Conferenza tenuta presso l'Istituto del Buon Pastore di Bologna il 16 settembre 2023 Marco Focchi Il tema della psicosi ordinaria si presta molto bene per sviluppare un discorso ad ampio raggio sulle variazioni storiche intervenute nella clinica psicoanalitica, sulle diverse configurazioni in cui essa si definisce e si trasforma, e per altro verso sul suo aggancio a una determinata struttura che ne forma il nocciolo duro, il reale inaggirabile. Ci può poi consentire uno sguardo sull’orizzonte di tempo in cui la pratica risponde alle variazioni del simbolico determinatesi nel sociale. Credo sia per noi importante considerare l’oscillazione in cui dobbiamo mantenerci tra il nucleo pregnante che dà il carattere specifico della nostra clinica, e i mutamenti che rispondono alle molteplici lunghezze d’onda in cui si misura la comune ricezione. In altri termini: da un lato non possiamo ancorarci a una preservazione immutabile delle nostre coordinate cliniche, perché certe modalità di lettura e di intervento non sarebbero più leggibili nel nostro mondo. Non potremmo più fare come Freud che, durante una una passeggiata al Trotter, fa notare a Mahler che sua moglie ha lo stesso nome di sua madre, toccandolo così nel più profondo: l’interpretazione esplicitamente edipica si è consumata a misura del suo stesso successo, e il nucleo reale si è immunizzato rispetto alle sue parvenze edipiche. Al tempo stesso non possiamo neppure diluirci, a favore di una riconoscibilità, nell’indifferenziato che rischia di slittare verso il senso comune seguendo il vettore della minima resistenza. Il gorgo pericoloso del buon senso
Il senso comune è infatti una belva vorace in grado di divorare, neutralizzare man mano ogni incursione di verità smussandola, rendendola inoffensiva. Dobbiamo quindi riuscire a mantenere sempre una certa capacità di produrre nel soggetto un effetto di estraniazione, senza al tempo stesso cadere fuori dai margini rendendoci emarginati. Dico questo per cercare di disegnare, di far sentire la linea sottile e delicata in cui si mantiene la nostra pratica, sempre esposta al rischio di essere travolta dalla mareggiata del buon senso, o di scivolare nell’oblio generato dalla ghettizzazione. Il dibattito a Parigi nel 1982 Un esempio delle variazioni di cui vi parlo nella clinica può essere preso nella lunghezza storica immediata della nostra esperienza nel Campo freudiano. Penso all’incontro internazionale tenutosi a Parigi nel 1982, il primo dopo la morte di Lacan. Si trovavano in quell’occasione a confrontarsi per la prima volta gli analisti europei e quelli provenienti dal Sud America, in particolare dall’Argentina. In quel momento non ci si conosceva ancora davvero. I sudamericani erano lacaniani per lo più attraverso le letture, ma per quanto riguarda la pratica le loro esperienze d’analisi erano state fatte generalmente con analisti kleiniani. Le domande che si ponevano erano spesso astrattamente teoriche. Si chiedevano per esempio come si fa per fare la passe, senza che a quel tempo fosse costituito qualsivoglia dispositivo per la passe. Avevano conosciuto Lacan attraverso Oscar Masotta, avevano seguito il seminario di Miller a Caracas nel 1979, ma tutto, dal punto di vista organizzativo e istituzionale, era ancora da costruire. I latino-americani avevano quindi ampie letture lacaniane, provenendo però per la maggior parte di loro da esperienze di analisi eterogenee, con analisti, come ho detto, principalmente di formazione orientata dalla clinica di Melanie Klein. Il problema della pratica kleiniana è che si basa su una prospettiva continuista, e che considera quindi permeabile la frontiera tra psicosi e nevrosi. La psichiatria esistenziale inglese, influenzata da Melanie Klein – Ronald Laing per esempio si è formato in ambito kleiniano con Charles Rycroft – aveva sfruttato questa idea considerando la malattia mentale come un’esperienza, un passaggio, una risposta sana a un mondo malsano. Molti casi presentati dai nostri colleghi argentini del tempo erano erano diagnosticati psicosi, con descrizioni di passaggi dalla psicosi alla nevrosi che non corrispondevano ai criteri diagnostici lacaniani accettati allora