di Marco Focchi Seminario tenuto a Londra, il 9 marzo 2013, per la London society of the New Lacanian School, presso la University of London Student Union Il titolo che ho proposto per la giornata va sotto il tema generale della rassegna d’incontri su: “La psicosi oggi”. Il nostro punto di partenza è considerare innanzi tutto la psicosi come una struttura di discorso, per quanto deragliante, e non un difetto biologico, come vorrebbe quella parte della ricerca contemporanea orientata dall’ideologia scientista. Se prendiamo la prospettiva strutturale, possiamo fare lo stesso ragionamento che facciamo quando descriviamo i sintomi contemporanei: ci sono alcune costanti e ci sono aspetti variabili. Possiamo parlare, in un certo senso, di una storia dei sintomi, dei loro mutamenti, perché l’aspetto in cui si presentano è in parte determinato dall’Altro sociale, che plasma, che modella con le sue richieste, con le credenze che impone, che ratifica una particolare forma dei sintomi, corrispondente a quel che Lacan chiama involucro formale del sintomo. Cè poi una parte costante, che consiste nel desiderio e nel godimento che vi sono implicati. In atri termini: un sintomo è sempre un segno di godimento, ma le forme che questo segno assume sono molto mutevoli Non troviamo più, per esempio, le forme classiche dell’isteria, e abbiamo invece l’esplosione delle anoressie, delle bulimie, abbiamo il deficit di attenzione, gli attacchi di panico, e tutta quella rutilante varietà di manifestazioni a cui il DSM, la bibbia diagnostica contemporanea, pone il proprio marchio di fabbrica, creando sintomi a volte improbabili, come la sindrome di stanchezza cronica, in cui la gente poi s’identifica dando una convalida retroattiva. È un po’ come per la letteratura: non si può davvero dire che la letteratura copi la vita. Piuttosto è il grande scrittore a creare personaggi in cui poi il pubblico si riconosce, come accadde in modo tragicamente evidente con il giovane Werther.
La psicosi, nelle sue manifestazioni, è soggetta a mutamenti di forma dovuti al momento storico e alla geografia in modo analogo a quello che conosciamo per i sintomi nevrotici? Sicuramente sì, anche qui ci sono costanti e variabili. Prendiamo un fenomeno macroscopico come quello dei massacri indiscriminati. Abbiamo testimonianze, nell’Alto Medioevo, del fenomeno dei berserk, guerrieri di forza straordinaria che presi da raptus improvvisi potevano compiere una vera e propria strage. L’incredibile energia che questi guerrieri riuscivano a manifestare era considerata di origine divina. Quando però le popolazioni scandinave furono convertite al cristianesimo, i berserk praticamente scomparvero. Al Dio d’amore dei cristiani non poteva infatti essere attribuita la donazione di una forza omicida. È quindi interessante vedere come l’instaurarsi di un diverso sistema di credenze, nel passaggio dal paganesimo al cristianesimo, produca la sparizione di un impulso che era precedentemente considerato irrefrenabile. Domandiamoci ora: quel che si verifica è la sparizione dell’impulso o qualcosa di diverso? Nella Norvegia di oggi vediamo infatti ricomparire lo stesso impulso che animava i berserk, e animarsi per mano di Anders Breivik, nella strage di Oslo e di Utoya. Il sistema ideologico in cui s’inserisce questo passaggio all’atto psicotico è però completamente diverso, è di marca prettamente contemporanea, ed è alimentato da tutte le correnti razziste e xenofobe che traversano l’Europa attuale. Negli Stati Uniti abbiamo assistito negli ultimi tempi a fenomeni simili, soprattutto stragi nelle scuole, con una frequenza impressionante e il riferimento paradigmatico per questo tipo di esplosioni di cieca violenza omicida generalizzata è il massacro che ha avuto luogo nel 1999 alla Columbine High School, che ha dato lo spunto al film documentario di Michael Moore. In Italia, per esempio, i massacri indiscriminati avvengono per lo più tra le mura domestiche, e rimangono all’interno della famiglia, raramente sono fenomeni pubblici. Conosciamo di solito questi casi come riferiti dalla cronaca, non ne abbiamo conoscenza diretta, ed è difficile avere elementi che ne permettano uno studio approfondito. Non è infatti di solito il tipo di pazienti che bussa allo studio dell’analista per