Sunto degli argomenti presentati nel dibattito tenutosi alle Casa della Cultura a Milano, il 12 aprile 2013 di Marco Focchi In una cultura che ha fatto del mercato il parametro di riferimento generale della vita, la sua nozione è innalzata ormai a termine di confronto inaggirabile per qualsiasi riflessione sulle pratiche sociali correnti, e la psicoanalisi viene convocata su questo stesso terreno. È un problema che anche l’arte ha registrato, quando Andy Wahrol ha affermato, senza veli, che fare buoni affari è la migliore forma d’arte concepibile. L’onnipresenza del mercato è un tema dominante nei dibattiti attuali, soprattutto dopo che la crisi iniziata nel 2008 ha reso evidenti i pericolosi squilibri sociali generati dal rovesciamento di gerarchia nell’ordine tra politica e mercato, dove gli spazi decisionali della politica si contraggono a favore di un’espansione illimitata delle compravendite, degli scambi di merci e di denaro su estensione globalizzata. L’epoca che si pretende postideologica – abbattendo le torri d’avorio delle diverse forme di cultura considerate autoreferenziali per forzare la via verso valori condivisi – ha in realtà innalzato come valore solo quello del mercato, unica forma di autoreferenzialità ammessa. Si sta verificando quindi una straordinaria riconfigurazione del nostro modo di vivere, con significative ricadute sul piano antropologico. La cultura imperniata sul mercato infatti non ha più al proprio centro l’homo sapiens, ma l’homo oeconomicus. La critica a questo concetto viene dal campo stesso degli economisti, quelli più più illuminati, che hanno ben visto l’irrealtà della definizione di un uomo che le cui scelte sono esclusivamente e razionalmente formulate in base al calcolo dei propri interessi. Non serve tuttavia dire che l’homo oeconomicus non esiste. Non parliamo infatti di realtà, ma di costruzioni discorsive che determinano i rapporti sociali. Le pratiche sociali attuali infatti, nel quadro di rapporti di potere in cui sono inserite, presuppongono una figura antropologica diversa da quella di cui parlava Dante quando diceva: “Fatti non foste a viver come bruti / ma per seguir virtute e canoscenza” La figura antropologica contemporanea corrisponde piuttosto all’idea di stampo utilitarista: “Fatti non foste che per seguire la massimizzazione del vostro interesse”. Per quanto l’homo oeconomicus in realtà non esista, resta tuttavia la colonna portante di una narrazione che informa e determina la società postideologica. Si tratta di una narrazione che produce uno spostamento dei principi guida dell’azione umana, e che disegna il funzionamento sociale tendente a sopprimere il posto di un soggetto che insegue i propri desideri, nella loro varietà e complessità, creando invece lo spazio di un soggetto che si regola in modo unidimensionale per perseguire i propri interessi. L’homo oeconomicus, in altri termini, è concettualmente costruito senza inconscio, e tutte le pratiche sociali attuali sono commisurate a un uomo privo di desideri che una ricca offerta consumistica non possa soddisfare, totalmente oggetto di calcolo, come mostrano gli algoritmi di Google. È l’idea di uomo interamente sottoposto al determinismo, alla concatenazione di azione e reazione, di stimolo e risposta, senza scarti, se non per errore, senza capriccio, se non fruibile in termini di marketing, senza un divario imprevedibile rispetto a quel che sarebbe in un dato momento la scelta razionale o razionalizzabile. Questo implica che tutte le pratiche siano modulate sul principio aziendale costi-benefici, e in base alla premessa che sostituisce la verifica alla legge, e dove il criterio guida dell’azione viene a essere il successo – definito come un obiettivo predeterminato che viene conseguito – piuttosto che la legittimità – ovvero una prassi correlata con un’autorità. Tutte le pratiche devono venire convalidate in base al successo conseguito. Quest’idea s’instaura con tale forza di evidenza da apparire incontestabile. Domandiamoci però cosa significa successo in ogni diverso, specifico campo in cui si esercita una pratica. Il criterio del successo in quanto tale vale infatti come autoevidente solo con l’implicita premessa che uniforma le pratiche sottoponendole allo stesso metro di giudizio e di valutazione. Il criterio del successo, insieme alla preoccupazione per l’efficacia, sono l’ossessione aziendale per eccellenza. Si tratta, nella logica aziendale, di prefissare obiettivi, presentati come condivisibili, evidenti, indiscutibili, e poi di mettere in