![]() Conferenza tenuta il 21 ottobre 2023 a Madrid presso la Escuela lacaniana de psicoanalisis Marco Focchi La prima cosa da dire, nel momento in cui s’inizia lo studio del Seminario III, è che questo seminario non dà la teoria di Lacan sulla psicosi. Il Seminario III è un grande laboratorio dove Lacan cerca, e man mano trova, i pezzi che gli serviranno per costruire la teoria della psicosi. Lungo tutto il Seminario però questi pezzi restano sparsi, manca il montaggio, e perché il montaggio diventi possibile occorre un elemento fondamentale di cui Lacan potrà disporre solo due anni dopo, nel Seminario V, che è la metafora paterna. La Questione preliminare infatti, che è il testo in cui troviamo l’effettiva teoria di Lacan sulla psicosi, è scritto contemporaneamente alle lezioni in cui Lacan sta elaborando il tema della metafora paterna. Nel Seminario III ci muoviamo dunque in una foresta vergine, usando il machete per avanzare: dobbiamo disboscare per vedere il panorama e per poter costruire. Preclusione e rimozione
Sin dalle prime lezioni Lacan cerca innanzi tutto qualcosa che differenzi strutturalmente la nevrosi dalla psicosi, e notiamo che si sta guardando in giro, non sa ancora bene come muoversi. Prende allora come riferimento il testo di Freud su La perdita di realtà nelle nevrosi e nelle psicosi, del 1924. Prima ancora però prende il testo sull’Uomo dei Lupi, da dove estrae il termine Verwerfung, cercando di metterlo in contrasto con la Verdrängung, ovvero con la rimozione. Nella rimozione ciò che viene rimosso ritorna. Rimozione e ritorno del rimosso – dice Lacan – sono il diritto e il rovescio della medesima cosa. Il rimosso, per esempio, per quanto non integrato nell’io, resta per sempre presente e articolato nei sintomi. Appartiene quindi sempre al registro del simbolico. Nella Verwerfung manca invece l’inscrizione primaria nel simbolico. Entra in gioco allora tutta la differenza che possiamo considerare rispetto alla Verneinung, la negazione, di cui ha discusso l’anno precedente con Jean Hyppolite. Perché si possa negare qualcosa occorre che sia stato primariamente affermato, occorre ci sia una Bejahung, un dire di sì iniziale, un dire di sì che corrisponde a un’inscrizione nel simbolico. Se qualcosa è pienamente inscritto nel simbolico posso negarlo, posso rimuoverlo, posso finanche sconfessarlo, ma non posso eliminarlo dalla struttura, e in qualche modo questo trova una sua via d’espressione, anche se diversificata, spostata, delocalizzata. Con la Verwerfung le cose cambiano, e qui l’interpretazione di Lacan si fonda sul passo dove, a proposito dell’allucinazione del dito tagliato dell’Uomo dei Lupi, Freud dice che non aveva voluto saperne niente, nemmeno nel senso del rimosso. Si tratta quindi in questo caso di un rifiuto radicale, preliminare alla Bejahung, si tratta dunque del rifiuto di qualcosa che non trova posto nel simbolico, e che proprio per questo ritorna non nel simbolico ma nel reale. Naturalmente prendiamo qui con le pinze il termine “reale”, perché in questi anni per Lacan vuol dire semplicemente realtà. Questo tuttavia non cambia i dati del problema. Lacan ha bisogno di un meccanismo diverso da quello che produce nella nevrosi, e la Verwerfung freudiana cade a puntino offrendogli il punto di partenza per costruire un concetto diverso dalla Verdrängung, dalla rimozione. Lacan deve solo raccoglierlo e farlo suo nel senso che gli interessa. Quando infatti considera le prima mossa di Freud nell’interpretazione del caso Schreber, gli sembra geniale il fatto. Che riconosca delle ragazze dietro l’immagine degli uccelli miracolati, ma ritiene sia un’applicazione del metodo analitico che non aggiunge nulla relativamente a quel che rimane comunque una lettura sul piano simbolico. Riconoscere le ragazze dietro gli uccelli miracolati non è diverso dal rivelare la storia del cagnolino dietro l’idrofobia di Anna O. Lacan ha bisogno invece di qualcosa che permetta di diversificare il campo delle nevrosi da quello delle psicosi, e lo mette in gioco sin dalla prima lezione con il meccanismo della Verwerfung. Abbiamo detto che con la Verwerfung si verifica il rigetto di un elemento fondamentale: ma quale? Lacan fino a questo punto non lo sa ancora, e si muove zigzagando alla ricerca per tutto il Seminario. Lo trova solo alla fine, nelle ultime