chiederne l’aiuto. C’è però un caso di questi tipo che è stato studiato in dettaglio da uno psichiatra moderno, che è Robert Gaupp. Si tratta il caso del maestro elementare Ernst Wagner, che nel 1913 uccide la moglie, i quattro figli un numero notevole di altre persone. È un caso particolarmente interessante perché, seguendo anche il notevole studio che gli ha dedicato il nostro collega di Valladolid, José Maria Alvarez, ci permette di capire con una certa chiarezza le articolazioni tra delirio e passaggio all’atto criminale. La preparazione dell’assassinio della famiglia da parte di Ernst Wagner fu meticolosa e calcolata. Dopo lo sterminio dei famigliari, armandosi delle armi da fuoco e delle munizioni necessarie per portare a compimento il secondo atto del suo piano criminale, Wagner si dirige al villaggio di Mulhaussen, brucia i granai e spara sulle persone che si man mano si svegliano spaventate e accorrono per spegnere le fiamme. La sequenza avrebbe dovuto trovare compimento con il proprio suicidio, ma Wagner, malmenato da alcuni abitanti del villaggio che reagirono, perse i sensi e fu considerato morto, finché arrivò la polizia che lo prese in consegna. Le ragioni del duplice crimine conseguono in modo rigoroso dalla logica paranoica: è importante infatti vedere le diverse motivazioni del duplice gesto: la famiglia è stata uccisa per pietà e per compassione, gli abitanti di Mulhaussen sono stati massacrati per vendetta. È interessante infatti vedere che, negli anni seguenti, Wagner poté pentirsi di aver ucciso gli abitanti di Mulhaussen, ma non ebbe mai rimpianti per l’assassinio dei figli, che considerò sempre necessario. Da dove derivava questa necessità dell’atto omicida? Robert Gaupp fa risalire l’esordio della psicosi a una decina di anni prima della strage, quando Wagner formula chiaramente il nucleo della sua certezza psicotica “Ich bin Sodomit”, sono uno zoofilo. Wagner in adolescenza si dedica a pratiche masturbatorie per le quali si sente fortemente in colpa. Si sente notato, osservato per questa sua modalità di godimento. Consulta invano un neurologo e, quando viene trasferito a Mulhaussen, inaugura quelle che definisce come le sue pratiche delittuose, inizia cioè ad avere rapporti sessuali con animali. Comincia allora ad avere l’impressione che la gente lo osservi, che sia al corrente di quel che fa, sente che gli si rivolgono parole insultanti, si accorge che sempre più spesso ci si riferisce allusivamente ai piaceri perversi che trova nel bestialismo. La diffamazione comincia il giorno seguente a quello in cui sprofonda nelle sue pratiche delittuose, e si fa tormentosa, martellante. Questa situazione insopportabile cessò in effetti dopo il suo passaggio all’atto, e poiché chi formulava le allusioni erano essenzialmente i maschi, si dispiaceva che nelle sparatorie ci fossero state vittime femminili. È chiaro quindi il meccanismo che si mette in funzione: c’è la rivelazione di un godimento sconosciuto e devastante – come nell’Uomo dei topi – ma invece di costituirsi come enigma e d’inglobarsi in una costruzione simbolica sintomatica, si produce come una certezza e si formula in un assioma, che è: “Sono uno zoofilo”. L’assioma definisce l’essere del soggetto, i rimproveri sono invece la voce dell’Altro. Ora è interessante osservare come qui tutto avvenga a parti rovesciate rispetto alla nevrosi. Nell’Uomo dei topi, per esempio, il godimento è collocato nell’Altro, è il godimento del Capitano crudele, e la voce che lo rimprovera viene invece da dentro di sé, è la voce della coscienza e prende forma rituale nella storia del pince-nez. Cosa succede di diverso nell’Uomo dei topi, che si trova nella stessa situazione di Ernst Wagner, messo di fronte a un godimento sconosciuto? Perché non diventa psicotico anche lui? Sappiamo la risposta classica: perché nella struttura dell’Altro c’è per lui un elemento, o una funzione, che può farsi carico di questo godimento, ed è all’occasione il Capitano crudele. Abbiamo con il Capitano crudele una variante del Nome del Padre, perché rivela sì questo godimento all’Uomo dei topi, ma come qualcosa che gli è sottratto, che spetta a lui, al Capitano, che si guadagna così l’appellativo di crudele. Nella nevrosi il senso di colpa è l’ombra significante di questo godimento, ma