atto tutte le strategie e la tempistica necessari per raggiungerli. Tutti i temi e i dibattiti sviluppatisi sull’efficacia della psicoanalisi hanno sullo sfondo questa preoccupazione aziendalistica, anche se quel che si fa in un’analisi è qualcosa di radicalmente diverso da un processo di produzione di tipo aziendale. In un’esperienza psicoanalitica, in realtà, non sappiamo prima dove andare, non abbiamo degli obiettivi prefissati. Il soggetto che inizia un’analisi sa piuttosto da dove vuole fuggire, sa da dove vuol levare le tende quanto più rapidamente possibile, anche se si sente imprigionato dov’è. Il sintomo è più forte di lui, lo tiene incatenato non solo con la costrizione della forza, ma con mezzi molto più sottili, con la seduzione di una sorta di canto delle sirene. Sappiamo che c’è un tornaconto secondario del sintomo, un godimento dal quale il soggetto non può staccarsi senza aver il timore, l’angoscia di perdere tutto. Il soggetto non può staccarsi da un godimento che si trasforma tuttavia in sofferenza. In psicoanalisi sappiamo dunque da dove vogliamo andarcene, sappiamo cosa vogliamo lasciarci alle spalle, ma non abbiamo una meta predeterminata, e se l’inconscio non ricade integralmente sotto la definizione deterministica, l’indeterminazione della meta fa parte integrante del concetto di processo inconscio. Questo ovviamente, ha una conseguenza che non collima con le logiche di valutazione che misurano l’efficacia in base al conseguimento di obiettivi. Un pratica che non ha un’obiettivo prefigurato è tale, per sua struttura interna, da scivolar via dalle maglie dell’ideologia onnicomprensiva implicita nella cultura aziendalizzata. È evidente che predeterminare un obiettivo significherebbe bloccare a priori tutte le possibilità inventive che nascono dall’esperienza psicoanalitica stessa, e che ne costituiscono la sostanza. Il successo, in senso aziendale, è commisurato a procedure, strategie, marketing, è subordinata alla possibilità del calcolo che, in ultima istanza, si può fare sull’uomo comportamentale, figura antitetica a quella dell’uomo desiderante che incontriamo sul lettino dello psicoanalista. Non può sfuggirci dunque il tentativo in atto di trasformazione antropologica improntata a una determinata politica, ed è per questo che appare sempre più chiara l’articolazione che nella psicoanalisi c’è tra la clinica e la politica. La psicoanalisi è un bastione di resistenza rispetto alla pervasività della cultura aziendalizzata, che tenta ora, attraverso istituzioni come l’ANVUR, di inglobare anche le roccheforti universitarie del pensiero, persino le meno plasmabili alla logica della valutazione, come le facoltà umanistiche e di filosofia. La psicoanalisi entra in attrito con questo tipo di progetti perché mette l’accento sulla libertà soggettiva in contrasto con la rete di determinazioni in cui è preso l’uomo comportamentale, che proprio perché presupposto integralmente calcolabile è in tal modo totalmente deresponsabilizzato. C’è infatti una radicale differenza tra quel che è la responsabilità soggettiva e il concetto che si è fatto largo oggi di accountability, cioè il dovere di rendere conto del proprio operato quando si occupano posti dirigenziali. L’accountability è un modo operativo in cui svanisce la nozione di autorità, a favore della contabilità dei risultati. Non parliamo qui dell’autorità tradizionale, trascendente – ampiamente logorata e che si presta ai consumati dibattiti sull’evaporazione del padre – ma di quella che anche un pensatore immanentista come Spinoza mostra essere necessaria a qualsiasi forma di funzionamento sociale. Sottoporre alla logica dell’accountability, anziché a quella della responsabilità, le pratiche sociali dove l’autorità ha una funzione essenziale, come l’insegnamento, la politica, la psicoanalisi, significa semplicemente annullarle. Non a caso la politica è oggi distrutta dalla corruzione, l’insegnamento ricade ai margini della società in un paese con il 50% di analfabetismo di ritorno, la psicoanalisi è assediata da pratiche terapeutiche che mimano la scienza, e che sono ben formatizzate in rapporto alle esigenze burocratiche e amministrative. Occorre ripartire da nozioni come la dignità, ovvero ciò che sostiene un’autorità non scaduta nell’autoritarismo, il sapere, ovvero una ricerca che non è immediatamente commisurata a dei risultati, il desiderio, ovvero ciò che spinge a un’azione non meramente dettata dagli interessi, e la psicoanalisi è oggi una delle poche pratiche proiettate in questa direzione.
