio, non ti avrebbe affatto aiutato, perché io ti volevo”. Non c’è ostacolo terreno che possa quindi frenare la determinazione di Kierkegaard. Ma contro un ostacolo trascendente anche la volontà più determinata deve recedere, ed è un ostacolo trascendente quello che sbarra la via a Kierkegaard verso la donna. E non è, come Kierkegaard ha interpretato la propria impossibilità di restare accanto a Regina, il fatto di essere già sposato con Dio. L’immagine dell’angelo con la spada fiammeggiante nell’appunto del suo diario dà già un’idea di cosa si tratta, ma ne troviamo lo sviluppo in Timore e tremore, nel tema di Agnese ed il Tritone. “Il Tritone è un seduttore: egli chiama Agnese, con le parole più gentili risveglia in lei il suo segreto, ella trova nel Tritone ciò che cercava e a cui il suo sguardo si volgeva scrutando l’abisso del mare. Agnese si afferra al suo collo, fiduciosa si abbandona con tutta l’anima al più forte. Egli è già sulla riva, si china sul mare per immergersi con la sua preda – ed ecco che Agnese lo guarda ancora una volta, ma senza paura, senz’incertezza, senz’orgoglio per la sua fortuna, senza frenesia di piacere, ma in assoluta umiltà come il povero fiore ch’ella pensa di essere e con questo sguardo con assoluta fiducia gli affida tutto il suo destino. Ed ecco, meraviglia! Il mare non muggisce più, tace la sua voce selvaggia, la voce della natura ch’è la forza del Tritone si ferma, segue un momento di calma – e Agnese continua a guardarlo a quel modo. Allora il Tritone si accascia, non può contrastare la forza dell’innocenza, il suo elemento gli diventa infedele, non può sedurre Agnese. La riporta indietro, le spiega che voleva soltanto mostrarle quant’è bello il mare quando è tranquillo e Agnese gli crede. Poi torna indietro solo e il mare s’infuria, ma la disperazione del Tritone infuria ancor di più. Egli può sedurre Agnese, può sedurre cento Agnesi, può affascinare ogni ragazza – ma Agnese ha vinto e il Tritone l’ha perduta. Soltanto come preda può diventare sua”. Analogo è ancora l’episodio dell’incontro con la fanciulla raccontato ne La ripetizione (p.31). Si trova in viaggio. Dopo un buon pranzo e un caffè vede passare una fanciulla incantevole. Comincia a fare pensieri e progetti su di lei, quando, improvvisamente, è invece lei a bussare alla sua porta per chiedergli, in tutta innocenza, un passaggio per Copenhagen nella sua carrozza. È proprio questa perfetta innocenza a disarmare i suoi progetti di seduzione. Significativa infatti è la conclusione che Kierkegaard trae da questa storia (p. 32) “La fanciulla che cerca l’interessante cade nella rete che ha teso, mentre la fanciulla che non cerca l’interessante crede nella ripetizione”. In fondo vediamo qui che la fiducia, mostrata dall’innocenza, non può essere sottoposta alla volontà. Non si può volere aver fiducia, come non si può volere la ripetizione, come non si può volere l’evento causale. Qui Kierkegaard si mostra come pensatore dell’evento. Ricorre in questo passaggio, infatti, significativamente, la categoria dell’interessante, che è una categoria dello stadio estetico: l’uomo estetico rivendica l’interessante contro la noia, contro l’inesorabilità, l’uniformità dell’esistenza, rivendica la rottura di quest’uniformità attraverso diverse maschere. Come suggerisce Deleuze: l’interessante è una resistenza contro la noia, e il ricorso contro la noia sono le maschere. Sono maschere del nulla, e tutto il Diario del seduttore è intessuto sul mito di Issione, il re di Lapiti che, invitato al banchetto degli dei, cercò di sedurre Era. Zeus allora creò una nuvola dalle sembianze di Era e Issione sfogò su questa il suo amplesso. Dietro le maschere dell’interessante, come mostra il mito, l’uomo dello stadio estetico abbraccia in realtà il nulla. Quando Kierkegaard vuole lasciare a casa il demone dell’arguzia, cerca di staccarsi dalle maschere del seduttore, ma quando cerca di avvicinare Regina in veste di marito, resta impigliato nell’immobilità. Qui, direi, troviamo il nesso con la colpa del padre. La colpa del padre si rivela in un’annotazione del diario, divenuta famosa come “Il grande terremoto”, il terribile sconquasso che d’improvviso m’impose un nuovo principio d’interpretazione infallibile di tutti i fenomeni” (Diario p. 80). Questa pagina del diario non è