il proprio essere di godimento è detenuto dall’Altro. Il nevrotico lo cerca nell’Altro, ed è questo l’oggetto di desiderio che gli è sottratto, che insegue per tutta la vita. Per questo motivo ha bisogno di un partner da amare, da rincorrere o da dominare, o da cui farsi dominare, o che sia complice di giochi perversi. Il nevrotico ha bisogno insomma di qualcuno intorno a lui che incarni l’oggetto che costantemente gli sfugge. Ernst Wagner è invece completamente e direttamente investito dall’indecenza di essere uno zoofilo. Se seguiamo al linea di riflessione suggerita da José Maria Alvarez nello studio del caso Wagner, un punto fondamentale è che dobbiamo distinguere la precipitazione della certezza che si formula nell’assioma, e lo sviluppo del lavoro delirante vero e proprio. Dall’assioma: “Sono uno zoofilo” derivano, nello sviluppo del delirio, sia l’idea che: “Tutti i Wagner sono una stirpe degenerata” – e quindi il passaggio all’atto dettato dalla necessità di eliminarli come unico rimedio – sia il delirio di autoriferimento, con le allusioni e con tutto il mormorare che si fa intorno a lui a Mulhaussen. Il vero delirio però, seguendo questa chiave di lettura, si costituì solo anni dopo, quando Wagner ritenne di essere stato plagiato dallo scrittore ebreo tedesco Franz Werfel, e si diede il compito di trasformarsi nello scrittore che avrebbe purificato la lingua tedesca dalle nefaste influenze ebraiche. Seguendo questa logica dobbiamo considerare che l’atto criminale ha luogo perché la certezza psicotica non riesce a incanalarsi nella via del delirio. Ne consegue che non c’è nessuna affinità, né un legame particolare tra il delirio e il crimine. È piuttosto il contrario: il delirio permette un’elaborazione significante del nucleo assiomatico di certezza, e quando questa possibilità manca, la certezza si traduce direttamente in atto. Il caso Wagner, quello di Breivik, i massacri indiscriminati a cui assistiamo nelle scuole americane sono quelli che – riferendoci alla definizione proposta da Miller di psicosi ordinaria – chiameremmo casi di psicosi straordinaria. Ho voluto partire da questi casi perché sono assolutamente attuali, e la psicosi oggi presenta ancora le manifestazioni esorbitanti che ha avuto, in diversi momenti, con i berserk, con Wagner, con Breivik. Il carattere di contemporaneità delle manifestazioni attuali si può riconoscere, per esempio per Breivik, nell’ideologia nazistoide in cui si formula il tratto razzista del delirio. Ci sono, per altro verso, i casi di cui in particolare ci danno testimonianza i nostri colleghi che lavorano nei servizi pubblici. Sono casi che abitualmente non presentano fenomeni eclatanti, mostrano semplicemente vite sganciate, un po’ alla deriva, senza punti di riferimento precisi, sono i tipici casi di psicosi ordinaria. Sono i pazienti in cui riconosciamo un problema di disinserimento. Il soggetto ha perso quel che lo ancora al simbolico socialmente, gira fuori discorso, senza punti di presa, dando l’impressione a volte di un astronauta che galleggia senza gravità. Non ci sono grandi deliri, ci sono piuttosto parole isolate, che entrano in assonanza con altre parole, senza veramente costituire catene in grado di produrre un senso, un senso folle evidentemente, da sostituire al significato fallico che non si è prodotto per via del fallimento della metafora paterna. A volte raccontano sogni sfilacciati. Raramente ci sono elementi biografici, difficile ricostruire una storia infantile. È una fenomenologia che Gaëtan de Clerambault aveva riconosciuto e studiato nell’automatismo mentale. Lacan lo riprende definendolo in alcuni passaggi come parole imposte, studiando l’affiorare di fenomeni elementari che non seguono una logica di progressione d’idee o di sviluppo biografico. Non c’è in questi casi un delirio formato come costruzione esplicativa mirata alla comprensione dell’insondabile certezza di significato personale. L’irruzione dell’automatismo produce nel soggetto un effetto xenopatico e d’incomprensione, che lascia il soggetto nella più grande perplessità, tanto da far barcollare tutti i punti di riferimento che sostengono la sua realtà. Ci sono casi allora dove, per esempio, un significante qualunque o anche molti significanti si raccolgono nel pensiero