lezioni, quando apre il bellissimo scorcio del discorso sulla strada maestra. E la strada maestra è il Nome del Padre. Ora sì lo ha trovato! La strada maestra ha dei nodi, come le città, in cui si aggregano i significati. Quando la strada maestra non c’è, quando è Verworfen, preclusa, bisogna percorrere le stradine secondarie, come fa Schreber. Alla fine del seminario disponiamo dunque dei due elementi fondamentali per la teoria della psicosi, la Verwerfung e il Nome del Padre, ma per metterli insieme ci vorranno ancora due anni. Gli psicoanalisti e la psicosi Il punto di partenza che Lacan vuole quindi tenere saldo è l’idea: il campo della nevrosi e quello della psicosi vanno studiati con meccanismi distinti. Che cosa ha a disposizione per entrare in questa differenziazione? Cosa dice la letteratura psicoanalitica su questo? Bisogna considerare che se Freud aveva respinto l’idea di un trattamento della psicosi – e Lacan lo nota nelle primissime righe del seminario – gli psicoanalisti non erano tuttavia rimasti fermi su questo. Nel 1955 viene pubblicato il libro Psicosi e psicologia dell’io di Paul Federn, uno dei primi psicoanalisti a considerare concretamente la prospettiva di un trattamento per la psicosi. Federn non considerava che la psicosi derivasse da una chiusura narcisistica, ma da un’alterazione dell’io che lo assimila alla situazione onirica, e lo rende incapace di distinguere tra realtà e fantasia. Il problema è dunque dei confini dell’io. Federn propone allora la tecnica basata su un transfert caratterizzato da comprensione ed empatia, al fine di tentare una ricostruzione dell’io. C’è poi, famosissimo il Diario di una schizofrenica di Marguerite Sechehaye, pubblicato nel 1950, testo molto conosciuto dagli psichiatri francesi. Ci sono i lavori dei kleiniani, a partire dal grande articolo di Melanie Klein del 1945 Note su alcuni meccanismi schizoidi, cui seguono Hanna Segal, con La creatività e la psicosi, Herbert Rosenfeld con Stati psicotici. Ci sono poi ancora i lavori di Frieda Fromm-Reichmann che fuggita in America dalla Germania nazista diede vita negli anni ’40 all’esperienza di Chestnut Lodge esplorando il tema della solitudine radicale nella psicosi. Lacan non prende nessuno di questi riferimenti, non c’è nessuna continuità tra quel che lui cerca e le esperienze fatte in quegli anni sulla psicosi. Tutti gli studi sulla psicosi degli psicoanalisti di tutte le correnti cercano infatti di individuare una linea psicogenetica nella causalità della nevrosi e delle psicosi, e non è la psicogenesi l’approccio che sta seguendo Lacan nel momento in cui ha cominciato lo studio strutturale del linguaggio. I suoi riferimenti sono cercati piuttosto nella psichiatria clinica. Cosa fanno gli psichiatri? Tre sono le grandi linee portanti che Lacan segue nel Seminario III per l’approccio alla psicosi. Quella con cui parte e che subito dispiega ampiamente è il riferimento alla clinica psichiatrica. Poi ovviamente c’è il riferimento al testo freudiano, e la terza linea è data dal testo stesso di Schreber. Freud non si è tanto occupato di articolare particolarmente la nosologia delle psicosi, il cui campo per lui si divide in due tra paranoia e schizofrenia. Freud si occupa fondamentalmente di paranoia, malgrado i suoi rapporti con Eugen Bleuler e la scuola di Zurigo. La nozione di paranoia tuttavia compare con Emil Kraepelin che ha introdotto nel 1896 il termine di dementia paranoides. Lacan quando menziona Kraepelin, ci tiene a sottolineare che è un allievo di Kant. Potrebbe sembrare una nota marginale, un fatto di pura erudizione, invece è interessante, perché dietro a questo c’è un riferimento al fatto che gli psichiatri tedeschi, diversamente da quelli francesi, dovevano includere nel loro curriculum formativo dei corsi di filosofia. Sappiamo che anche Freud, per esempio, ha seguito i corsi di Brentano. Questo evidentemente dà all’impostazione di pensiero degli psichiatri tedeschi un taglio più sistematico, più organico anche se forse anche più astratto, rispetto all’impostazione degli psichiatri francesi che è di solito più descrittiva. In cosa vediamo l’influsso del pensiero kantiano sul lavoro di Kraepelin? Direi che l’impostazione kantiana si riconosce in Kraepelin nella sua idea che la psichiatria debba basarsi sull’osservazione dei fenomeni, senza