Conferenza tenuta via zoom il 6 febbraio 2021 per l'Escuela lacaniana de psicoanalisis di Siviglia. Marco Focchi I corsi di Miller tenuti negli anni centrali del decennio Novanta cadono dopo un momento cruciale nel quale viene in luce un nodo fondamentale relativamente ai concetti di Lacan: si tratta infatti del passaggio, ricco di implicazioni teoriche e di conseguenze cliniche, nel quale Miller mette in questione la nozione di Altro. Sappiamo che l’Altro è un cardine, un asse portante nell’insegnamento di Lacan: come concetto viene introdotto nel Seminario II, quando Lacan ha bisogno di distinguere un piano diverso da quello immaginario dove si realizza la simmetria tra gli ego e tra le molteplici figure di altro tra loro omogenee, e diventa necessario collocare un luogo del simbolico. Questo differente piano, contrassegnato come Altro maiuscolo, è quello che Lacan definisce come “muro del linguaggio”. Il mondo immaginario, popolato di oggetti, viene riformulato, e gli oggetti vengono nominati e collocati in un sistema organizzato che è quello del muro del linguaggio, ovvero dell’ordine simbolico. A partire da questa nuova ripartizione l’Altro diventa uno degli concetti più solidi dell’insegnamento di Lacan, e va a costituire uno degli elementi portanti dello schema L, cioè di quella bussola che consente di orientare la conduzione della sua psicoanalisi senza smarrirsi nella deriva, da cui si erano lasciate prendere le diverse forme della psicoanalisi anglosassone, del confronto con la realtà. Non è la realtà a poter fungere da guida nella direzione della cura come la pensa Lacan, perché una cura orientata dalla realtà finisce sempre per portare a qualche forma di adattamento. Il solido cardine dell’Altro che per Lacan struttura la cura comincia tuttavia a essere messo in discussione da Miller nel suo corso del 1996-1997, che s’intitola per l’appunto: L’Altro che non esiste e i suoi comitati etici. L’inesistenza dell’Altro diventa a partire da questo momento un filo conduttore man mano che Miller avanza nella sua lettura di Lacan. Sembra quindi che prendendo questa direzione Miller mini una della colonne portanti dell’insegnamento di Lacan. Domandiamoci allora: compare l’espressione “l’Altro che non esiste” nel testo di Lacan? Certamente compare. Lo troviamo in Sovversione del soggetto e dialettica del desiderio, un testo del 1960, e Lacan formula l’espressione in modo esplicito. Si trova a p. 820 degli Écrits, dove Lacan parla del godimento come del luogo la cui assenza renderebbe vano l’universo, e che rende l’Altro inconsistente. Questo godimento mi è proibito, scrive, per colpa dell’Altro, se esistesse, ma poiché non esiste, la colpa ricade sull’io, e siamo al peccato originale. Inesistenza e inconsistenza sono qui chiaramente collegati, e nel Seminario XVI, Da un Altro all’altro, del 1968-1969, questo tema trova uno sviluppo logico, in particolare nei capitoli quinto e sesto. Era stata rilevata, o era stato letta questa espressione in Lacan? No, tant’è vero che quando Miller comincia a farne un’asse centrale nei suoi corsi degli anni Novanta solleva stupore, e anche diffidenza. Qualcuno gli chiede per esempio: vuoi forse tagliare il ramo su cui siamo seduti? Ma non era certo questo lo scopo di Miller. Piuttosto, a partire dall’accento messo sull’Altro che non esiste, Miller comincia a mettere fine al regno del Nome del Padre, che è invece la sigla dell’Altro che esiste. Facendo leva su questo Miller comincia a segnare uno spartiacque tra la clinica freudiana, fondata nel Nome del Padre, e quella lacaniana, come una clinica dell’Altro che non esiste. L’importanza dell’accento messo da Miller sul tema dell’Altro che non esiste sta dunque nelle conseguenze fondamentali che ne trae per la clinica, sta nel fatto che da qui nasce una clinica completamente nuova che fino a quel momento in Lacan era rimasta completamente velata. Se si era a lungo insistito sul ritorno a Freud di Lacan. Con l’Altro che non esiste Miller mette l’accento piuttosto sul distacco da Freud, su una clinica che diverge da quella freudiana. Ed è la tesi dell’Altro che non esiste a condurre alla nozione di partner-sintomo. Se l’Altro, come luogo di raccolta del simbolico, non esiste –sostiene Miller – quel che esiste è invece relativo al corpo, ed è il sintomo. In questa riformulazione della nozione di alterità vediamo apparire leggibile sullo sfondo il reale del sesso, perché per questa via si ricostruisce e, diciamo, si restituisce l’Altro incentrandolo sul godimento. Se consideriamo che l’Altro è il luogo del significante, dobbiamo dire che ci sta dentro tutto, dalla Treccani a Wikipedia, ovvero ci sta tutto e il contrario di tutto, ed è per questo che risulta inconsistente, ovvero non che non esiste, giacché in matematica inconsistenza e inesistenza sono la stessa cosa. Se però l’Altro non esiste, il godimento invece sì esiste, e il godimento presuppone il corpo. Per arrivare a queste conclusioni c’è lo tutto lo studio del passaggio che porta da L’etica, Seminario VII, dove l’Altro e il godimento – indicato come La cosa – sono nettamente separati, all’ultimo insegnamento di Lacan, ad Ancóra, Seminario XX, che presuppone invece un’implicazione del godimento nell’Altro, e dove il significante non funziona più come mortificazione della cosa, ma come strumento di godimento. Sappiamo che il Lacan il godimento non si declina in un modo solo. Prendiamo il godimento fallico: dobbiamo considerare che il godimento fallico non è un’apertura all’Altro, perché questo implicherebbe l’esistenza del rapporto sessuale. Il godimento fallico è piuttosto la ricaduta del godimento sul corpo proprio. Il godimento in relazione con l’Altro non è quindi il godimento fallico, ma il godimento sintomatico. In un certo senso possiamo dire che l’Altro è condannato all’inesistenza nel momento stesso in cui e ricostituito intorno al godimento come sintomo. Vediamo prodursi questo effetto nel momento in cui Lacan reintroduce la pulsione tra i concetti fondamentali della psicoanalisi: considerare la pulsione implica la tesi che non c’è rapporto sessuale, il che vuol dire: l’inesistenza del rapporto sessuale appare non appena si rimette in gioco il reale del sesso. La posizione sessuale nell’essere parlante deriva poi da come il reale del sesso viene soggettivato, da come cioè diventa quel problema che Lacan chiama sessuazione. Quanto implica la presa in carico delle conseguenze dell’inconsistenza dell’Altro e della ripartizione che ne consegue tra le le due formule, quella che contrassegna la