dagli europei. La diagnosi di psicosi aveva molto meno esigenze per gli psicoanalisti argentini. I nostri colleghi francesi invece stavano allora studiando la psichiatria classica, e una diagnosi di psicosi richiedeva criteri ben determinati, manifesti, come fenomeni elementari evidenti, ospedalizzazioni, grandi crisi deliranti. Si assistette così a un grande dibattito clinico dove molte diagnosi di psicosi venivano contestate dai colleghi parigini, e si affermò il canone di una rigida struttura differenziale tra nevrosi e psicosi. La psicosi era una precisa struttura, e non si passa da una struttura all’altra. Uno psicotico è uno psicotico, anche se non c’è ancora stata insorgenza, e un nevrotico è un nevrotico, anche se mostra qualche manifestazione delirante o qualche fenomeno di tipo allucinatorio. Si stabilì allora una clinica rigorosamente discontinuista tra psicosi e nevrosi fondata sulle differenze di struttura, e non sulle manifestazioni fenomeniche. La depatologizzazione Questa posizione ha sbarrato la strada all’ipotesi, diffusa tra i kleiniani, di una psicosi come potenzialità virtualmente presente in ciascuno. È chiaro che quando prendiamo oggi la frase di Lacan: “Tout le monde est fou” per farne il titolo di un Congresso AMP non la decliniamo nel quadro clinico delle psicosi. È un’idea che va piuttosto nel senso di mettere un contrappeso alla depatologizzazione della clinica dove, come ha sottolineato Miller, la progressiva sostituzione del soggetto del diritto al soggetto dell’inconscio rischia finanche di sbarrare la strada all’interpretazione analitica. La depatologizzazione è infatti un derivato della cultura Woke. Quel che specifica la cultura Woke è che, partendo da una rivendicazione democratica, la esaspera fino a diventare impositiva, se non totalitaria, giungendo a trasformare l’azione politica in pretesa e in proclama di cui si rivendica un riconoscimento sul piano giuridico. Psicosi bianca, psicosi fredda, borderline Un altro aspetto per quanto riguarda le variazioni nella clinica è il rifiuto della nozione di borderline. Una volta stabilita una clinica decisamente strutturale e discontinuista, che non consente scivolamenti da una posizione psicotica a una nevrotica e viceversa, la nozione di borderline non può più avere posto, poiché toglie nettezza alle definizioni e diventa un po’ il deposito dei casi difficili da diagnosticare. Ci sono stati diversi tentativi di definire stati patologici non riferibili al quadro classico della nevrosi, e non propriamente collocabili come psicosi. André Green e Jean-Luc Donnet, nel 1973, hanno parlato di psicosi bianca per descrivere una sindrome che sfugge a una definizione precisa. Viene caratterizzata come psicosi bianca una difficoltà nel simbolizzare l’assenza materna, accompagnata dalla manifestazione di una mancanza di affettività, di creatività e di senso della realtà. Nel 1972 Eveline e Jean Kestenberg hanno proposto la nozione di psicosi fredda per descrivere una mancanza di affettività, una tendenza alla dipendenza e una relazione feticista con l’oggetto, disturbi d’identità e una difficoltà di simbolizzazione delle esperienze. Né la psicosi bianca né la psicosi fredda si sono però affermate come ipotesi euristiche nella psicopatologia clinica, e maggior successo ha avuto certamente il concetto di borderline. La prima menzione di questo termine compare in un articolo di Adolph Stern del 1938, a partire dalla considerazione di pazienti che mostravano, sotto stress, particolari sintomi, come ipersensibilità, instabilità emotiva, senso d’inferiorità, alternanza di idealizzazione e svalutazione degli altri, impulsività e comportamenti autolesivi. Successivamente, in condizioni normali, questi sintomi rientravano. Stern fu il primo a considerare che questo tipo di pazienti fosse molto difficile da trattare con la psicoanalisi classica, e propose modifiche incentrate su una maggiore flessibilità, una minore interpretazione, e una maggior attenzione agli aspetti relazionali. Il vero successo della nozione clinica di borderline venne però con Otto Kernberg, che non ne parlò come di situazione di confine, ma come di una vera e propria