databile con sicurezza, e neanche il carattere delle colpe è precisabile senza ambiguità. I biografi parlano del momento in cui il padre, da ragazzino, sorvegliando le pecore nello Jutland, soffrendo terribilmente, affamato, indebolito e infreddolito, maledisse Dio. All’età di ottantadue anni il padre non riusciva ancora a dimenticare questo episodio. Altri parlano dell’infedeltà alla moglie. Mentre la moglie era malata, il padre avrebbe sedotto la domestica, che poi sposò e che fu la madre di Soren. Altri ancora, prendendo spunto dalla storia di “Colpevole non colpevole” ne “Gli stadi della vita” suggeriscono un episodio che rifletterebbe in modo mascherato un’esperienza del padre. Si tratta di un libraio che si lascia portare al bordello da tre giovani impiegati. Nel libraio si nasconderebbe il padre con il suo timore di aver contratto una malattia che condanna tutta la sua stirpe. Bisogna considerare che Kierkegaard era l’ultimo dopo due fratelli che sono morti praticamente uno dopo l’altro. Inoltre è morta la prima moglie del padre, poi la seconda, e Kierkegaard era convinto di essere condannato. Il contenuto della colpa, in ogni caso, non ha nessuna importanza. Conta invece quel che Kierkegaard scrive nel diario: “Qualche colpa doveva gravare sulla famiglia intera, un castigo di Dio vi pendeva sopra: essa doveva scomparire rasa al suolo dalla divina onnipotenza cancellata come un tentativo fallito”. Anche questa idea si ritrova in Timore e tremore nella storia del fidanzato che non si sposa perché gli dei sono gelosi della sua felicità, e l’oracolo ha predetto una disgrazia se il matrimonio avrà luogo. Nell’impossibilità, da parte di Kierkegaard, di portare a compimento il matrimonio, c’è quindi, diversamente che in Kafka, non tanto la lotta di desideri contrastanti, quanto piuttosto il segno della maledizione. È come nella storia di Goethe della maledizione di Lucinda: Goethe non può unirsi a una donna perché questa non sia colpita dalla maledizione che grava su di lui. Regina e il padre sono i referenti a cui si àncora l’esistenza di Kierkegaard, come lui stesso scrive: “ A lei (Regina) e al mio defunto padre devono essere consacrati tutti i miei scritti: ai miei due padroni, la nobile saggezza di un vecchio e la dolce irragionevolezza di una donna”. Lacan segnala l’importanza strutturale del padre facendo leva proprio su Kierkegaard nel seminario del 29 gennaio ’64, quando dice: “Il padre, il Nome del Padre sostiene la struttura del desiderio con quella della legge – ma l’eredità del padre è quella che ci designa Kierkegaard, è il suo peccato”. Vediamo anche qui che Kierkegaard è usato da Lacan contro Hegel quando, nella Fenomenologia dello Spirito, Hegel interpreta la tragedia cristiana come risoluzione delle impasse presenti in quella greca. Lacan rifiuta quest’idea di una sintesi che sfocia nella redenzione, dove tutto si riconcilia, e fa valere come la prospettiva chiusa da Hegel sia riaperta alla contraddizione da Kierkegaard. Il filone dei miti greci dei Labdaci trova espressione insuperabile nella colpa del padre, nella strana dialettica che fa ricadere sull’individuo le trasgressioni della famiglia. Cosa significa che l’eredità del padre sia la sua colpa? Significa che la posizione del padre non è quella normativa della legge. In questo vediamo anche la distanza che Lacan prende rispetto a Freud. Il padre non è il padre edipico normativo – e certamente era poco normativo il padre malinconico di Kierkegaard, in cui il figlio rispecchiava la propria malinconia. Ma anche il padre normativo è piuttosto carente. Qui vediamo delinearsi la posizione del padre concreto – ogni padre è carente rispetto al NdP - e in questo troviamo un’indicazione clinica di primaria importanza. Quando di fronte all’ingovernabilità della vita viene l’idea di far ricorso a un rafforzamento delle norme, a un indurimento delle leggi, agli sceriffi, ebbene qui vediamo la vacuità di questo tentativo. Non si tratta, nella prospettiva clinica, di rimediare al padre carente, come vorrebbe una psicosociologia semplificativa, ma piuttosto di giocare la colpa del padre, di assumerla come inaggirabile. È il solo modo di mettersi a distanza dalla posizione nevrotica che passa la vita a proclamare la propria innocenza a rischio del passaggio all’atto. La posizione nevrotica