del soggetto, in modo slegato, e non rispondono alla sua volontà o alla sua intenzione cosciente. Dal punto di vista fenomenico conosciamo manifestazioni analoghe anche nella nevrosi ossessiva, dove spesso il sintomo si esprime come ingombro del pensiero, come pensieri che s’impongono al soggetto in modo incoercibile e penoso. La differenza è però che l’ossessivo rifiuta questi pensieri come non veri. Gli s’impongono per esempio pensieri insultanti nei confronti di una persona amata, e non li può accettare. Sono pensieri che rispondono naturalmente alla sua ambivalenza, quella che Lacan chiama hainamoration, ma il soggetto può rifiutarli come non veri, e per farlo li fa passare attraverso il circuito delle verità. Nelle psicosi questi pensieri semplicemente s’impongono nella loro immediata concretezza di pensieri. Sono caratterizzati da una certezza che non richiede nessun circuito di verifica, perché il soggetto psicotico non dispone di un simile circuito di verifica. Il problema dello psicotico è con la verità, e Lacan lo dice esplicitamente riferendosi alle lettere di Freud a Fliess, quando afferma che la posizione dello psicotico si definisce attraverso l’Unglauben, il non credere, il fatto di non volerne sapere di “quell’angolo in cui si tratta della verità” (Sem. XVII p.71). Il tema della credenza è stato affrontato da Eric Laurent nel testo che fa di riferimento a queste serie d’incontri, e definito come radicale credenza nel sintomo. Il tema della credenza è centrale non solo nella clinica delle psicosi, ma nel modo stesso in cui si struttura la nostra società, perché è in base a questa credenza che la nevrosi e la psicosi prendono forma, variano il loro modo di esprimersi. Ora Lacan parla di Ungluaben riferendosi a Freud, Laurent parla di Glauben, la credenza, e non solo, parla di credenza radicale. Cosa significa credenza radicale? È vero che la credenza ha diversi gradi, può essere più o meno intensa, chi crede fermamente in una causa può affrontare il martirio, il suicidio, come sappiamo fin troppo bene, e nelle psicosi straordinarie, quelle che finiscono nei massacri indiscriminati, il soggetto stesso finisce nel gorgo di morte che ha provocato, è inghiottito dall’onda di violenza che lui stesso ha scatenato e, quando sopravvive, è perché l’arma si è inceppata, o qualcosa non ha funzionato. Vediamo in questo concretarsi il tema della morte del soggetto, di cui Lacan ha parlato, della fragilità del sentimento della vita quando rimane vuoto il significato fallico. Il gradiente della credenza ha il proprio limite, o il proprio punto di singolarità, nella certezza, e penso che la credenza radicale, proprio in quanto radicale, trovi espressione nelle psicosi nella certezza assiomatica che fa di sfondo al delirio o al passaggio all’atto. La credenza, quando si radicalizza, mette fuori circuito la verità, diventa certezza, diventa agito. Perché Lacan dice che lo psicotico non crede alla verità? Bisogna considerare la concezione che Lacan si fa delle verità, che è ben rappresentata dal mito di Atteone. La verità che Atteone vede, e che non avrebbe dovuto vedere, è quella che gli mostra la nudità della dea sorpresa mentre si rinfresca a una fonte, è la verità di una mancanza che la femminilità espone indifesa al suo sguardo violatore. La verità, per Lacan, è la castrazione dell’Altro, è ciò che segna la madre dopo l’intervento paterno, che separando il bambino dalla madre, la restituisce alla sua femminilità. La metafora paterna è infatti l’operazione attraverso la quale il Nome del Padre dà alla verità della mancanza il significato fallico. Ora, sappiamo, nella psicosi il problema è proprio che questa metafora non ha luogo. Il soggetto è aspirato, esposto al godimento incontrollato della madre. È necessario considerare questo sfondo edipico per capire da dove viene l’idea di Lacan che lo psicotico non crede nella verità. Non ci crede perché non c’è nella sua struttura una casella, un posto per la verità. Dobbiamo però notare che il passo dove Freud si riferisce all’Unglauben è ripreso da Lacan nel seminario XVII, cioè nel seminario in cui Lacan si spinge al di là dell’Edipo, in cui mette in questione e ridiscute radicalmente la figura del padre, con un luogo excursus attraverso Mosé e il monoteismo. Non è