Ampliamento dell'intervento alla tavola rotonda tenutasi il 17 giugno 2018 a Bologna nell'ambito del Congresso SLP sul tema: "Il desiderio dell'analista, clinica e politica". Marco Focchi Della politica oggi si dice, nel migliore dei casi, che ha perso la sua centralità, che non ha più la fiducia della gente, che è assediata e sovrastata da forze superiori come il mercato, la finanza, la tecnologia. Le decisioni vitali della comunità passano per altre vie che non sono più quelle del confronto, del dibattito, dell’analisi delle situazioni sociali. Come possiamo interpretare questo declino della politica dal punto di vista della psicoanalisi, la quale non parte da un orizzonte sociologico ma dall’esperienza clinica, e dove il soggetto, mettendo in gioco le proprie questioni più intime, riflette comunque l’aria del tempo, le problematiche e le tensioni dalle quali è traversata l’epoca in cui vive? Un aspetto senz’altro da mettere in luce è che il tempo in cui viviamo sta scivolando verso forme di pensiero che evitano la soggettività, che la neutralizzano, la aggirano mettendola fuori gioco. Traversiamo una fase storica che interpreta se stessa come segnata dall’estinzione delle ideologie, e che tuttavia è sostenuta da un’ideologia ancora più potente, un’ideologia diventata onnipresente e dominante nell’informazione e nella propaganda occulta che questa fa circolare. Il suo nome è scientismo, ovvero l’estensione del metodo scientifico a campi per i quali l’applicazione di questo metodo è forzata, inappropriata, inadeguata. Prendiamo alcuni esempi. Dal 2010 è attivo in Italia un Network Nazionale per la Ricerca sulle Dipendenze. Funziona in una quindicina di centri sparsi per il territorio nazionale e ha come riferimento il paradigma delle neuroscienze. Si occupa di preparare mappature cerebrali e di realizzare interventi attraverso stimolazione magnetica transcranica, una tecnica utilizzata per studiare le connessioni neuronali all’interno del cervello, ma anche per trattare alcuni disturbi psichiatrici e neurologici. Nella cura delle dipendenze questo significa una radicale svolta rispetto alle modalità d’intervento precedenti, fondate sulle comunità terapeutiche territoriali. In queste comunità era possibile offrire informazione, fare riabilitazione, dare sostegno, coordinare interventi terapeutici che potevano essere sia psicologici sia integrati con un affiancamento farmacologico. Nella prospettiva assunta dal Network la comunità terapeutica territoriale viene ora considerata superata, perché la dipendenza non viene più concepita come un problema della persona, ma come una malattia del cervello. L’obiettivo diventa dunque ristabilire un normale decorso del funzionamento cerebrale. Cosa questo voglia dire non è immediatamente chiaro, ma possiamo immaginare significhi che l’obiettivo finale è di risistemare i circuiti neuronali perché il cervello possa pensare correttamente, nel modo giusto e non in quello patologico. Il problema è però che il cervello non pensa. Io penso, noi pensiamo, ma il cervello no. Senza cervello non penseremmo, certo, ma non è il cervello a pensare. Il cervello è l’oggetto di studio delle neuroscienze ed è, per l’appunto, un oggetto. Io ho un cervello, non sono il mio cervello. Chi pensa non è un oggetto, ma un soggetto. Assistiamo quindi all’oggettivazione di un problema definito come malattia mentale che semplifica, apparentemente, le possibilità d’intervento, al prezzo di tagliar fuori le complessità portate dall’aspetto soggettivo e relazionale.
Un altro esempio, di carattere opposto, è il dibattito sollevato in Gran Bretagna e ispirato all’utilitarismo, relativo all’opportunità di dare accesso per gli obesi a cure le cui spese siano sostenute dal Servizio Sanitario Nazionale. I problemi di salute degli obesi non derivano infatti da una malattia, ma sono conseguenza di un comportamento, cioè della scelta di uno stile di vita che trascura irresponsabilmente le conseguenze patologiche cui va incontro. La scelta è infatti ciò che definisce il soggetto. In entrambi gli esempi vediamo che il terreno della salute mentale si circoscrive separando la malattia dalla dimensione soggettiva e si costituisce come campo attraverso l’esclusione del soggetto. Nella salute mentale non ci sono quindi sintomi come intesi indici di un disagio soggettivo, ma disturbi, fenomeni disfunzionali dell’organismo sempre riconducibili a fattori biologici. Nella salute mentale l’uomo è sempre e comunque ricondotto alla sua biologia. Prendiamo un terzo esempio. Un’equipe di ricercatori svizzeri coordinata dal prof. Johannes Gräff si è posta il quesito se nel superare i ricordi traumatici l’organismo reagisca cancellando il ricordo traumatico o riscrivendoci sopra e riutilizzandolo. Ha così condotto un esperimento in cui a un topolino veniva somministrata una scarica elettrica come stimolo traumatico. Il topolino veniva poi indotto a superare la paura dell’ambiente che risvegliava in lui il ricordo del trauma attraverso la tecnica dell’esposizione. Progressivamente veniva abituato ad affrontare l’iniziale situazione traumatica senza subire ulteriori scosse, fino a che ne risultava rassicurato. Osservando i tracciati neuronali del topolino mentre traversava senza manifestazioni di paura i corridoi in cui aveva subito la scossa appariva che il ricordo traumatico era ancora attivo. Lo stesso esperimento viene poi ripetuto spegnendo farmacologicamemte il ricordo traumatico, e ne risulta che il topolino esprime chiare reazioni di paura. I ricercatori ne deducono che il mantenimento del ricordo traumatico è funzionale nel superare la paura. Per superare il dolore del trauma si tratta dunque di riscrivere sul ricordo anziché di cancellarlo. Il