di Marco Focchi La società della trasparenza è il punto culminante della società dello spettacolo in cui viviamo, che si è definita con la trasformazione centralistica del capitalismo compiutasi negli anni Venti. Nella società dello spettacolo lo slogan non ha neppure bisogno di essere creduto per andare ad effetto. Che un detersivo lavi più bianco del bianco non ha alcun reale contenuto informativo. Nessuno in effetti cerca di conoscere le qualità di un prodotto attraverso lo sketch pubblicitario che lo presenta. Il martellamento pubblicitario ha tuttavia la funzione di far esistere il prodotto attraverso la ripetizione, la reiterazione del messaggio che lo rende riconoscibile, facendolo entrare nel campo di realtà dei nostri pensieri. Non è una questione d’inganno, perché non si tratta più di un linguaggio in relazione con la verità, e quindi neanche con la menzogna. La volontà di chiarezza nata con la ragione moderna si pone di fronte al mondo come suo specchio, e biforca il linguaggio in una formalizzazione logico-tecnica che aderisce al mondo come un sistema di etichette privo di desiderio, e in una sfera mitico-mistica dove il desiderio perde la propria spinta creativa smarrendosi in una ragnatela d’illusioni. La propaganda si appropria di questa sfera vuota dandole una torsione, trasformandola in intrattenimento, luogo di ricreazione per le menti stressate dal principio di prestazione. Si produce allora un teatro di attrazioni serializzate in modo conformista, dove il massimo della personalizzazione (o customizing, in linguaggio aziendale) coincide con il massimo dell’appiattimento.
Conosciamo bene il glamour stereotipato e stucchevole emanante da questo tipo di televisione che nel ventennio appena trascorso ha depauperato l’immaginario italiano. C’è però un altro modo di vedere il glamour, che va piuttosto nel senso di quell’aura che Benjamin considerava perduta per l’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica. La sentiva finita perché la riproducibilità tecnica toglie all’opera d’arte l’hic et nunc, la sua unicità, l’intreccio di vicinanza e lontananza che ne costituisce l’autorità e il valore intrinseco. Benjamin vede nella diffusione contemporanea dell’informazione e delle immagini la necessità di avvicinare le cose, di portarle a una totale trasparenza che toglie loro il mistero e la magia con cui l’arte c’incanta. In realtà nell’arte contemporanea l’aura è tanto poco perduta che ad Andy Warhol era stata fatta una consistente offerta per acquistare la sua. Cosa che lo aveva messo in ironico imbarazzo perché diceva di non sapere esattamente cosa dovesse vendere. Benjamin, nella sua analisi, partiva in effetti da una concezione aristocratica dell’aura e da un’idea meccanica della riproduzione. In Andy Warhol la serialità delle sue riproduzioni è invece tutto fuor che meccanica, e l’aura emana non dall’evocazione di una trascendenza, ma dall’inafferrabile presentazione di una differenza. C’è quindi il glamour della società dello spettacolo, stereotipo, meccanico, reiterativo, e c’è il glamour di una ripetizione che non è la riproduzione di un originale, come in Warhol e come nella psicoanalisi. Il glamour della psicoanalisi nasce dal fatto che la ripetizione non è la messa in serie di una scena d’origine – per esempio la relazione edipica, o la scena del coito genitoriale dell’Uomo dei lupi – di cui le riproduzioni successive sarebbero le semplici copie, e dove tornando all’originale tutto sarebbe svelato, tutto chiarito, tutto reso all’assoluta trasparenza. La ripetizione non ha un primum movens, e la nozione di ricordo di copertura lo illustra pienamente, perché non si tratta della copertura di un fatto che può essere svelato, ma di uno schema simbolico che, per esempio in diverse tranches di analisi, si presta a letture diverse. Se c’è nella psicoanalisi un punto di resistenza alla coazione totalizzante della trasparenza, la ripetizione e il ricordo di copertura ne sono l’illustrazione migliore.
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Settembre 2024
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