sessuazione maschile con il quantificatole universale ∀ (∀x Φ di x) e quella che contrassegna la sessuazione femminile con il quantificatole universale negato (non per ogni x Φ di x). Sono due formule che dicono come dal lato maschile ogni individuo che vi si collochi ricade sotto il segno della castrazione ricadendo nello stesso insieme, mentre diversamente dal lato femminile questo non succede, non vi è in atto una funzione totalizzante, le donne non costituiscono un insieme. Si tratta quindi di far entrare nella partita la logica che Lacan chiama del non-tutto. Miller, nel corso Partner-symptome, del 1997-1998, riprende, per spiegare la ripartizione sessuale, proprio il non-tutto, e precisa che questo non significa la messa in gioco di una riserva, come potrebbe essere: ti dò questo ma non quello. Non è un problema di prudenza, di aggiustamento, di mediazioni, perché vederla in quest’angolo vorrebbe dire considerare il non-tutto come un’incompletezza. Questo modo di pensare – dice Miller – riflette l’ideologia nella cui luce viene concepito abitualmente l’essere femminile: diminuito, ridotto, mancante, segnato da minor potenza. Miller considera questa visione come quella di un’ideologia spontanea, che però più che spontanea in realtà è il riflesso ancora incombente della visione patriarcale. Nella visione patriarcale il non-tutto è messo sotto il segno dell’incompletezza perché non ci riveli l’autentica potenza del non-tutto, che è piuttosto di essere senza limiti. Quel che è insopportabile nella visione patriarcale è la donna libera, perché in quanto libera la donna fa apparire subito sullo sfondo il senza limite. Lo vediamo ancora nella società attuale, che decisamente non va più sotto il segno della società patriarcale, ma che ne sente tuttavia i contraccolpi. Vediamo per esempio come molti casi di femminicidio siano motivati dalla scelta della donna di troncare una relazione, cosa a cui risponde, nella psicologia maschile ferita: “O mia, o di nessun altro”. Occorre andare in direzione di una società in cui la donna non sia considerata un possesso, e non è scontato come potrebbe sembrare nell’opinione liberale illuminata. Millenni di antropologia strutturale, dove le società si reggono sullo scambio delle donne, non spariscono dalla struttura profonda dell’inconscio da un giorno all’altro. Varrebbe la pena di considerare da questo punto di vista le differenze strutturali tra gelosia maschile e gelosia femminile, dove la prima è segnata dall’omosessualità latente, mentre la seconda ha sullo sfondo il profilo dell’Altra donna, della donna veramente e unicamente donna, quella verso cui il desiderio di ogni uomo di rivolge. L’immagine della donna senza limiti, quando il non-tutto non è declinato nel senso dell’incompletezza, ma in quello della società patriarcale, si delinea in alcune figure classiche. Una di queste, di straordinaria forza è la Gezabele la Bibbia narra del primo libro dei Re. Gezabele è una principessa fenicia che va in sposa ad Acab, re di Israele. Questi l’accoglie a braccia aperte e viene man mano soggiogato dal suo fascino. La principessa porta con sé in Israele i suoi dèi e i culti di fertilità e dell’amore di cui è sacerdotessa e nei quali esprime tutta la sua sensualità, la sua forza, la sua libertà. Diventata regina di Israele dopo il matrimonio con Acab, Gezabele si mostra senza vergogna, e senza pudore, e promuove senza inibizioni la sensualità e la prostituzione sacra. Il re, sedotto dall’affascinante straniera, le concede tutto. È lei che prende allora le redini del regno, e non si fa scrupoli per ottenere quello che vuole. Naturalmente una figura così, inserita nel quadro della visione patriarcale della Bibbia, non può fare una bella fine. Viene infatti gettata da una finestra dai nemici di Acab, e il corpo è lasciato in pasto ai cani. Nel mondo anglosassone dove, diversamente che nei paesi cattolici, la Bibbia è letta davvero, Jezebel è diventato un nome comune, sinonimo di donna spudorata, svergognata, senza freni morali. Un bellissimo ritratto di questa figura si trova nel film del 1938 di William Wyler Jezebel, interpretato da una splendida Bette Davis. Nel finale la protagonista, inizialmente arrogante e sfrontata, si redime ed è rimessa al suo posto, e che debba essere rimessa a posto è indice del fatto che in fondo la figura di Jezebel non ha propriamente un posto nella classificazione ordinata del simbolico. Miller infatti, nella sua ripartizione sessuale, mette in luce da questo punto di vista la figura della femminilità che va sotto il segno dell’incompletezza, la donna che non ha, e non avendo non ha luogo nel sociale se non attraverso la mediazione del padre o del marito, come nella borghesia del XIX secolo, dove il perimetro femminile era ristretto alla casa e alla famiglia. L’uomo invece è colui che ha. Se vogliamo considerare il sintomo nel ricentrare l’Altro sul godimento, il passaggio per il corpo è inevitabile, e in questo passaggio si evidenzia che l’uomo ha, e che la donna non ha: la mancanza è dal lato femminile. La donna si trova così a portare tutte le insegne della carenza, appare per eccellenza nella figura della donna povera. La carenza, la povertà, diventano coì prova della femminilità, e possono anche presentarsi come condizioni del desiderio. Oppure, aggiunge Miller, la cosa può andare in senso contrario, verso la donna ricca, potente, inflessibile, ma che in queste sue caratteristiche mostra sempre qualcosa di troppo, e il meno della mancanza appare allora come un più, un segno compensativo, un indice di illegittimità del possesso, che invece è serenamente goduto dall’uomo. Nella mancanza o nell’eccesso quindi la donna non conosce quella giusta misura che invece appartiene all’uomo. Così almeno possiamo descrivere la figura della donna che precede il #metoo il quale – al di là dei suoi eccessi, e facendo la tara degli effetti collaterali di moralismo che ha scatenato – mette in primo piano una donna che non è possesso, una donna che vuole scegliere liberamente. A prescindere dal #metoo abbiamo tuttavia esempi significativi di femminilità libera che non coincidono con il femminismo estremista, e che non ricadono in forme di moralismo di ritorno. C’è per esempio una scrittrice come Emma Becker che per due anni ha scelto di lavorare come prostituta in una casa chiusa di Berlino, raccontando la sua esperienza nel libro La Maison, pubblicato da Flammarion nel 2019. Scrive la Becker: “Ho sempre pensato di scrivere sugli uomini, prima di accorgermi che ho scritto solo sulle donne. Sul