pretendere di conoscere la loro essenza. Il retaggio qui evidentemente deriva dalla distinzione tra fenomeno e noumeno. L’impronta di Kant si vede poi soprattutto nel fatto che Kant considerava la conoscenza umana come dipendente dalla capacità di organizzare i fenomeni secondo le categorie a priori come quantità, qualità, relazione, modalità, e riteneva che la follia fosse una rottura di qualche categoria, un difetto della facoltà del giudizio che non consente di coordinare le sensazioni con le categorie, portando a una deviazione dalle regole per l’uso della ragione. Il termine paranoia arriva in Francia con ritardo, qualche anno dopo, e corrisponde a qualcosa di completamente diverso da quel che aveva definito Kraepelin. “Un paranoico – dice Lacan – era un malvagio, un intollerante, un tipo caratterizzato da malumore, orgoglio, diffidenza, suscettibilità, sopravvalutazione di sé” (pag.7). “Queste caratteristiche – aggiunge – costituiscono il fondamento della paranoia, e quando un paranoico era un po’ troppo paranoico finiva per delirare. Si trattava meno di una concezione che di una clinica, per altro molto fine” (ibid.). Credo possiamo dare la tara dell’ironia a questa qualifica di finezza visto che riconduce allo schema di una caratteriologia che definisce un carattere perverso che come ogni perverso può uscire dai solchi e cominciare a delirare. Qui Lacan rimanda a Genil Perrin, psichiatra che per primo a studiò la paranoia come un’estensione quantitativa di tratti preesistenti della personalità e non come malattia organica o funzionale del cervello, e Lacan definisce per questo motivo la sua prospettiva come psicologizzante e psicogenetica. Sia che segua l’impronta kraepeliana sistematicamente orientata, sia che si orienti sulla raccolta di dettagli osservativi come nella scuola francese, la psichiatria resta comunque un campo descrittivo alieno dal rapporto con le cause, tanto che ancora oggi gli psichiatri, in mancanza d’altre risorse, cercano le cause nella base organica. Questa mancanza di riferimenti strutturali costringe la psichiatria a basarsi su fenomeni di superficie, esponendola a esperimenti che possono seriamente minare la sua credibilità, come quello condotto da David Rosenhan nel 1974. Tutta la propensione osservativa della psichiatria in ultima istanza si regge – questo mostra l’esperimento – sul fatto di credere a quello che racconta il paziente. In questo senso la psichiatria fa quindi esattamente il contrario di quello che facciamo noi con la psicoanalisi. Noi ascoltiamo quel che dice il paziente, ma non certo per credergli. E non perché temiamo che il paziente voglia ingannarci, come hanno fatto on gli psichiatri i falsi pazienti dell’esperimento di Rosenhan, ma perché, come ci allerta Lacan, proprio quando il paziente si premura di non metterci su una falsa pista, proprio allora l’inconscio sta nascondendo qualcosa. Delirio e fenomeni elementari Questo problema della credenza e dell’inganno è fondamentale per il modo in cui Lacan mette in gioco il linguaggio in questo seminario. Se infatti questo seminario non ci dà la teoria della psicosi nel suo sviluppo completo, ci dà però per la prima volta un panorama in cui il linguaggio svolge un ruolo determinante nel definire la clinica. I due seminari precedenti erano molto appoggiati alla funzione dell’immaginario. Per esempio nel Seminario I Lacan spiega lo svolgimento dell’analisi attraverso lo schema a due specchi, come una continua oscillazione tra due punti occupati da un’immagine reale e una virtuale. Consideriamo poi che la nozione di Altro con la maiuscola si produce in una delle ultime lezioni del Seminario II, e quindi comincia a essere operativa clinicamente solo qui, nel Seminario III. È qui infatti che troviamo l’analisi della frase simbolica, il grande capitolo sul significante e sul significato, sulla separazione del significante dal significato quando Lacan afferma che ogni vero significante non significa nulla, e ancora compaiono qui per la prima volta l’analisi della metafora e della metonimia, la definizione del punto di capitone, l’autonomia del simbolico, tutti gli elementi insomma che costituiranno i temi portanti della clinica strutturale degli anni Cinquanta. Ma quel che dà l’avvio, quel che segna, quel che fa valere l’importanza del simbolico nella