organizzazione della personalità accanto alle altre due, la nevrosi e la psicosi. Kernberg presentò il quadro borderline come definito da una scarsa integrazione del sé e degli oggetti. Anche Kernberg ha considerato una modalità particolare di psicoterapia da adottare con i pazienti borderline incentrata, come per Stern, sulla relazione. Ha chiamato il suo modo di trattamento: Transference Focused Psychotherapy TFP. Verso la psicosi ordinaria Queste sono le premesse storiche e i tentativi di risposta che hanno dato man mano gli psicoanalisti per circoscrivere e definire una casistica molto ampliatasi rispetto all’esperienza freudiana, e che presentava un numero crescente di casi sempre più difficili da inquadrare con i criteri classici. Lo stesso problema si è posto anche per noi nel Campo freudiano dove, tenendo ferma l’idea di una diagnosi strutturale, che divide il campo clinico tra psicosi e nevrosi, sempre più tuttavia la nostra pratica si è affollata di casi che, in base ai criteri diagnostici da noi adottati, risultavano inclassificabili. Si tratta di casi senza precedenti di ospedalizzazione o di trattamenti psichiatrici, che non presentano situazioni deliranti, allucinatorie o malinconiche, per i quali è tuttavia possibile sospettare un funzionamento psicotico. Jean-Claude Maleval riassume molto bene nel suo libro Repères pour la psychose ordinaire i passaggi che hanno portato alla definizione di psicosi ordinaria, cioè la risposta che nel nostro contesto è stata data all’estensione di casi che non rientrano nel canone freudiano. Maleval fa notare infatti come ci siano pochi lavori in merito a casi di psicosi senza esordio prima del 1990. Lo studio di questi casi era ostacolato nella psichiatria dal postulato di una malattia mentale soggiacente, e nella psicoanalisi dall’idea di un nucleo psicotico presente in ciascun soggetto. Melanie Klein infatti sostiene nel suo articolo del 1946, Note su alcuni meccanismi schizoidi, che esiste un nucleo psicotico di difese primitive messe in atto dal bambino per fronteggiare le angosce primordiali di distruzione del sé e degli oggetti, difese che sono la scissione, l’identificazione proiettiva, l’idealizzazione. Questo nucleo psicotico è presente, per Melanie Klein, in ogni essere umano, e si manifesta in modo differente secondo il livello di organizzazione della personalità e la capacità di elaborare le angosce. Chiaramente la nozione strutturale della psicosi fondata sulla preclusione del Nome-del-Padre parte da una premessa completamente diversa. Per Melanie Klein, il nucleo psicotico può essere una fonte di creatività che trasforma le angosce primordiali in opere originali. Con la diagnosi strutturale entrano in gioco invece tutte le questioni che riguardano i modi di compensazione e di supplenza. Sullo sfondo di questi temi si scandiscono le tre tappe successive da cui ha avuto origine la nozione di psicosi ordinaria. La prima tappa è stata il Conciliabolo di Angers. Effetti di sorpresa nelle psicosi, del 1996. In questo dibattito un partecipante si riferisce agli effetti della preclusione nei diversi registri, notando come nell’incontro con il reale sul piano libidico, si verifichi per il soggetto una catastrofe evocata da Lacan come morte del soggetto, e che corrisponde all’abolizione degli effetti di senso prodotti dalla metafora paterna (p.92). L’anno successivo, nel 1997, abbiamo la Conversazione di Arcachon. Casi rari: gli inclassificabili della clinica. Sorge qui la questione se si debba creare un termine nuovo per indicare psicotici così diversi da quelli descritti dalla psicoanalisi classica, come quelli di cui si notano gli effetti minimi di una leggera zoppia nell’annodamento RSI. Sono soggetti che hanno evidentemente trovato un modo di annodamento che tiene abbastanza, anche senza il sostegno del Nome-del-Padre. Alla fine, nel 1998, c’è la Convenzione di Antibes, dove in apertura Jacques Alain Miller propone per l’appunto la nozione di psicosi ordinaria, facendo leva sull’espressione che Lacan utilizza nella questione preliminare a proposito di Schreber, quando parla di un disordine nella più intima giuntura del sentimento della vita. Questo disordine