fatto di essere una donna. Scrivere sulle puttane, che sono pagate per essere donne, che sono davvero donne, che sono solo questo; scrivere della nudità assoluta di questa condizione è come esaminare il mio sesso al microscopio. Mi affascina nello stesso modo di un assistente di laboratorio che guarda le cellule essenziali a ogni forma di vita”. Il punto non è la prostituzione in quanto tale. Anche la donna povera di Leon Bloy si prostituisce, ma lo fa costretta da una madre sordida e da un compagno ubriacone. La femme pauvre è in effetti un romanzo cristiano della felicità del dolore. In Emma Becker non c’è nessun dolore, nessun senso di colpa, direi anche nessun pudore. È in grado di raccontare la sua esperienza senza nessun imbarazzo nelle interviste televisive che ha rilasciato. In questo assomiglia molto alla donna senza Superio descritta da Hanns Sachs, e che Miller riprende e commenta. Il libro di Emma Becker è un’esplorazione radicale del desiderio femminile, che esemplifica molto lucidamente l’idea del non-tutto preso non dal lato dell’incompletezza ma come senza limiti. Il non-tutto femminile contrapposto al tutto maschile sono i due cardini su cui s’impernia la ripartizione sessuale per quanto riguarda il rapporto con il godimento, e tutto lo sviluppo che Miller ne dà corso Partner-symptome s’incentra su questi due poli, che definiscono due modalità di godimento irrelate fra loro. A partire da questa formula essenziale definita da Lacan, Miller costruisce, arricchendole, una serie di caratteristiche del maschile e del femminile in cui vediamo un piano di base, strutturale, molto ben definito e chiaro, che non permette confusione in quanto è definito dalle formule, e un piano psicologico dove le caratteristiche sfumano ciascuna nel proprio opposto, e dove gli effetti sono in contrasto fra loro. In fondo, in un certo senso, la rilettura che Miller fa delle formule di Lacan riporta anche a dei quadri tradizionali che dipingono quel che è il maschile e quel che è il femminile nelle loro sfumature comportamentali. Leggendo però questi quadri sullo sfondo delle chiavi offerte da Lacan il senso cambia completamente. In questa descrizione psicologica in primo luogo dal lato della completezza maschile troviamo l’equilibrio. In rapporto al senso della misura l’uomo esprime equilibrio. Il tutto maschile va sotto il segno dell’unità, che include l’identità, e che si esprime dicendo: “So chi sono”. C’è dal lato maschile una certa uniformità, dove si delinea un tratto comune e permette la costituzione delle strutture di massa studiate da Freud come l’Esercito e la Chiesa, le strutture che si riuniscono intorno a un capo. Dal lato femminile più che l’identità si riscontra invece la differenza. Riconosciamo così la volubilità sempre attribuita alle donne come nel Rigoletto si esprime il Duca di Mantova, che canta: “La donna è mobile, qual piuma al vento, muta d’accento e di pensiero. Sempre un amabile leggiadro viso, in pianto o in riso è menzognero”. Qui c’è in fondo quel che Lacan riconosce come il tratto “senza fede”. Se dal lato maschile c’è l’Uno, qui siamo invece con l’Altro, ci troviamo con l’alterità in quanto tale, quell’alterità che Lacan assegna alla donna, che è altra anche per se stessa. Incarnando la differenza in quanto tale, la differenza da se stessa, rimane per la donna lo sfondo di una vacuità essenziale, e Lacan attribuisce a questo la sua disponibilità nei confronti del fantasma maschile, in quanto la donna riceve la propria identità solo a partire dall’uomo. Si può poi vedere come si ripartiscono le cose dal lato dell’oggetto. Qui vediamo alcuni aspetti tra i più consolidati. Dal lato maschile si evidenzia infatti l’oggetto feticcio, che incarna l’oggetto a, mentre dal lato femminile vediamo piuttosto il fenomeno erotomane, dove l’oggetto ha minore consistenza, minore concretezza, è un oggetto che sostiene l’amore. Per questo più che con l’oggetto a, Miller lo indica con A barrata. Con questo modifica anche la formula del fantasma data da Lacan. La formula del fantasma per Lacan è uguale nel maschile e il femminile, è sempre S barrata in relazione con a. Nella prospettiva presa da Miller in questo corso tuttavia questa formula appare più caratteristica del desiderio maschile, mentre la controparte oggettuale del femminile è piuttosto il partner dell’amore, che vuol dire un partner mancante, segnato dalla mancanza, un partner che possa dire: mi manchi, ho bisogno di te, sei il sale della mia vita. Questo partner contrassegnato dalla mancanza è quello siglato con A barrata, per cui, il fantasma femminile di carattere erotomane risulta S barrata in relazione con A barrata. Vediamo quindi come maschile e femminile si differenzino quanto alla causa del desiderio. Per il maschile è il plus-godere a mettere in movimento in desiderio, per il femminile è l’amore folle. Dopo aver ben definito le strutture, e gli aspetti comportamentali, Miller si dedica alle descrizioni psicologiche, che formula avendo in mente in modello di La Bruyere. Jean de La Bruyère è uno scrittore moralista del XVII secolo appartenente all’entourage del Duca di Borbone, e la sua opera principale è I caratteri, dove descrive la propria epoca con grande spirito di osservazione e con ironia, filtrandola appunto attraverso delle tipologie, dove troviamo il dissimulatore, l’adulatore, l’impertinente, il compiacente e così via. Miller in un certo senso riprende questa ispirazione e comincia dalla psicologia della prudenza. L’uomo, che è caratterizzato dall’avere, e che si presenta equilibrato, conforme, unitario, si impone come figura di proprietario che deve protegger quel che ha, e pone così dei limiti, per cui si può arrivare fino a un certo punto ma non oltre. La prudenza si presenta nel maschile dal lato della timidezza, della riserva; e dal lato del femminile, dove vige la logica dell’illimitato? Ebbene da questo lato invece della prudenza troviamo l’intrepidezza, la sprezzante sicurezza di sé, lo slancio delle pasionarie. Invece della timidezza troviamo una certa sfrontatezza, invece della protezione, la messa a repentaglio, e invece dell’aggressività immaginaria, che implica la relazione con l’altro simile, abbiamo piuttosto la mistica, che implica la relazione con l’Altro dell’amore, l’assorbimento nell’Altro della pura differenza. Nella descrizione psicologica si verificano poi delle inversioni, perché per esempio collochiamo dal lato maschile l’idealismo, il rapporto con l’ideale, che implica la possibilità del sacrificio per gli ideali e che costituisce