clinica comincia con l’analisi del delirio che viene letto alla luce dei fenomeni elementari di Clerambault. Per mostrare come i fenomeni elementari abbiano in sé la stessa complessità del delirio già sviluppato, Lacan usa un’immagine, diventata famosa, in cui li paragonando alla foglia in rapporto alla pianta: come la foglia riproduce in piccolo le stesse forme che compongono la pianta nella sua totalità, così accade per i fenomeni elementari in rapporto al delirio. Questo lo porta a dire che anche il delirio è un fenomeno elementare, e a considerare l’esistenza di un’equivalenza tra elemento e struttura. I fenomeni elementari precedono tuttavia la manifestazione piena del delirio. Questo riguarda la clinica strutturale formulata in questo seminario, una clinica binaria che separa la nevrosi da una parte e la psicosi dall’altra, una clinica diversa da quella dell’ultimo Lacan, quando presenta la clinica dei nodi, e diversa anche dalla nostra clinica attuale, dopo la convenzione di Antibes nel 1999. Nella clinica strutturale i fenomeni elementari sono determinanti per la diagnosi di psicosi. È un aspetto in cui Miller ha sempre insistito, almeno nei primi momenti della sua riflessione clinica. Nella conferenza di Curitiba del 1987, per esempio, la prima cosa che chiede in supervisione è: “Hai cercato i fenomeni elementari? Li hai trovati o no?”. Si tratta di fenomeni di automatismo mentale, di automatismo corporeo, come il senso di estraneità del proprio corpo, distorsione nella percezione del tempo e dello spazio. Fenomeni relativi al senso e alla verità, esperienze ineffabili, inesprimibili. Il fenomeno elementare segna una discontinuità, presenta un punto di perplessità, Miller mette a confronto il fenomeno elementare della psicosi, con la formazione dell’inconscio nella nevrosi. Nella formazione dell’inconscio la struttura è quella dell’alienazione, un significante rappresenta un soggetto per un altro significante, e in questa concatenazione, se si produce un lapsus, il soggetto sente di essere lui ad averlo fatto. Nel fenomeno elementare questa concatenazione non c’è. Il fenomeno elementare rappresenta qualcosa ma non si sa bene cosa, lascia il soggetto nella perplessità, è sentito come estraneo. Rappresenta qualcosa per qualcuno, come nella definizione di Pierce del segno, rappresenta qualcosa per il soggetto, qualcosa di enigmatico di cui il soggetto sente di dover venire a capo. E la creazione del delirio serve proprio per dare un senso a questo segno enigmatico. Il linguaggio e i logici Nel Seminario III non c’è ancora una lettura di Pierce da parte di Lacan, questa verrà dopo, in particolare con il seminario sull’identificazione, ma nel momento in cui la funzione del linguaggio entra in gioco in modo determinante per definire la clinica strutturale, Lacan non prende certamente il linguaggio in modo ingenuo. Assume, sì, le categorie presenti nella linguistica saussuriana, la divisione tra significante e significato, ma non trascura una riflessione sulla natura del linguaggio. Sottolinea infatti come sia necessario evitare la trappola di credere che i significati siano gli oggetti, le cose (pag.37). “Il significato è tutt’altra cosa, è la signification […], che rinvia sempre alla signification, cioè a un’altra signification, ma non si risolve mai in un indice diretto su un punto di realtà, è tutta la realtà a essere ricoperta nell’insieme dalla rete del linguaggio” (pag.38). A chi si rivolge questa critica di Lacan? Evidentemente all’empirismo logico, il cui rappresentante più significativo è Carnap. L’empirismo logico si propone di liquidare la metafisica individuando gli pseudo-problemi che si annidano nel linguaggio ammettendo solo la validità di un linguaggio che si riferisce unicamente ai fatti del mondo. Questa concezione era già andata nel mirino della critica di Willard Van Orman Quine, che considerava il riduzionismo empirista come un dogma, e che riteneva il linguaggio un sistema complesso e interconnesso in cui le singole parole o frasi non hanno significato isolatamente, ma solo in relazione al contesto o alla teoria in cui sono usate. Il testo di Quine Due dogmi dell’empirismo è del 1951. Non so se Lacan lo avesse letto al tempo del seminario sulla psicosi, ma sicuramente quel che dice del linguaggio va nella stessa direzione. Vizi e virtù