è relativo al modo in cui il soggetto si sente nel proprio mondo, nel proprio ambiente, al modo in cui si sente con il proprio corpo, e al modo in cui ci si rapporta con le proprie idee. Il fatto di prendere un riferimento in questo punto indicato da Lacan come disordine nella più intima giuntura del sentimento della vita è prezioso perché cosa significa “la più intima giuntura”? Cosa congiunge questa giuntura? Il problema di Lacan, sin dai primi seminari in cui ha cominciato a studiare le strutture simboliche della soggettività, è sempre stato cercare di articolare la macchina significante – il cui carattere strutturale la presenta naturalmente come un ordine discreto – con la vita e il suo flusso imprevedibile. La soluzione da lui trovata è stata quella del significante fallico, cioè un significante in presa sul godimento. Se ci pensiamo bene, si tratta una vertiginosa acrobazia, perché il significante è preso da Lacan, che fa sua la definizione di San Paolo, come la morte della cosa (seconda lettera ai Corinzi: la lettera uccide, lo spirito dà vita. E poi in Hegel nella Fenomenologia dello Spirito troviamo: il linguaggio uccide la realtà sensibile nel momento stesso in cui la sottrae alla propria immediatezza). Capiamo dunque il carattere paradossale di questa idea perché il godimento fallico è un godimento circoscritto dal significante, ma non annullato. La giuntura tra significante e godimento della vita è dunque realizzata dal fallo. Nel momento in cui consideriamo che nella psicosi, per via della preclusione del Nome del Padre, salta il significato fallico, vediamo che viene allora colpito proprio il punto sensibile in cui tutti gli effetti di senso della macchina significante trovano un aggancio nella realtà vitale dell’esistenza. È quindi particolarmente significativo che Miller, per descrivere gli effetti e i fenomeni della psicosi ordinaria faccia appello a questo passo di Lacan nella Questione preliminare, perché è quello che più di ogni altro indica gli effetti prodotti dall’azzeramento della funzione fallica, siglata Φ0. È un azzeramento che non porta necessariamente a un esordio, alla manifestazione esplicita della psicosi, ma a piccoli fenomeni che possono essere, per l’appunto, corporei, linguistici, relazionali. La psicosi ordinaria e il mondo contemporaneo È interessante vedere dunque che la psicosi ordinaria non porta a una revisione della struttura binaria nevrosi/psicosi, perché non costituisce un quadro mediano, come la psicosi bianca, la psicosi fredda, e la personalità borderline. Maleval ha ragione a sottolineare anche la differenza rispetto alla definizione di psicosi attenuata introdotta come categoria nel DSM 5. Questa categoria indica infatti una situazione prodromica, una situazione a elevato rischio di sviluppare, in un arco di tempo misurabile in pochi mesi o pochi anni, un’aperta schizofrenia. Non è questo invece quel che indica la psicosi ordinaria, che non designa i prodromi di una malattia a venire, ma uno specifico modo di funzionamento soggettivo. Questo particolare modo di funzionamento rispecchia le trasformazioni post belliche del mondo contemporaneo. La perdita di ideali solidi e istituzionali che riscontriamo oggi porta infatti a quel Lacan, già nel 1973, in Televisione definisce come lo smarrimento, il disorientamento, la sregolatezza del nostro godimento (p. 528 Altri scritti). A questo si aggiunge la precarietà del nostro mondo che si situa solo a partire dal plusgodere. Notiamo qui come tra il disorientamento relativo al godimento e l’orientamento che si trova solo a partire dal plusgodere, il plusgodere si produca solo a partire da una perdita, o da una spoliazione, se vogliamo mantenere la sua connessione concettuale con il plusvalore. Che la precarietà trovi una stabilizzazione solo attraverso il plusgodere significa comunque che non la trova attraverso l’ideale. Non la trova cioè a partire da una proiezione forte proveniente dal Nome-del-Padre. In questo possiamo vedere in un certo senso l’attualità della psicosi ordinaria. Cos’è infatti orientarsi se non dare un senso? Nell’ultimo insegnamento di Lacan tuttavia Miller fa notare come dare senso sia