l’esatto opposto della prudenza e della timidezza. Apparentemente l’idealismo maschile dovrebbe trovarsi dalla parte dell’illimitato, invece è un carattere che appartiene al maschile. Di pertinenza invece del lato femminile è piuttosto il senso comune. Sembra che la prudenza e la timidezza debbano rimandare al senso comune, e invece sono attribuiti del femminile. D’altra parte l’idealismo, che spinge all’eroismo – l’eroe in Commedia è elettivamente una parte maschile – implica una trasgressione, e per trasgredire è necessario siano segnati dei limiti. L’eroe può esprimersi solo nella struttura di uno spazio limitato di cui forzare il limiti, per questo lo si incontra dal lato maschile. La partner dell’eroe è poi la bourgeoise – in francese la bourgeoise è la donna che tiene i cordoni della borsa – perché la borghese non cede alla trasgressione, e quindi garantisce la buona amministrazione. Le cose naturalmente stanno così se si prende la prospettiva maschile, ma se si considera la vera donna in senso lacaniano, vediamo che è proiettata verso l’illimitato. Se quindi i ruoli vengono distribuiti a partire da lei, troviamo allora la smarrita, quella che non ha nessun equilibrio, nessuna unità, nessuna uniformità. Il partner che le è necessario è quindi il partner bussola. Abbiamo così la coppia della smarrita e della bussola. Vediamo così che le modalità di godimento fissate dalle formule di Lacan si riflettono con varie sfumature sul piano psicologico definito dalle caratteristiche, dove si verifica sempre una compensazione: l’eroe sfrenato ha bisogno della borghese che gli tenga i conti e stringa i cordoni della borsa, la smarrita ha bisogno di un compagno che le dia il nord. Perché la coppia tenga occorre che accanto alle linee di fuga dell’illimitato ci sia qualcuno che tenga la rotta. Si arriva così all’ultima caratterizzazione e differenziazione di questa dialettica binaria, quella che mette il sintomo dal lato maschile, e la devastazione dal lato femminile. Il sintomo è ovviamente una sofferenza, ma è una sofferenza limitata, localizzata. Sia che si tratti di fenomeni corporei sia che si tratti di costruzioni psicologiche, come il pensiero ossessivo, il sintomo è comunque fatto di elementi discreti e classificabili. La devastazione è invece un saccheggio senza limiti, un dolore sconfinato. Miller si riferisce all’etimologia del termine francese ravage, che viene dal latino rapire, da cui ravissement, che significa anche innalzare una persona a uno stato di felicità suprema. È quindi un verbo che si riferisce a uno stato amoroso di trasporto, di estasi. Il termine devastazione, come ravage, scivola dunque verso un contenuto antinomico, che può avere in sé il proprio contrario. Il non-tutto che sta alla base di struttura, visto in questa luce, è quindi un non-tutto dell’inconsistenza, e non dell’incompletezza. Il diverso rapporto che il maschile e il femminile intrattengono con l’oggetto si riflette in modo particolarmente visibile in una delle caratteristiche psicologiche che abbiamo visto all’inizio: la prudenza. Miller pone la prudenza e la timidezza dal lato maschile, come pertinente a chi si trova nella posizione di avere. È noto come in una relazione di coppia che si è logorata, che ha perso le proprie motivazioni di fondo, l’uomo è il più delle volte riluttante a rompere il legame. Per paura della solitudine, o per la preoccupazione di perdere la gratificazione erotica di un rapporto pur svuotato dal punto di vista sentimentale. Sappiamo invece che sono le donne in questi casi a prendere l’iniziativa e a rompere, perché per loro, se l’amore è finito, è già tutto perduto! È insopportabile per na donna restare in una relazione di cui si è consumato il presupposto. L’uomo, in fondo, tiene alla misura, sta nei binari, segue la routine. In contrasto con questa regolarità, questa aderenza alla quotidianità, l’essere femminile è un essere della lontananza, come Madame Bovary. Emma Rouault – questo è il suo nome prima del matrimonio – è la donna dalle fantasie infinite, è una lettrice di romanzi, ha sogni di lusso e di vita grandiosa. Charles Bovary invece è un uomo per bene, ma monotono, noioso, maldestro. Ricolma la moglie di ogni attenzione e gentilezza, ma riesce solo ad alimentare il suo disprezzo per lui, visto come uomo banale, un semplice medico di provincia, in netto contrasto con i fasti dell’aristocrazia che abbagliano gli occhi di Emma. Miller, descrivendo l’uomo che va dritto e regolare sui suoi binari, prende anche un altro riferimento letterario: La bête humaine di Émile Zola. Qui troviamo rappresentato il guidatore di locomotive come un’incarnazione esemplare della civiltà moderna. Alla regolarità routinaria dell’uomo del binario, si aggiunge poi la connotazione della potenza impressionante della macchina. La locomotiva, che arriva sempre all’orario previsto nel luogo indicato, alberga in sé un aspetto non collocabile, inquieto, non prevedibile per via della passione erotica che ispira in lui l’altro sesso. La potenza regolare della macchina esplode allora nell’irrazionalità della bestia, la bestia umana per l’appunto. Miller commenta, seguendo lo stesso filone di pensieri, anche un quadro di Éduard Manet dal titolo Le chemin de fer. È un quadro molto particolare, perché dell’oggetto del titolo mostra solo una traccia, il fumo della locomotiva, mentre in primo piano stanno due esseri femminili: una donna matura, per la quale Manet ha usato la stessa modella che usato ne L’Olimpya, e una bambina. La donna tiene in mano un libro aperto e in braccio un cagnolino. Attraverso il cagnolino i critici riconoscono un’allusione alla Venere di Urbino di Tiziano. Quest’allusione crea una tensione erotica indiretta, perché la Venere di Urbino guarda, nuda, direttamente lo spettatore invitandolo a contemplare la sua nudità. Ma c’è anche nel suo sguardo una sorta di malinconica, bovariana distanza, giacché volge le spalle allo spettacolo della locomotiva, osservata invece con grande interesse dalla bambina. In questo quadro, in fondo, la potenza meccanica maschile è come svanita, ridotta a segno, piccola cosa dietro la potenza erotico-allusiva del femminile. I due piani della scena sono poi separati da una cancellata che sembra ribadire l’impossibilità dell’incontro tra le due modalità di godimento, maschile e femminile. Direi che in nei passi del corso di Miller che abbiamo considerato vediamo proprio questo: due modalità irrelate di godimento ben definite dalla formula di Lacan del tutto e del non-tutto e, su un altro piano, quello