della comprensione La critica di Lacan, per quanto riguarda il linguaggio, si rivolge comunque non solo alla concezione neo-empirista, perché quando riprende il tema della comprensione il bersaglio è Karl Jaspers Jaspers. Bisogna dire che la concezione di Jaspers non è affatto priva di interesse nella storia della psichiatria. Jaspers parte infatti da una radicale presa di posizione contro Wilhem Griesinger e la sua affermazione che ogni malattia mentale è una malattia del cervello. La relazione di comprensione si presenta come un rapporto empatico, in altri termini, sviluppa l’idea che sia necessaria nella psicosi quella traslazione che Freud considerava invece impossibile. Quando Jaspers parla della comprensione in relazione alla psicosi, pensa a un modo di conoscere basato sull'empatia, sul dialogo e sulla comunicazione con il paziente, che non si limita a descrivere i sintomi o le anomalie del comportamento, ma cerca di cogliere il senso e il significato attribuiti dal paziente alla sua esperienza patologica. La comprensione è comunque una funzione articolata, e si distingue in due tipi: statica e genetica. Quella statica si concentra sul modo in cui i fenomeni psicotici si manifestano alla coscienza del paziente, senza preoccuparsi delle loro cause o della loro origine. Quella genetica cerca invece di ricostruire la scaturigine e lo sviluppo dei fenomeni psicotici, partendo dalle esperienze precedenti e dalle relazioni del paziente. La comprensione genetica si divide a sua volta in due diramazioni: razionale ed empatica. Quella razionale segue una logica causale e deduttiva, basata su principi generali e universali. Quella empatica segue una logica intuitiva e induttiva, basata su singoli casi e situazioni concrete. Secondo Jaspers la comprensione è un metodo fondamentale per la psicopatologia, ma non sufficiente per spiegare la psicosi. Infatti, la psicosi presenta fenomeni che sfuggono alla comprensione, perché irrazionali, contraddittori o incomprensibili. Questi fenomeni sono chiamati da Jaspers "incomprensibili" o "primari", e richiedono secondo lui un altro tipo di conoscenza, che è la spiegazione. La spiegazione è il metodo che cerca di individuare le cause fisiche o biologiche dei fenomeni psicotici, attraverso l'osservazione, la misurazione e la sperimentazione. Essa si basa sulle scienze naturali e mediche, e non richiede l'empatia o il dialogo con il paziente. Jaspers ritiene che la spiegazione sia necessaria per integrare la comprensione, ma non la sostituisce. La spiegazione infatti non può rendere conto del senso e del significato dell'esperienza psicotica, che rimane sempre un mistero per lo psichiatra e per il paziente stesso. Il comprendere jasperiano implica però una “visione intuitiva dello spirito da dentro” In questo può far pensare all’intuizione dell’essenza husserliana, e se c’è una filosofia che non lascia nessuno spazio al linguaggio, con la sua concezione del precategoriale, è proprio quella di Husserl. È chiaro quindi che Lacan si trovi su una sponda completamente opposta, giacché quel che gli interessa del linguaggio è proprio il suo carattere materiale. Il senso qui non ha niente a che vedere con l’intuizione dell’essenza husserlana, né con una visione dello spirito jaspersiana. A proposito del discorso psicotico Lacan si domanda piuttosto: “Qual è il materiale di questo discorso? Su che piano si sviluppa il senso tradotto da Freud? Da dove sono tratti gli elementi che il discorso denomina?” È quel che afferma è che in termini generali il materiale del linguaggio è il proprio corpo. La relazione con il proprio corpo caratterizza nell’uomo il campo, in fin dei conti ridotto, ma invero irriducibile, dell’immaginario. Se nell’uomo qualcosa corrisponde alla funzione immaginaria in modo analogo a quello in cui opera nell’animale, questo è proprio ciò che lo rapporta in modo elettivo, ma pur sempre estremamente inafferrabile, alla forma generale del suo corpo in cui c’è un punto detto zona erogena. Questo rapporto, sempre al limite, col simbolico, ha potuto essere colto solo attraverso l’esperienza psicoanalitica nei suoi movimenti ultimi. Ecco cosa ci mostra l’analisi simbolica del caso Schreber. “È soltanto attraverso la porta del simbolico che si giunge a penetrarlo” (pag.14). È chiaro quindi il problema: nel momento in