sempre delirare. Ogni costruzione simbolica che produce un senso genera, proprio per questo, un delirio. Motivo per cui nella clinica non dobbiamo curarci di comprendere. Nel seminario sulla psicosi, come sappiamo, Lacan si rivolta contro il termine di comprensione promosso da Jaspers. Comprendere significa partecipare al delirio di chi ci parla, mentre il compito clinico è cogliere il particolare modo che il paziente ha di dare senso alle cose e di tornarci sempre su nel modo della ripetizione. Se dall’ipotesi di un Nome-del-Padre forte discende la determinazione di un senso comune che fa marciare tutti allo stesso passo, nella clinica ci interessano più le sfumature, le differenze, quel che si stacca dal senso comune, quel che particolarizza il dire del paziente. Consideriamo l’esempio folgorante che Lacan presenta nelle ultime lezioni del seminario sulle psicosi, quello della strada maestra. La strada maestra è quella intorno a cui nodi si creano agglomerati e abitudini, in cui man mano sorgono le città. Con questo esempio siamo in una fase in cui Lacan ha prodotto il concetto di preclusione, ma non sa ancora individuare cosa sia precluso, e l’esempio della strada maestra gli apre l’orizzonte perché appunto, come nelle tappe della strada maestra si creano agglomerati urbani, così c’è un significante intorno a cui si producono aggregazioni di senso, e questo significante è il Nome-del-Padre. La strada maestra è il Nome-del-Padre, e quando questa non c’è, si cercano vie secondarie, si percorrono sentieri, si prendono strade collaterali. È quel che succede appunto nelle psicosi, dove i fenomeni elementari, i fenomeni allucinatori, le voci, sono le vie secondarie che lo psicotico è costretto a imboccare proprio in assenza della strada principale, cioè del Nome-del-Padre. In un certo senso il panorama della modernità, segnato dal declino del Nome-del-Padre, presenta un paesaggio fatto di sentieri, viuzze, carruggi, dove ciascuno deve trovare la propria strada. Per questo la psicosi ordinaria si impone particolarmente come fenomeno della modernità, e nella nostra clinica lo abbiamo visto crescere in modo impressionante. Un nuovo statuto per il Nome-del-Padre Questo impone un ripensamento della teoria lacaniana della psicosi degli anni Cinquanta, e a questo compito si dedica Miller nella sua conferenza Effetto di ritorno sulle psicosi ordinarie. Significativa è qui la proposta di una trasformazione dello statuto del Nome-del-Padre. Quando parliamo del Nome-del-Padre nei testi classici infatti pensiamo al nome come a un nome proprio. Miller propone ora di considerare il Nome-del-Padre piuttosto come un predicato. Questo modo di vedere mette in continuità la teoria classica della psicosi con quel che si delinea a partire dalla psicosi ordinaria, dove possiamo avere infinite varietà indebolite di elementi che entrano in gioco in funzione di Nome-del-Padre, che seguono vie collaterali piuttosto che la strada maestra, ma che costituiscono comunque circuiti percorribili. Se leggiamo questa problematica attraverso la logica nodale di Lacan, si tratta di trovare annodamenti alternativi al nodo borromeo, che è la strada maestra, annodamenti alternativi che possano tuttavia tenere. Nella funzione proposizionale si tratta invece di associare due domini: il dominio della variabile, che riguarda gli argomenti, e un codominio relativo ai valori di verità della funzione, dove la funzione è la regola che associa i due campi. Quando Lacan, nella prospettiva classica che vediamo nel Seminario V, parla di metafora paterna, abbiamo il Nome-del-Padre che si sostituisce al Desiderio della Madre dando luogo al significato fallico. In altri termini il Nome-del-Padre vincola la produzione di senso al significato fallico. Tutto il mondo del soggetto prende senso a partire da questo punto di capitone. Cosa possiamo dire se traduciamo questa operazione in termini di funzione? Possiamo dire che il Nome-del-Padre è la funzione attraverso la quale il desiderio della madre, ovvero la mancanza fondamentale, quella che rende l’Altro incompleto o incoerente, assume il senso della castrazione. Cosa implica allora considerare il padre non come un