più il padre edipico infatti il riferimento quando Lacan parla della difficoltà che lo psicotico ha con la verità, ma Wittgenstein, cioè un pensatore che porta il contrassegno della modernità, un pensatore che crede ai fatti e non alla verità. Wittgenstein viene dopo la crisi dei fondamenti che ha attraversato il pensiero logico e matematico contemporaneo, viene dopo Frege e Russell, e apre in direzioni che vanno già verso il pensiero ipermoderno. Qual è la grande differenza che caratterizza la fase ipermoderna rispetto a quella che la precede? In un mio libro avevo parlato della disunificazione della vita contemporanea, del suo carattere disperso, della moltiplicazione delle tendenze che dà spazio in modo crescente all’individualità, al gusto personale, e al tempo stesso perde il riferimento a valori centrali. Direi che la disunificazione e il regime del molteplice sono i caratteri del nostro tempo: una molteplicità di lavori, una molteplicità di partner, una molteplicità di possibilità di vita. La perdita del riferimento all’Uno unificatore si accompagna alla perdita di certezze. Fino a due secoli fa tre erano le certezze di una persona nata in Europa: dove avrebbe vissuto, cioè più o meno dov’era nato, che lavoro avrebbe fatto, cioè più o meno il lavoro che facevano i suoi genitori, dove sarebbe andato dopo la morte. L’epoca della globalizzazione nella quale viviamo, che ha sviluppato un’intensificazione mai vista fino ad oggi delle possibilità di comunicazione, non porta a una maggiore connessione, a un rafforzamento dell’unità, ma a una crescita dei nazionalismi e dei particolarismi. La letteratura imperiale che ha dominato fino al secolo XIX ha propriamente passato la mano all’imperialismo e all’attuale narrativa dell’Impero, che governa senza unificare, che decentra la propria sovranità. Questi aspetti non riguardano solo la prassi della vita sociale e del governo, ma investono il sistema di pensiero in cui la vita e il rapporto con il mondo sono inseriti. I pensatori dell’epoca moderna consideravano che il soggetto fosse un punto di vista e che ogni soggetto avesse una prospettiva sul mondo particolare. È famoso l’esempio di Leibniz: la città che può essere vista da molti angoli ma è sempre la stessa città. Come potevano i soggetti, ognuno dei quali era un particolare rispecchiamento del mondo nel suo insieme, coordinare la loro visione e la loro azione in una prospettiva comune? Il concetto per risolvere questo problema era quello di armonia prestabilita. Da dove veniva però l’armonia prestabilita? La risposta di Leibniz è che l’armonia prestabilita era garantita da Dio. L’unità presuppone un unificatore, e questo è il Nome del Padre, che si fa garante della consistenza dell’Altro. Questo assetto corrisponde, su un altro piano, alla funzione edipica del Nome del Padre, che svolge la propria operazione dando la norma del desiderio. Sappiamo però che il padre contemporaneo non è più quello della norma edipica, non è più quello che rappresenta la famiglia per il sociale. Ognuno dei membri della famiglia ha un suo diretto inserimento nel sociale. Le donne lavorano, è crollata la mistica della femminilità di cui ha parlato Betty Friedan negli anni Sessanta. I bambini hanno diritti tutelati da istanze sociali esterne alla famiglia. Il padre non è più il rappresentante della rinuncia, della Triebversagung, l’agente della castrazione e della verità come mancanza. Il padre contemporaneo indica la via di un desiderio specifico, non sottoposto al regime della verità. Il padre contemporaneo non è più il garante dell’armonia prestabilita, cioè di una consistenza dell’Altro, e l’assenza di armonia prestabilita libera un reale non sottoposto al regime delle verità, che non sta nelle possibilità dicotomiche vero/falso. Nel suo seminario del 1986-87, Ce qui fait insigne Miller attribuiva alla preclusione generalizzata il fatto che ci fosse un reale che per tutti, non solo per lo psicotico, non è riassorbito dal simbolico. Ha poi declinato questo tema, negli ultimi anni, nei termini dell’ultimissimo insegnamento di Lacan, appoggiandosi al motto di Lacan Tout le monde est fou, tutti sono pazzi, perché, preso dall’angolo strutturale, la follia non è solo problema di alcuni. Il reale non sottoposto al regime della verità è