psicologico, un rincorrersi, un intrecciarsi, un opporsi, un mescolarsi, un compensarsi, che tenta di restituire un legame a ciò per cui non c’è rapporto. Senza mai essere complementari, maschile e femminile si inseguono e si scambiano le parti, in una sorta di Commedia dell’Arte che tiene vivo il gioco erotico proprio perché non può mai portarlo a pieno compimento.Il mondo immaginario, popolato di oggetti, viene riformulato, e gli oggetti vengono nominati e collocati in un sistema organizzato che è quello del muro del linguaggio, ovvero dell’ordine simbolico. A partire da questa nuova ripartizione l’Altro diventa uno degli concetti più solidi dell’insegnamento di Lacan, e va a costituire uno degli elementi portanti dello schema L, cioè di quella bussola che consente di orientare la conduzione della sua psicoanalisi senza smarrirsi nella deriva, da cui si erano lasciate prendere le diverse forme della psicoanalisi anglosassone, del confronto con la realtà. Non è la realtà a poter fungere da guida nella direzione della cura come la pensa Lacan, perché una cura orientata dalla realtà finisce sempre per portare a qualche forma di adattamento.Il solido cardine dell’Altro che per Lacan struttura la cura comincia tuttavia a essere messo in discussione da Miller nel suo corso del 1996-1997, che s’intitola per l’appunto: L’Altro che non esiste e i suoi comitati etici. L’inesistenza dell’Altro diventa a partire da questo momento un filo conduttore man mano che Miller avanza nella sua lettura di Lacan. Sembra quindi che prendendo questa direzione Miller mini una della colonne portanti dell’insegnamento di Lacan. Domandiamoci allora: compare l’espressione “l’Altro che non esiste” nel testo di Lacan? Certamente compare. Lo troviamo in Sovversione del soggetto e dialettica del desiderio, un testo del 1960, e Lacan formula l’espressione in modo esplicito. Si trova a p. 820 degli Écrits, dove Lacan parla del godimento come del luogo la cui assenza renderebbe vano l’universo, e che rende l’Altro inconsistente. Questo godimento mi è proibito, scrive, per colpa dell’Altro, se esistesse, ma poiché non esiste, la colpa ricade sull’io, e siamo al peccato originale. Inesistenza e inconsistenza sono qui chiaramente collegati, e nel Seminario XVI, Da un Altro all’altro, del 1968-1969, questo tema trova uno sviluppo logico, in particolare nei capitoli quinto e sesto. Era stata rilevata, o era stato letta questa espressione in Lacan? No, tant’è vero che quando Miller comincia a farne un’asse centrale nei suoi corsi degli anni Novanta solleva stupore, e anche diffidenza. Qualcuno gli chiede per esempio: vuoi forse tagliare il ramo su cui siamo seduti? Ma non era certo questo lo scopo di Miller. Piuttosto, a partire dall’accento messo sull’Altro che non esiste, Miller comincia a mettere fine al regno del Nome del Padre, che è invece la sigla dell’Altro che esiste. Facendo leva su questo Miller comincia a segnare uno spartiacque tra la clinica freudiana, fondata nel Nome del Padre, e quella lacaniana, come una clinica dell’Altro che non esiste. L’importanza dell’accento messo da Miller sul tema dell’Altro che non esiste sta dunque nelle conseguenze fondamentali che ne trae per la clinica, sta nel fatto che da qui nasce una clinica completamente nuova che fino a quel momento in Lacan era rimasta completamente velata. Se si era a lungo insistito sul ritorno a Freud di Lacan. Con l’Altro che non esiste Miller mette l’accento piuttosto sul distacco da Freud, su una clinica che diverge da quella freudiana. Ed è la tesi dell’Altro che non esiste a condurre alla nozione di partner-sintomo. Se l’Altro, come luogo di raccolta del simbolico, non esiste –sostiene Miller – quel che esiste è invece relativo al corpo, ed è il sintomo. In questa riformulazione della nozione di alterità vediamo apparire leggibile sullo sfondo il reale del sesso, perché per questa via si ricostruisce e, diciamo, si restituisce l’Altro incentrandolo sul godimento. Se consideriamo che l’Altro è il luogo del significante, dobbiamo dire che ci sta dentro tutto, dalla Treccani a Wikipedia, ovvero ci sta tutto e il contrario di tutto, ed è per questo che risulta inconsistente, ovvero non che non esiste, giacché in matematica inconsistenza e inesistenza sono la stessa cosa. Se però l’Altro non esiste, il godimento invece sì esiste, e il godimento presuppone il corpo. Per arrivare a queste conclusioni c’è lo tutto lo studio del passaggio che porta da L’etica, Seminario VII, dove l’Altro e il godimento – indicato come La cosa – sono nettamente separati, all’ultimo insegnamento di Lacan, ad Ancóra, Seminario XX, che presuppone invece un’implicazione del godimento nell’Altro, e dove il significante non funziona più come mortificazione della cosa, ma come strumento di godimento. Sappiamo che il Lacan il godimento non si declina in un modo solo. Prendiamo il godimento fallico: dobbiamo considerare che il godimento fallico non è un’apertura all’Altro, perché questo implicherebbe l’esistenza del rapporto sessuale. Il godimento fallico è piuttosto la ricaduta del godimento sul corpo proprio. Il godimento in relazione con l’Altro non è quindi il godimento fallico, ma il godimento sintomatico. In un certo senso possiamo dire che l’Altro è condannato all’inesistenza nel momento stesso in cui e ricostituito intorno al godimento come sintomo. Vediamo prodursi questo effetto nel momento in cui Lacan reintroduce la pulsione tra i concetti fondamentali della psicoanalisi: considerare la pulsione implica la tesi che non c’è rapporto sessuale, il che vuol dire: l’inesistenza del rapporto sessuale appare non appena si rimette in gioco il reale del sesso. La posizione sessuale nell’essere parlante deriva poi da come il reale del sesso viene soggettivato, da come cioè diventa quel problema che Lacan chiama sessuazione. Quanto implica la presa in carico delle conseguenze dell’inconsistenza dell’Altro e della ripartizione che ne consegue tra le le due formule, quella che contrassegna la sessuazione maschile con il quantificatole universale ∀ (∀x Φ di x) e quella che contrassegna la sessuazione femminile con il quantificatole universale negato (non per ogni x Φ di x). Sono due formule che dicono come dal lato maschile ogni individuo che vi si collochi ricade sotto il segno della castrazione ricadendo nello stesso insieme, mentre diversamente dal lato femminile questo non succede, non vi è in atto una funzione totalizzante, le donne non costituiscono un insieme. Si tratta quindi di far entrare nella partita la logica che Lacan chiama del