di giustificare la propria esistenza è in fondo la messa da parte della responsabilità, del farsi responsabile della colpa del padre. Il tema della scelta, cosi importante in Kierkegaard, e altrettanto fondamentale nella psicoanalisi, è consonante con questa colpa. Grazie alla scelta evitiamo di ridurre la psicoanalisi a puro determinismo inconscio, sottraendoci alla china scientista, in cui è facile cadere nella nostra epoca, e dove tutto tende poi a ridursi a biochimica del cervello. Il passaggio attraverso la colpa del padre ci dà la soluzione del problema della ripetizione che Lacan nel 1955 sospendeva alla prima parte del testo di Kierkegaard. La colpa del padre instaura una coscienza del peccato che è assoluta, che è distinta dalle colpe morali relative che riguardano lo Stato o la legge. Possiamo per questo dire che la vera soluzione del problema della ripetizione è in Timore e tremore, dove in Abramo è tratteggiata la figura del cavaliere della fede, di colui che ha un rapporto assoluto con l’assoluto. Lacan parla nel ’66 (o meglio: in una frase corretta nel ’66 del testo del ’53 Funzione e campo) “dell’esaustione dell’essere che si consuma nella ripetizione di Kierkegaard”. Questa precisazione aggiunta nel ’66 risente delle rielaborazioni della problematica della ripetizione successive al ’64. Non si tratta più della ripetizione della domanda sostenuta da un’articolazione simbolica, di un meccanismo che torna sempre allo stesso punto di svanimento per incontrare una mancanza, ma dell’implicazione di un atto che un soggetto deve compiere. Qui in fondo la chiave del problema della ripetizione si può capire ritraversando la gradazione degli stadi dell’esistenza di Kierkegaard. Nella sfera estetica la categoria della ripetizione gira a vuoto. L’esistenza è possibile solo verso nuovi piaceri, verso l’immediato. È un’esistenza che cerca di penetrare le cose solo attraverso il sentimento e si pone di fronte alla molteplicità del possibile – dove ogni cosa è unica – senza operare una scelta. Kierkegaard ha splendidamente incarnato questa figura nel Don Giovanni di Mozart come pensatore e stratega del desiderio erotico, dove la vita è vissuta sul filo dell’istante e non c’è ripetizione, perché c’è reiterata richiesta di qualcosa di nuovo, e poi qualcosa di diverso, e poi qualcosa di altro ancora: tutto deve essere sempre nuovo. Non c’è scelta, non c’è elezione, c’è solo l’istante dell’incontro. Ogni istante di ogni incontro, nella dispersione, si traduce poi in disperazione. L’esteta è condannato alla disperazione e a restare fuori dalla storia, perché è interessato solo all’istante effimero di un piacere e manca l’instante decisivo. Lo stadio etico tenta di superare i vicoli ciechi dell’esteta e compie la scelta. Elegge uno tra i molti volti del possibile, concentra il proprio pensiero su un oggetto. Non vive l’istante, ma il tempo nella sua continuità. Si sottopone a una regola e ai vincoli del generale. L’uomo etico dunque si sposa, intrattiene relazioni sociali, obbedisce alle leggi dello Stato. La figura dell’esistenza estetica è incarnata nel marito. Per lui la ripetizione è la ripetizione dello stesso. Non si rifiuta al piacere, ma lo inquadra nella cornice delle norme morali, e lo stesso si impone nell’abitudine. L’impasse che ne deriva è la mancanza di voglia del nuovo, che nasce dalla nostalgia del passato. Resta così precluso l’orizzonte dell’esistenza dove il soggetto si apre a ciò che viene incontro. Per questo la vera ripresa resta possibile solo a quello che Kierkegaard identifica come lo stadio religioso dove, nel rapporto assoluto con l’assoluto, il cavaliere della fede realizza l’eccezione rispetto all’ordine generale dell’etica. La ripresa avviene qui perché la ripetizione non cerca sulla via regressiva della reminescenza, ma si produce in un movimento contrario, che si spinge avanti. La ripetizione come ripresa avviene proiettando il soggetto verso il futuro. La ripresa si impone allora come un atto, come qualcosa che varca i confini delle norme e del generale. Un atto è uno sconfinamento, e non per nulla l’esempio canonico che Lacan dà dell’atto è Cesare che passa il Rubicone Si tratta di uno sconfinamento che implica un mutamento dello statuto soggettivo, come l’atto di Cesare segue il passaggio dalla repubblica