quello che richiede l’invenzione, nel senso in cui Miller ha parlato di invenzione psicotica, una costruzione che viene dove le cose non sono istituzionalmente predefinite. Potrebbe sembrare che la perdita dell’armonia prestabilita ci lasciasse un po’ orfani in un mondo in cui siamo disorientati, spiazzati, ma il risvolto è che apre lo spazio del nuovo, dell’invenzione. Credo che il grande rafforzamento dei protocolli in tutti i campi, della politica alla medicina, sia la risposta gestionale, amministrativa, burocratica al depotenziamento del Nome del Padre tradizionale. Dove non viene meno un riferimento all’autorità, si rafforza un riferimento alle procedure. Nella psicoanalisi, su questo problema abbiamo un’altra risposta, quello di una costruzione singolare, che chiama in causa l’implicazione del soggetto, perché l’invenzione si accompagna alla responsabilità soggettiva. Nel mondo contemporaneo vediamo una grande difficoltà nel trattare quel che Lacan ha chiamato il vuoto enigmatico di significato lasciato dall’evaporazione del Nome del Padre. Nella tradizione il Nome del Padre dà al vuoto il significato fallico, la castrazione che nella tradizione teologica assume il senso del sacrificio: qualcosa, la cosa più preziosa, va sacrificato alla divinità. Il prototipo è il sacrificio di Isacco, che Lacan commenta a più riprese. Dio garantisce un’armonia prestabilita, garantisce che il mondo stia insieme e chiede in cambio un sacrificio. L’effetto della sparizione dell’armonia prestabilita si vede oggi con chiarezza: il mondo va a pezzi. È quello che Miller ha chiamato pièces détachées, pezzi che non hanno riferimento in un tutto. Ci sono diversi modi di trattare i pezzi staccati. Si possono lasciar andare in una deriva schizofrenica, o si possono riprendere nell’invenzione, ma perché possa esserci invenzione occorre far spazio al vuoto, al non-senso. Questo appare oggi sempre più difficile, soprattutto quando vediamo il modo in cui viene riempito il tempo dei bambini: scuola la mattina, palestra di pomeriggio, lezioni di musica, lezioni di lingua, tutta la giornata è riempita senza soluzioni di continuità, il bambino è tenuto sempre in movimento. Oppure lo vediamo nel funzionamento della macchina burocratica, dove il vuoto è solo un inciampo. O lo vediamo ancora nella frenesia delirante dei mercati, dove i tempi morti rappresentano solo perdite di denaro. Questa totalizzazione del pieno ha un risvolto autodistruttivo, perché annulla nell’agitazione continua le possibilità del desiderio, assorbe l’uomo in una produttività senza limiti, dove il fine della produzione non è la fruizione, ma la continuazione della produzione. La sparizione dell’armonia prestabilita ha lasciato il posto a una schizofrenia di mondi non comunicanti, e di questo Wittgenstein è stato ed è l’interprete più accreditato. Possiamo dire che la psicosi di Wittgenstein, chiaramente riconosciuta da Lacan nel seminario XVII, è diventata la psicosi del mondo contemporaneo e, in un certo senso, vediamo che contribuisce anche a dar forma alla psicosi in senso clinico incontrato oggi. Certamente tout le monde est fou non è un enunciato clinico. Miller lo ha esplicitamente chiarito. Diciamo che da un lato c’è un modo schizofrenico di funzionamento del mondo in cui viviamo, e la filosofia di Wittgenstein ce ne dà un modello o, potremmo persino dire, lo modella. Dall’altro lato sicuramente Wittgenstein è un caso di psicosi in senso clinico e la sua filosofia, o la sua incessante fuga dalla filosofia, ne dà perfettamente conto. Quando leggiamo la biografia di Wittgenstein scopriamo un uomo costantemente sul bilico del suicidio, di carattere nervoso, scontroso, isolato e in cerca di sempre maggior isolamento. La sua carriera comincia con le sue fughe in Norvegia, e prosegue con le sue fughe man mano da tutto, dal suo mondo, dalla vita. Quando scoppia la guerra si arruola volontario per il fronte perché sente il bisogno di trovarsi faccia a faccia con la morte. Era spinto a farsi carico di qualcosa di difficile, che lo sottraesse al mero lavoro intellettuale, per trasformarsi in una persona diversa. Aveva infatti come la sensazione di essere in continuo fermento e aveva come la speranza che le cose scoppiassero una volta per tutte. Tornato dalla guerre è