non-tutto. Miller, nel corso Partner-symptome, del 1997-1998, riprende, per spiegare la ripartizione sessuale, proprio il non-tutto, e precisa che questo non significa la messa in gioco di una riserva, come potrebbe essere: ti dò questo ma non quello. Non è un problema di prudenza, di aggiustamento, di mediazioni, perché vederla in quest’angolo vorrebbe dire considerare il non-tutto come un’incompletezza. Questo modo di pensare – dice Miller – riflette l’ideologia nella cui luce viene concepito abitualmente l’essere femminile: diminuito, ridotto, mancante, segnato da minor potenza. Miller considera questa visione come quella di un’ideologia spontanea, che però più che spontanea in realtà è il riflesso ancora incombente della visione patriarcale. Nella visione patriarcale il non-tutto è messo sotto il segno dell’incompletezza perché non ci riveli l’autentica potenza del non-tutto, che è piuttosto di essere senza limiti. Quel che è insopportabile nella visione patriarcale è la donna libera, perché in quanto libera la donna fa apparire subito sullo sfondo il senza limite. Lo vediamo ancora nella società attuale, che decisamente non va più sotto il segno della società patriarcale, ma che ne sente tuttavia i contraccolpi. Vediamo per esempio come molti casi di femminicidio siano motivati dalla scelta della donna di troncare una relazione, cosa a cui risponde, nella psicologia maschile ferita: “O mia, o di nessun altro”. Occorre andare in direzione di una società in cui la donna non sia considerata un possesso, e non è scontato come potrebbe sembrare nell’opinione liberale illuminata. Millenni di antropologia strutturale, dove le società si reggono sullo scambio delle donne, non spariscono dalla struttura profonda dell’inconscio da un giorno all’altro. Varrebbe la pena di considerare da questo punto di vista le differenze strutturali tra gelosia maschile e gelosia femminile, dove la prima è segnata dall’omosessualità latente, mentre la seconda ha sullo sfondo il profilo dell’Altra donna, della donna veramente e unicamente donna, quella verso cui il desiderio di ogni uomo di rivolge. L’immagine della donna senza limiti, quando il non-tutto non è declinato nel senso dell’incompletezza, ma in quello della società patriarcale, si delinea in alcune figure classiche. Una di queste, di straordinaria forza è la Gezabele la Bibbia narra del primo libro dei Re. Gezabele è una principessa fenicia che va in sposa ad Acab, re di Israele. Questi l’accoglie a braccia aperte e viene man mano soggiogato dal suo fascino. La principessa porta con sé in Israele i suoi dèi e i culti di fertilità e dell’amore di cui è sacerdotessa e nei quali esprime tutta la sua sensualità, la sua forza, la sua libertà. Diventata regina di Israele dopo il matrimonio con Acab, Gezabele si mostra senza vergogna, e senza pudore, e promuove senza inibizioni la sensualità e la prostituzione sacra. Il re, sedotto dall’affascinante straniera, le concede tutto. È lei che prende allora le redini del regno, e non si fa scrupoli per ottenere quello che vuole. Naturalmente una figura così, inserita nel quadro della visione patriarcale della Bibbia, non può fare una bella fine. Viene infatti gettata da una finestra dai nemici di Acab, e il corpo è lasciato in pasto ai cani. Nel mondo anglosassone dove, diversamente che nei paesi cattolici, la Bibbia è letta davvero, Jezebel è diventato un nome comune, sinonimo di donna spudorata, svergognata, senza freni morali. Un bellissimo ritratto di questa figura si trova nel film del 1938 di William Wyler Jezebel, interpretato da una splendida Bette Davis. Nel finale la protagonista, inizialmente arrogante e sfrontata, si redime ed è rimessa al suo posto, e che debba essere rimessa a posto è indice del fatto che in fondo la figura di Jezebel non ha propriamente un posto nella classificazione ordinata del simbolico. Miller infatti, nella sua ripartizione sessuale, mette in luce da questo punto di vista la figura della femminilità che va sotto il segno dell’incompletezza, la donna che non ha, e non avendo non ha luogo nel sociale se non attraverso la mediazione del padre o del marito, come nella borghesia del XIX secolo, dove il perimetro femminile era ristretto alla casa e alla famiglia. L’uomo invece è colui che ha. Se vogliamo considerare il sintomo nel ricentrare l’Altro sul godimento, il passaggio per il corpo è inevitabile, e in questo passaggio si evidenzia che l’uomo ha, e che la donna non ha: la mancanza è dal lato femminile. La donna si trova così a portare tutte le insegne della carenza, appare per eccellenza nella figura della donna povera. La carenza, la povertà, diventano coì prova della femminilità, e possono anche presentarsi come condizioni del desiderio. Oppure, aggiunge Miller, la cosa può andare in senso contrario, verso la donna ricca, potente, inflessibile, ma che in queste sue caratteristiche mostra sempre qualcosa di troppo, e il meno della mancanza appare allora come un più, un segno compensativo, un indice di illegittimità del possesso, che invece è serenamente goduto dall’uomo. Nella mancanza o nell’eccesso quindi la donna non conosce quella giusta misura che invece appartiene all’uomo. Così almeno possiamo descrivere la figura della donna che precede il #metoo il quale – al di là dei suoi eccessi, e facendo la tara degli effetti collaterali di moralismo che ha scatenato – mette in primo piano una donna che non è possesso, una donna che vuole scegliere liberamente. A prescindere dal #metoo abbiamo tuttavia esempi significativi di femminilità libera che non coincidono con il femminismo estremista, e che non ricadono in forme di moralismo di ritorno. C’è per esempio una scrittrice come Emma Becker che per due anni ha scelto di lavorare come prostituta in una casa chiusa di Berlino, raccontando la sua esperienza nel libro La Maison, pubblicato da Flammarion nel 2019. Scrive la Becker: “Ho sempre pensato di scrivere sugli uomini, prima di accorgermi che ho scritto solo sulle donne. Sul fatto di essere una donna. Scrivere sulle puttane, che sono pagate per essere donne, che sono davvero donne, che sono solo questo; scrivere della nudità assoluta di questa condizione è come esaminare il mio sesso al microscopio. Mi affascina nello stesso modo di un assistente di laboratorio che guarda le cellule essenziali a ogni forma di vita”. Il punto non è la prostituzione in quanto tale. Anche la donna povera di Leon Bloy si prostituisce, ma lo fa costretta da una madre sordida e da un compagno ubriacone. La femme pauvre è in effetti un romanzo