2 Comments
Falconi Roberto
4/5/2016 07:29:09 pm
Stimolante questo saggio. Solleva problemi che sono stati al centro delle riflessione filosofica e forse lo sono ancora. Spesso intellettuali di particolare livello, tra cui il giornalista Massimo Fini, hanno sottolineato come l'individuo non sia che un ingranaggio di una macchina. Il "sistema" o, nel linguaggio di M. Foucault e degli strutturalisti francesi, "le strutture". Ovviamente nel saggio come nel mio commento si parla di modelli antropologici, di saperi e sistemi di pensiero. Per fortuna le persone possono, se ne sono capaci, costruirsi spazi personali che le rendono capaci di non essere semplici ingranaggi di una macchina. La psicoanalisi, le comunità di cui facciamo parte...Va però sottolineato che comunque la nostra cultura, ma forse anche altre, evidenziano in tutti i modi possibili l'impossibilità della persona di, non dico modificare, ma "lasciare un segno" sul mondo in cui vive. E' questo il problema. far sì che il soggetto percepisca di contribuire a modificare, anche minimamente, la più vasta realtà di cui è parte integrante. "Si, va bene", si dice...ma in fondo cosa vuoi che sia il mio voto? Specie i una democrazia? Soprattutto nel più vasto mondo globalizzato? Certo questo stimola la riflessione della persona che considera con attenzione queste tematiche.Può la psicoanalisi, è questo l'interrogativo che l'autore pone, consentire a chi ad essa si rivolge di poter cambiare e pensare di cambiare non il mondo, ma se stesso? E che spazio hanno altre pratiche sociali? L'altra tematica che viene affrontata è la riduzione dell'uomo ad "homo eoconomicus". In un sistema dominato dal mercato l'uomo e ciò che produce sul piano culturale valgono per l'utilità, anche rilevante sul piano economico, delle sue opere e della sua stessa esistenza. Si chiedeva Foucault, anni fa, cosa possa significare il "prezzo giusto". Questa espressione è persino incomprensibile oggi come in passato. Il valore di un'opera non è quantificabile, in certi ambiti (soprattutto nel campo del mercato di opere d'arte) il valore è determinato dalla contrattazione. Ma c'è speranza: il valore di un'opera, se questa ha significato per l'acquirente, non è determinato dal parametro, che pure è stato determinato, ma dal senso estetico, dal "desiderio", e ovviamente dal corso della trattativa.
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marco focchi
5/5/2016 07:48:45 am
Grazie a Roberto Falconi per queste riflessioni che estendono il problema alla logica della democrazia. Sappiamo infatti quanto i meccanismi finanziari entrino nei suoi ingranaggi e ne minino le basi. La politica marketing si sostituisce al normale meccanismo elettorale, e quel che succede oggi in America e che è successo ieri (e continua oggi) in Italia ne sono la dimostrazione
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