all’impero. Se prendiamo la relazione concreta di Kierkegaard con Regina, la ripresa non è semplicemente ricominciare una relazione interrotta. Paul Auster ha scritto uno straordinario libro sul recupero degli oggetti perduti che esemplifica in modo divertente come esso sia qualcosa di assolutamente diverso da una trasformazione soggettiva. Le relazioni sentimentali interrotte e reiniziate non ricominciano puramente e semplicemente allo stesso punto in cui erano rimaste, e se ricominciano dallo stesso punto le cose non vanno, perché serve un cambiamento di piano, serve che l’interruzione porti trasformazione – altrimenti tutto ricade nelle stesse secche e ritrova la stessa inerzia. L’inizio ex novo è l’illusione nevrotica della pagina bianca, di recuperare l’innocenza: cambiare città, cambiare fidanzata, cambiare lavoro e ricominciare da zero. Se questo eterno mutamento di oggetti non si accompagna a una radicale trasformazione interiore, tutto ricomincia per ricadere negli stessi impicci, negli stessi punti di blocco. Conosciamo bene il modo in cui la nevrosi di destino reimbocca sempre lo stesso cammino, nutrendo l’illusione che sia una serie di contingenze esterne a riportare il soggetto in situazioni ogni volta identiche. La ripresa vera e propria non presuppone la cancellazione, l’azzeramento, ma l’appropriazione, la soggettivazione dell’ostacolo. Qui diventa significativa la differenza tra la Vermittelung hegeliana e la gjentagelse kierkegaardiana, perché se la mediazione è il passaggio dialettico che fa apparire l’opposizione per realizzare un superamento nell’Aufhebung, tutto il processo si svolge come una progressione nell’essere. Nella ripresa di Kierkegaard, invece, il nuovo non si realizza come uno sviluppo a partire da un antecedente che sarebbe poi contenuto nel seguito. Non è possibile, all’interno dell’immanenza, il salto, lo Spring qualitativo della ripresa, e la ripresa richiede per l’appunto un salto. Non c’è ripresa se si cerca evasione al di fuori della vita, nell’immaginario e nel ricordo. È necessario si produca un evento, una rottura, una soluzione di continuità in cui si realizza il cambiamento soggettivo e quindi qualcosa che si scrive come “ traccia della rottura dell’essere” (Lacan Sem XX p.109). Credo che possiamo capire in questo senso l’opinione di Lacan quando parla di ripetizione come esaustione dell’essere. Dobbiamo dare al termine esaustione il senso che ha in matematica, dove è conosciuto come metodo di esaustione. Si tratta di un metodo per calcolare le aree di figure tramite poligoni circoscritti e inscritti e l’approssimazione è tanto maggiore quanto maggiore è il numero dei lati utilizzati. Letto in chiave moderna il calcolo per esaustione permette di arrivare alla determinazione esatta dell’area con un passaggio al limite. È in questo passaggio al limite che si realizza il salto, il punto di rottura con l’essere di cui resta la traccia nella scrittura. L’esaustione dell’essere è un modo di laicizzare quel che Kierkegaard pensa come l’atto di fede in virtù dell’assurdo che crede che l’impossibile sia possibile. Ma che l’impossibile, per un istante diventi possibile, che ciò che è prescritto per un instante si presenti, accada, lasci una traccia, è la definizione stessa dell’evento. Se per Kierkegaard la fede si presenta come un principio d’individuazione della soggettività di fronte a Dio, l’atto psicoanalitico implica la scommessa su qualcosa che potrà essere, o che è impensato, o che implica il rigoroso attraversamento di tutto ciò appartiene all’essere fino al punto limite di rottura: l’evento che è tale perché non è mai realizzato una volta per tutte, perché non è il porto sicuro dell’Aufeubung. Questo potrebbe portarci a molte riflessioni su cosa significa il cambiamento nella psicoanalisi, su che cos’è la guarigione quando non ne appiattiamo il concetto sul suo significato medico e su quelli che sono gli aspetti terminabili ed interminabili nel processo psicoanalitico, e su cosa dovremmo considerare risultati, facendo tesoro della feroce critica che Kierkegaard fa dall’idea di risultati. A partire da qui dovremmo dare alla psicoanalisi un passo diverso da quello di corto respiro che la confina in un’epistemologia scientifica che poco le si attaglia.
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