cristiano della felicità del dolore. In Emma Becker non c’è nessun dolore, nessun senso di colpa, direi anche nessun pudore. È in grado di raccontare la sua esperienza senza nessun imbarazzo nelle interviste televisive che ha rilasciato. In questo assomiglia molto alla donna senza Superio descritta da Hanns Sachs, e che Miller riprende e commenta. Il libro di Emma Becker è un’esplorazione radicale del desiderio femminile, che esemplifica molto lucidamente l’idea del non-tutto preso non dal lato dell’incompletezza ma come senza limiti. Il non-tutto femminile contrapposto al tutto maschile sono i due cardini su cui s’impernia la ripartizione sessuale per quanto riguarda il rapporto con il godimento, e tutto lo sviluppo che Miller ne dà corso Partner-symptome s’incentra su questi due poli, che definiscono due modalità di godimento irrelate fra loro. A partire da questa formula essenziale definita da Lacan, Miller costruisce, arricchendole, una serie di caratteristiche del maschile e del femminile in cui vediamo un piano di base, strutturale, molto ben definito e chiaro, che non permette confusione in quanto è definito dalle formule, e un piano psicologico dove le caratteristiche sfumano ciascuna nel proprio opposto, e dove gli effetti sono in contrasto fra loro. In fondo, in un certo senso, la rilettura che Miller fa delle formule di Lacan riporta anche a dei quadri tradizionali che dipingono quel che è il maschile e quel che è il femminile nelle loro sfumature comportamentali. Leggendo però questi quadri sullo sfondo delle chiavi offerte da Lacan il senso cambia completamente. In questa descrizione psicologica in primo luogo dal lato della completezza maschile troviamo l’equilibrio. In rapporto al senso della misura l’uomo esprime equilibrio. Il tutto maschile va sotto il segno dell’unità, che include l’identità, e che si esprime dicendo: “So chi sono”. C’è dal lato maschile una certa uniformità, dove si delinea un tratto comune e permette la costituzione delle strutture di massa studiate da Freud come l’Esercito e la Chiesa, le strutture che si riuniscono intorno a un capo. Dal lato femminile più che l’identità si riscontra invece la differenza. Riconosciamo così la volubilità sempre attribuita alle donne come nel Rigoletto si esprime il Duca di Mantova, che canta: “La donna è mobile, qual piuma al vento, muta d’accento e di pensiero. Sempre un amabile leggiadro viso, in pianto o in riso è menzognero”. Qui c’è in fondo quel che Lacan riconosce come il tratto “senza fede”. Se dal lato maschile c’è l’Uno, qui siamo invece con l’Altro, ci troviamo con l’alterità in quanto tale, quell’alterità che Lacan assegna alla donna, che è altra anche per se stessa. Incarnando la differenza in quanto tale, la differenza da se stessa, rimane per la donna lo sfondo di una vacuità essenziale, e Lacan attribuisce a questo la sua disponibilità nei confronti del fantasma maschile, in quanto la donna riceve la propria identità solo a partire dall’uomo. Si può poi vedere come si ripartiscono le cose dal lato dell’oggetto. Qui vediamo alcuni aspetti tra i più consolidati. Dal lato maschile si evidenzia infatti l’oggetto feticcio, che incarna l’oggetto a, mentre dal lato femminile vediamo piuttosto il fenomeno erotomane, dove l’oggetto ha minore consistenza, minore concretezza, è un oggetto che sostiene l’amore. Per questo più che con l’oggetto a, Miller lo indica con A barrata. Con questo modifica anche la formula del fantasma data da Lacan. La formula del fantasma per Lacan è uguale nel maschile e il femminile, è sempre S barrata in relazione con a. Nella prospettiva presa da Miller in questo corso tuttavia questa formula appare più caratteristica del desiderio maschile, mentre la controparte oggettuale del femminile è piuttosto il partner dell’amore, che vuol dire un partner mancante, segnato dalla mancanza, un partner che possa dire: mi manchi, ho bisogno di te, sei il sale della mia vita. Questo partner contrassegnato dalla mancanza è quello siglato con A barrata, per cui, il fantasma femminile di carattere erotomane risulta S barrata in relazione con A barrata. Vediamo quindi come maschile e femminile si differenzino quanto alla causa del desiderio. Per il maschile è il plus-godere a mettere in movimento in desiderio, per il femminile è l’amore folle. Dopo aver ben definito le strutture, e gli aspetti comportamentali, Miller si dedica alle descrizioni psicologiche, che formula avendo in mente in modello di La Bruyere. Jean de La Bruyère è uno scrittore moralista del XVII secolo appartenente all’entourage del Duca di Borbone, e la sua opera principale è I caratteri, dove descrive la propria epoca con grande spirito di osservazione e con ironia, filtrandola appunto attraverso delle tipologie, dove troviamo il dissimulatore, l’adulatore, l’impertinente, il compiacente e così via. Miller in un certo senso riprende questa ispirazione e comincia dalla psicologia della prudenza. L’uomo, che è caratterizzato dall’avere, e che si presenta equilibrato, conforme, unitario, si impone come figura di proprietario che deve protegger quel che ha, e pone così dei limiti, per cui si può arrivare fino a un certo punto ma non oltre. La prudenza si presenta nel maschile dal lato della timidezza, della riserva; e dal lato del femminile, dove vige la logica dell’illimitato? Ebbene da questo lato invece della prudenza troviamo l’intrepidezza, la sprezzante sicurezza di sé, lo slancio delle pasionarie. Invece della timidezza troviamo una certa sfrontatezza, invece della protezione, la messa a repentaglio, e invece dell’aggressività immaginaria, che implica la relazione con l’altro simile, abbiamo piuttosto la mistica, che implica la relazione con l’Altro dell’amore, l’assorbimento nell’Altro della pura differenza. Nella descrizione psicologica si verificano poi delle inversioni, perché per esempio collochiamo dal lato maschile l’idealismo, il rapporto con l’ideale, che implica la possibilità del sacrificio per gli ideali e che costituisce l’esatto opposto della prudenza e della timidezza. Apparentemente l’idealismo maschile dovrebbe trovarsi dalla parte dell’illimitato, invece è un carattere che appartiene al maschile. Di pertinenza invece del lato femminile è piuttosto il senso comune. Sembra che la prudenza e la timidezza debbano rimandare al senso comune, e invece sono attribuiti del femminile. D’altra parte l’idealismo, che spinge all’eroismo – l’eroe in Commedia è elettivamente una parte maschile – implica una trasgressione, e per trasgredire è necessario siano segnati dei