effettivamente una persona diversa. Non è più l’elegante giovane di famiglia borghese, una delle più ricche famiglie nella Vienna dell’epoca. Fugge dall’ambiente dell’élite intellettuale conosciuto a Cambridge, volta le spalle alla carriere accademica per andare a fare l’insegnante in uno sperduto paesino di montagna. Ma soprattutto – e questo mi sembra altamente significativo – manifasta la volontà di tagliare i ponti con tutto, e in particolare con i privilegi del suo nome. Per farlo cerca una via giuridica: di fronte a un notaio si disfa completamente del suo patrimonio, insistendo per avere garanzia di non poter tornare indietro, tanto che il notaio definisce il suo atto come un “suicidio finanziario”. In questo atto riconosciamo un passaggio di soglia significativo per la psicosi, di cui abbiamo altri esempi storici. Penso a S. Francesco, che dopo aver cominciato a sentire una voce che lo ammonisce di restaurare la sua chiesa, che stava cadendo a pezzi, si spoglia pubblicamente di tutti i beni e ripudia il padre dicendo: “Ho fino ad oggi chiamato te padre, da ora in poi chiamerò padre solo quello che sta nell’alto dei cieli”. Nell’atto di spogliarsi dei beni è fortemente impresso il rifiuto simbolico del Nome del Padre, dell’appartenenza alla linea famigliare. Già prima della guerra, quando gli veniva chiesto chiedeva se il suo nome fosse quello di “quei” Wittgenstein, rispondeva con imbarazzo, in modo allusivo o negando. Già allora era deciso a uscire dalla linea di discendenza, e dunque dall’eredità. Su questo problema c’è un punto che per Wittgenstein rimane vuoto, e intorno al quale gira per tutta la vita, cercando di gestirlo come può, tentando di arginare gli interrogativi, gli enigmi che da lì scaturiscono. Possiamo dire che nel rapporto che ha con filosofia c’è qualcosa di analogo al rapporto che Joyce ha con la letteratura. La scrittura per Joyce è una supplenza, è una scrittura che deve porre fine alla letteratura, che deve dire l’ultima parola sulla letteratura. Ed è una scrittura che non lascia posto agli enigmi, o meglio, possiamo dire che è piena di enigmi, ma non di enigmi per Joyce, di enigmi per i lettori. Sono enigmi saturi, sono piuttosto indovinelli, trappole per accademici, qualcosa dato loro in pasto per tenerli occupati. Anche per Wittgenstein la filosofia è una terapia, lo dice letteralmente, ma non è una terapia per sé, lo è per la filosofia stessa: la sua scrittura deve essere un modo di sbarazzarsi di tutto quello che la filosofia formula in modo enigmatico perché oscuro. Tutto quel che diciamo, per avere un senso, secondo Wittgenstein, dev’essere verificabile, riconducibile a degli stati di fatto. Chiarire le regole, la grammatica del linguaggio serve ad arrestare il loro uso scorretto, cioè insensato. Le interrogazioni, una volta chiarite le regole, devono fermarsi a una soglia che Wittgenstein chiama del mistico. Da una parte le regole sono dunque un punto d’arresto che ferma il pensiero, o il linguaggio, prima che questo giunga a interrogare un vuoto pericoloso. D’altra parte l’obiettivo è fare una totale chiarezza che eviti l’uso delle parole in modo indebito. C’è un’estrema sensibilità al peso delle parole in Wittgenstein! E quando parla di chiarezza quel che ha di mira è una completa chiarezza. Questo significa semplicemente che i problemi filosofici, come enigmi del pensiero, devono completamente sparite “La vera scoperta è quella che mi rende capace di smettere di fare filosofia quando voglio smettere. È quella che dà pace alla filosofia, che non è più così tormentata da questioni che la mettono in questione. Noi dimostriamo invece un metodo, con degli esempi, e le serie di esempi possono essere interrotte. I problemi in quanto tali sono risolti (le difficoltà eliminate) non solo un problema”. (p.365) Questa necessità di totale chiarificazione lo fece molto apprezzare dal Circolo di Vienna, che voleva per l’appunto eliminare ogni questione metafisica dall’ambito della conoscenza. Con Wittgenstein vediamo però che quel che è messo qui sotto l’etichetta di metafisica è qualcosa di molto più concreto, di molto più stringente, di molto più inerente all’esistenza soggettiva e di molto più segnato dalla sofferenza. Il non senso da eliminare è in fondo quell’opacità attraverso cui