nome ma come un predicato? Il primo passaggio consiste nel pensare il padre non attraverso la metafora paterna in cui Lacan traduce l’Edipo, ma come funzione. E qual è la funzione? È la funzione di dare senso. Ci sono però molti modi possibili di dare senso. La via edipica sta nel dare il significato fallico come punto di ancoraggio per ogni produzione di senso. Abbiamo visto però che accanto alla strada maestra ci sono tante vie secondarie attraverso le quali, in un modo o nell’altro, si arriva dove si deve arrivare. Il delirio di Schreber, in fondo, è tutto fuorché privo di senso, anzi è ipersaturo di senso, tanto che Schreber giunge a scrivere: ogni non senso è abolito. Volendo possiamo dunque scrivere la funzione paterna come la funzione di dare senso: P (x) dove x ha senso a partire da P. Quando Miller parla di Nome-del-Padre come di predicato il suo riferimento è alla funzione proposizionale, che contiene una o più variabili, e che diventa proporzione quando a ciascuna variabile è sostituito un valore di verità. Per esempio: (x) è caldo diventa vera se a x sostituiamo “fuoco”, è falsa se le sostituiamo “ghiaccio”. Così il Nome-del-Padre come predicato diventa Nome-del-Padre (x). Allora quando questa funzione proporzionale è vera? Quando a (x) sostituiamo un termine che fa sì che nel mondo del soggetto che sta parlando si produca senso. Per esempio: ho avuto in analisi una donna che aveva sviluppato un delirio paranoico dopo aver avuto un rapporto anale con un uomo conosciuto in una città diversa dalla sua. Sempre frigida nei precedenti rapporti, in questa occasione aveva incontrato un godimento sconosciuto per il quale non c’era casella simbolica. A partire da questo momento la donna sviluppa un delirio su un complotto demoniaco in atto per mettere a repentaglio la terra, e scrive al Papa per metterlo in guardia su questo complotto. Il senso del mondo si distribuisce allora per lei nell’antinomia tra l’angelico salvifico e il diabolico. Il suo delirio produce senso non a partire dall’asse del significato fallico, che gira intorno all’assenza/presenza, ma a partire dal sovraccarico di pienezza che gira intorno all’asse santo/demoniaco. Attraverso questo lei acquisisce anche un posto sociale, se così possiamo dire parlando di una situazione di estrema solitudine come quelle delle psicosi, dove la solitudine è quella del fuori discorso. Grazie al suo delirio la donna ha infatti un posto come militante nella lotta contro il demoniaco, come colei che ha il compito di sensibilizzare il papato e di mobilitarne le forze. In questo caso, che è di paranoia manifesta, abbiamo un riferimento a un luogo simbolico forte come il papato. Maleval tuttavia nota come nel numero crescente di patologie che possiamo riconoscere come psicosi ordinarie viene in primo piano un trattamento del godimento realizzato attraverso mutilazioni o forme di violenza esercitate sul corpo. Appare in questi fenomeni come il declino del padre porti a un diverso modo di delimitare il godimento che non è quello della castrazione, giacché questa delimitazione non è specificamente determinata dall’Edipo, ma dall’entrata nel linguaggio in quanto tale. Per quanto riguarda i luoghi sociali, vengono invece privilegiati quelli strutturati da ideali solidi, dove lo smarrimento e la precarietà trovano modo di compensarsi più facilmente. Da qui l’attrazione verso comunità fortemente gerarchizzate come l’esercito, la chiesa, la setta. Possiamo con questo notare che la risposta chemioterapica presentata di fronte a qualsiasi problematica di sofferenza, dalla crisi delirante al normale lutto, tampona ogni possibilità sviluppatasi a partire da quel lavoro autoterapeutico che può presentarsi come delirio o come compensazione nella psicosi ordinaria. Al di là di tutti gli aspetti fenomenici che si possono comunque esplorare nelle psicosi ordinarie, è interessante vedere allora come questa modalità di funzionamento metta piuttosto al lavoro la clinica borromea, una clinica più difficile da esemplificare, ma che senz’altro apre un campo di esplorazione su un terreno che dovremmo battere ancora per molti anni.
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