cui Freud si mette al compito di decifrare il delirio di Schreber, non è la comprensione a poterlo aiutare, ma l’articolazione simbolica in cui il delirio è costruito. E quando Lacan a sua volta si mette a decifrare il delirio di Schreber cosa trova? Un Dio che inganna. Il Dio di Einstein, quello di Hawkins e quello di Schreber Se nella scienza abbiamo a che fare con un reale che non inganna, perché, come diceva Einstein, Dio è malizioso ma è onesto, non gioca a dadi, nella dimensione di un’intersoggettività in cui l’altro non è il simile ma è l’Altro con la maiuscola, Schreber si trova a trattare con un Dio che inganna. Oggi dovremmo aggiornare la frase di Einstein con il commento di Stephen Hawkins, che ha detto: Dio non solo gioca a dadi con l'universo, ma li getta anche dove non li possiamo vedere. In realtà la sostanza non cambia. Che l’Universo sia deterministico, come in Einstein, o traversato da una casualità imperscrutabile, quel che è assente nella visione scientifica è un’intenzione nei nostri confronti: il Dio di Stephen Hawkins è solo una maschera del caso. Vediamo comunque che se Jaspers, per delineare il confine il campo della scienza da quello della soggettività, riprende la contrapposizione posta da Dilthey tra Erklären e Verstehen, tra spiegare e capire, per Lacan il contrasto passa tra un reale che non inganna, garantito dalla misura, dalla matematica, oppure indeterministico, tuttavia inintenzionale, e invece un linguaggio in cui è implicato il soggetto. Come diceva Lord Kelvin: è conoscibile solo ciò che puoi misurare e esprimere in numeri, e la scienza passa per questa via, ma il soggetto evidentemente segue una strada diversa, che Lacan cerca qui chiedendosi che cos’è la parola. Il linguaggio scientifico infatti non implica la parola, è un linguaggio matematico che possiamo decifrare ma che non si rivolge a noi, che non prende parola per indicarci qualcosa. Siamo usciti dal mondo in cui i segni del cielo, le viscere degli uccelli o i fondi di caffè manifestano qualche intenzione degli dei nei nostri confronti e siamo entrati nell’epoca della scienza. Questo vuol dire che, per quanto decifrabile, il reale non prende parola per comunicarci qualcosa. Ma l’Altro sì. Cosa distingue – si domanda Lacan – la parola da una registrazione di linguaggio? Parlare è innanzitutto parlare ad altri. Questo implica la dimensione della fides, della parola data, del patto, dell’impegno. È il famoso esempio: “Tu sei la mia donna”. Questa non è un’affermazione descrittiva, che asserisce uno stato di fatto, che ha un referente già determinato, pubblicamente riconosciuto come sarebbe se dicessimo: tu che – come tutti sanno – sei la mia donna. È invece – come sostiene Lacan – una parola fondatrice dei due soggetti, nel senso in cui quando pronuncio questa frase niente ancora è definito. Dico: “Tu sei la mia donna” perché in realtà desidero che tu lo sia. “Posso affermarlo – dice Lacan – solo prendendo la parola al tuo posto” (pag.43). Che vuol dire: ho bisogno che sia tu a dire che sei la mia donna. Ho bisogno del tuo assenso, ho bisogno che tu accetti l’impegno di essere la mia donna. Parlare all’altro – aggiunge – è far parlare l’altro. È tutta la differenza tra la descrizione, quando si parla di un oggetto, e l’appello, quando ci si rivolge a qualcuno. L’altro lato della fides è ovviamente l’inganno, come nella storiella di Cracovia e Lemberg. Dire che sei la mia donna quando ancora non so se vorrai essere la mia donna – perché magari rispondi: “No, sono la donna di Ernestino”, e la partita è chiusa –, dire tu sei la mia donna significa passare per l’Altro maiuscolo. E allora, quando tu hai accettato e tutti lo sanno, perché è inscritto nell’Altro, allora quel che mi ritorna è io sono il tuo uomo. Darei particolare rilievo a questo duplice piano del linguaggio che Lacan individua qui, perché è da qui che si sviluppa la sua clinica strutturale, la clinica che continuerà ad articolare per tutti gli anni Cinquanta, e che prima di arrivare all’ultima concezione della psicosi espressa nel Seminario XXIII sarà anche la base di tutte le riflessioni sulla psicosi che abbiamo fatto nel Campo freudiano nei primi anni Ottanta.
1 Comment
Antonella Argentiero
4/12/2023 07:01:45 pm
Grazie davvero per questo articolo.
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