limiti. L’eroe può esprimersi solo nella struttura di uno spazio limitato di cui forzare il limiti, per questo lo si incontra dal lato maschile. La partner dell’eroe è poi la bourgeoise – in francese la bourgeoise è la donna che tiene i cordoni della borsa – perché la borghese non cede alla trasgressione, e quindi garantisce la buona amministrazione. Le cose naturalmente stanno così se si prende la prospettiva maschile, ma se si considera la vera donna in senso lacaniano, vediamo che è proiettata verso l’illimitato. Se quindi i ruoli vengono distribuiti a partire da lei, troviamo allora la smarrita, quella che non ha nessun equilibrio, nessuna unità, nessuna uniformità. Il partner che le è necessario è quindi il partner bussola. Abbiamo così la coppia della smarrita e della bussola. Vediamo così che le modalità di godimento fissate dalle formule di Lacan si riflettono con varie sfumature sul piano psicologico definito dalle caratteristiche, dove si verifica sempre una compensazione: l’eroe sfrenato ha bisogno della borghese che gli tenga i conti e stringa i cordoni della borsa, la smarrita ha bisogno di un compagno che le dia il nord. Perché la coppia tenga occorre che accanto alle linee di fuga dell’illimitato ci sia qualcuno che tenga la rotta. Si arriva così all’ultima caratterizzazione e differenziazione di questa dialettica binaria, quella che mette il sintomo dal lato maschile, e la devastazione dal lato femminile. Il sintomo è ovviamente una sofferenza, ma è una sofferenza limitata, localizzata. Sia che si tratti di fenomeni corporei sia che si tratti di costruzioni psicologiche, come il pensiero ossessivo, il sintomo è comunque fatto di elementi discreti e classificabili. La devastazione è invece un saccheggio senza limiti, un dolore sconfinato. Miller si riferisce all’etimologia del termine francese ravage, che viene dal latino rapire, da cui ravissement, che significa anche innalzare una persona a uno stato di felicità suprema. È quindi un verbo che si riferisce a uno stato amoroso di trasporto, di estasi. Il termine devastazione, come ravage, scivola dunque verso un contenuto antinomico, che può avere in sé il proprio contrario. Il non-tutto che sta alla base di struttura, visto in questa luce, è quindi un non-tutto dell’inconsistenza, e non dell’incompletezza. Il diverso rapporto che il maschile e il femminile intrattengono con l’oggetto si riflette in modo particolarmente visibile in una delle caratteristiche psicologiche che abbiamo visto all’inizio: la prudenza. Miller pone la prudenza e la timidezza dal lato maschile, come pertinente a chi si trova nella posizione di avere. È noto come in una relazione di coppia che si è logorata, che ha perso le proprie motivazioni di fondo, l’uomo è il più delle volte riluttante a rompere il legame. Per paura della solitudine, o per la preoccupazione di perdere la gratificazione erotica di un rapporto pur svuotato dal punto di vista sentimentale. Sappiamo invece che sono le donne in questi casi a prendere l’iniziativa e a rompere, perché per loro, se l’amore è finito, è già tutto perduto! È insopportabile per na donna restare in una relazione di cui si è consumato il presupposto. L’uomo, in fondo, tiene alla misura, sta nei binari, segue la routine. In contrasto con questa regolarità, questa aderenza alla quotidianità, l’essere femminile è un essere della lontananza, come Madame Bovary. Emma Rouault – questo è il suo nome prima del matrimonio – è la donna dalle fantasie infinite, è una lettrice di romanzi, ha sogni di lusso e di vita grandiosa. Charles Bovary invece è un uomo per bene, ma monotono, noioso, maldestro. Ricolma la moglie di ogni attenzione e gentilezza, ma riesce solo ad alimentare il suo disprezzo per lui, visto come uomo banale, un semplice medico di provincia, in netto contrasto con i fasti dell’aristocrazia che abbagliano gli occhi di Emma. Miller, descrivendo l’uomo che va dritto e regolare sui suoi binari, prende anche un altro riferimento letterario: La bête humaine di Émile Zola. Qui troviamo rappresentato il guidatore di locomotive come un’incarnazione esemplare della civiltà moderna. Alla regolarità routinaria dell’uomo del binario, si aggiunge poi la connotazione della potenza impressionante della macchina. La locomotiva, che arriva sempre all’orario previsto nel luogo indicato, alberga in sé un aspetto non collocabile, inquieto, non prevedibile per via della passione erotica che ispira in lui l’altro sesso. La potenza regolare della macchina esplode allora nell’irrazionalità della bestia, la bestia umana per l’appunto. Miller commenta, seguendo lo stesso filone di pensieri, anche un quadro di Éduard Manet dal titolo Le chemin de fer. È un quadro molto particolare, perché dell’oggetto del titolo mostra solo una traccia, il fumo della locomotiva, mentre in primo piano stanno due esseri femminili: una donna matura, per la quale Manet ha usato la stessa modella che usato ne L’Olimpya, e una bambina. La donna tiene in mano un libro aperto e in braccio un cagnolino. Attraverso il cagnolino i critici riconoscono un’allusione alla Venere di Urbino di Tiziano. Quest’allusione crea una tensione erotica indiretta, perché la Venere di Urbino guarda, nuda, direttamente lo spettatore invitandolo a contemplare la sua nudità. Ma c’è anche nel suo sguardo una sorta di malinconica, bovariana distanza, giacché volge le spalle allo spettacolo della locomotiva, osservata invece con grande interesse dalla bambina. In questo quadro, in fondo, la potenza meccanica maschile è come svanita, ridotta a segno, piccola cosa dietro la potenza erotico-allusiva del femminile. I due piani della scena sono poi separati da una cancellata che sembra ribadire l’impossibilità dell’incontro tra le due modalità di godimento, maschile e femminile. Direi che in nei passi del corso di Miller che abbiamo considerato vediamo proprio questo: due modalità irrelate di godimento ben definite dalla formula di Lacan del tutto e del non-tutto e, su un altro piano, quello psicologico, un rincorrersi, un intrecciarsi, un opporsi, un mescolarsi, un compensarsi, che tenta di restituire un legame a ciò per cui non c’è rapporto. Senza mai essere complementari, maschile e femminile si inseguono e si scambiano le parti, in una sorta di Commedia dell’Arte che tiene vivo il gioco erotico proprio perché non può mai portarlo a pieno compimento.
0 Comments
Leave a Reply. |
Marco Focchi riceve in
viale Gran Sasso 28 20131 Milano. Tel. 022665651. Possibilità di colloqui in inglese, francese, spagnolo Archivi
Settembre 2024
Categorie |