Lacan connota nei suoi ultimi scritti il godimento. Vediamo, in questa volontà di venire a capo degli equivoci del linguaggio, la volontà, ma diciamo meglio, la necessità vitale di venire a capo del godimento. Questa volontà di chiarezza in ultima istanza è del tutto consonante con le parole che Schreber coglie dalle sua divinità Ahriman e Ormuzd: “Aller Unsinn hebt sich auf”, ogni non senso è abolito, espressione che Lacan commenta nel suo scritto Su un problema preliminare a ogni trattamento della psicosi, dicendo che si tratta in questo di ascoltare un messaggio che non proviene da un soggetto al di là del linguaggio, ma da una parola al di là del soggetto. Questo vuol dire semplicemente che si tratta, nell’esperienza psicoanalitica di rivolgersi a un soggetto che si produce nell’atto di parola stesso, e non a quello che si maschera dietro a un io e che si crede padrone della parola che enuncia. Detto in modo ancora diverso, si tratta di rivolgersi a un soggetto desiderante, a un soggetto che include la mancanza come forma del desiderio. Ma è proprio questa mancanza che Wittgenstein a suo modo, e Joyce in modo diverso, debbano scongiurare. È la mancanza in un passaggio molto noto degli Ecrits che è stato anche oggetto di un corso della Sezione Clinica. Il passaggio è: “Notiamo d’altra parte che ci troviamo qui in presenza di fenomeni che, a torto, sono stati chiamati intuitivi, perché l’effetto di significazione anticipa sullo sviluppo della significazione stessa. Si tratta di fatto di un effetto del significante, dove il suo grado di certezza (secondo grado: significazione di significazione) assume un peso proporzionale al vuoto enigmatico che si presenta al posto della significazione stessa”. Lacan qui parla di fenomeni che – dice – vengono erroneamente chiamati intuitivi. Perché erroneamente? Perché l’intuizione implica un rapporto diretto con l’oggetto, implica la sua presenza senza mediazioni, e in questa fase Lacan spiega il fenomeno attraverso meccanismi significanti, cioè all’anticipazione dell’effetto di significazione rispetto alla concatenazione significante da cui normalmente la significazione deriva. Se consideriamo però, prendendo i termini dell’ultimo insegnamento di Lacan, che il vuoto enigmatico di significazione è un aspetto dell’opacità con cui si presenta il godimento, e che si presenta lì senza mediazioni, il termine di intuizione non è allora mal situato. Ed è ben situato anche il termine di “mistico” che Wittgenstein pone come limite del dicibile. Occorre notare che è proprio quando i limiti tra il dicibile e il mistico non sono ancora saldamente tracciati dalla sua filosofia, è quando sente vacillare la propria esistenza sotto la mareggiata del mistico, o di qualche altra forma del godimento senza nome, che si arruola per andare volontario in guerra: fronteggiare la morte gli sembra in quel momento una condizione preferibile a quella di soccombere all’indicibile. Anche prendiamo la via di dire che tout le monde est fou, dobbiamo comunque distinguere sul piano clinico le modalità diverse in cui il vuoto enigmatico si presenta nella nevrosi e nella psicosi, ordinaria o straordinaria che sia. Nella nevrosi il padre, comunque vadano le cose, dà un significato fallico al vuoto, per cui il godimento non si presenta mai come immediato, ma solo segnato dalla castrazione. Anche se il padre non è più il legislatore dell’Edipo, posizione che, spinta all’estremo – secondo Lacan – dà come risultato un bambino come Schreber, si tratta comunque per lui di fare qual che deve fare, e quel che deve è epater la famille, cioè stupire, spiazzare, colpire. Cosa significa in questo straordinario passaggio Lacan? Che il padre deve rompere la catena lineare, le deduzioni logiche, sostenere un atto che non deriva dal calcolabile, inventare qualcosa. Non è più il depositario di una legge trascendente, ma deve riuscire – nell’immanenza – a circoscrivere il godimento, a rendere possibile di giocare con il godimento da una posizione in cui non se ne è travolti. È vero che questo padre dell’invenzione si avvicina molto a quello che Miller ha chiamato l’invenzione psicotica, l’invenzione che surroga il Nome del Padre, ma vicinanza non vuol dire tuttavia identità.
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