ragionamento è lineare e logico, le procedure scientifiche nell’esperimento sono state applicate correttamente e in modo rigoroso, i risultati sono quindi considerati un avanzamento per la possibilità di curare nell’uomo le fobie. C’è però una domanda molto semplice che i ricercatori non si sono fatti, ovvero: qual è la differenza tra un topo e un uomo? Possiamo infatti anche rivendicare che l’organismo di una specie possa essere modello per il funzionamento di un’altra, anche se già questo può implicare qualche difficoltà. Il problema vero però, nel passaggio dal topo all’uomo, è che l’uomo dispone di un funzionamento simbolico a cui l’animale non ha il minimo accesso. Questo cambia completamente le cose, perché grazie al simbolo l’uomo ha la possibilità di prendere distanza dal proprio determinismo biologico, non è imprigionato nei circuiti ciechi dei meccanismi di stimolo e di risposta, può fare delle scelte. In altre parole, diversamente dall’animale, è un soggetto. Questo ha risvolti che possiamo osservare anche sul piano politico. Come sappiamo esiste una comunità di persone che si denominano sotto la sigla LGBT, ovvero Lesbiche, Gay, Bisessuali, Transgender. Sono persone che hanno fatto la scelta di vivere una sessualità diversa da quella determinata dall’anatomia e dalla costituzione biologica. Se consideriamo che vada fatta una battaglia a favore dei loro diritti civili, non è perché pensiamo che siano biologicamente diversi e che il loro orientamento sessuale sia geneticamente determinato. Se pensassimo la condizione LGBT come oggettiva scivoleremo infatti impercettibilmente verso posizioni di tolleranza, verso l’idea, inespressa ma presente, che c’è posto anche per questi pezzi difettati dell’umanità. Non è una posizione di tolleranza che dobbiamo avere nei confronti di queste persone, ma di rispetto. Si tratta di rispettare una scelta da cui scaturisce un modo di vita, non una condizione inevitabile in cui si trovano volenti nolenti. Quando diciamo scelta in questo contesto dobbiamo intenderci: non è la scelta di Ercole al bivio, che si trova davanti due strade, quella della virtù e quella del vizio e, come soggetto già costituito, prende una delle due vie che gli stanno oggettivamente di fronte. La scelta in questo caso va pensata come scelta in cui il soggetto si costituisce come tale, non come alternativa tra due possibilità oggettivamente disponibili. Per delineare il posto della soggettività nel campo della politica, dobbiamo dunque tenere presente questo concetto di scelta, che sta alla base della distinzione tra una politica delle cose e una politica delle persone. La differenza tra le cose e le persone è semplice: le cose non parlano, non hanno desideri, non hanno impulsi, non prendono iniziative, non si muovono da sole. Per questo le cose possono essere governate dai numeri, dal calcolo, dall’esattezza. Con i numeri abbiamo immediatamente la percezione della certezza, dell’informazione fattuale. Diversamente dalle parole, che richiedono interpretazione, i numeri si presentano come una fonte autorevole di sicurezza, come la rivelazione di una verità su cui non c’è da discutere. È chiaro che per un verso i numeri hanno un significativo potenziale di emancipazione, giacché non si può migliorare ciò che non si misura, e la misurazione è un aspetto fondamentale della vita umana. Senza le statistiche le decisioni politiche sarebbero dominate da impressioni, da spinte viscerali, da argomenti retorici. Per altro verso sappiamo che nelle burocrazie moderne il ricorso alle statistiche, alle classificazioni, alle valutazioni delle agenzie di rating, alla logica costi-benefici, ai criteri esclusivi di efficenza, hanno anche la funzione di nascondere la discrezionalità delle decisioni sotto il falso velo dell’oggettività, per mettere fuori gioco la responsabilità di scelte spesso difficili per il personale politico, che è esposto alle vacillazioni del consenso nelle prove elettorali. Il confronto di opinioni e il dibattito pubblico lascia quindi progressivamente spazio alla politica governata dai numeri, il cui assioma di fondo è quello fatto proprio a suo tempo da Margaret Thatcher: “There is no alternative”. Se la politica delle cose, governata dai numeri, prende il posto della politica delle persone, determinata dal confronto, svanisce allora man mano la possibilità di opinare tra strade alternative possibili, e diventa vero quel che ha affermato una volta Fredric Jameson: è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo. L’ingranaggio del capitalismo moderno, con il suo funzionamento parallelo a quello della scienza e della burocrazia, diventa ciò che per la sua stessa natura mette fuori gioco la possibilità della scelta e con ciò la funzione del soggetto. Non stupisce allora che la depressione diventi il problema di salute mentale che caratterizza in modo peculiare la nostra epoca. L’OMS segnala, lanciando l’allarme, che negli ultimi dieci anni la depressione è aumentata del 20%, che ne soffrono cinque persone ogni cento, vale a dire trecentoventidue milioni di persone nel mondo. Se ai tempi della Rivoluzione francese Saint-Just poteva dire che la felicità era diventata un fattore della politica, oggi possiamo senz’altro considerare che la depressione è da mettere sul tappeto come qualcosa di cui la politica si deve occupare. Se n’è reso ben conto per esempio l’economista e uomo politico britannico Richard Layard, che basandosi sulle ricerche di Daniel Kahneman, profeta di un’ipotetica felicità oggettiva, ha arruolato un esercito di psicologi cognitivisti per fornire un discutibile sostegno terapeutico alla popolazione. La depressione, la caduta nell’inerzia, la disattivazione del desiderio, la resa di fronte a quel che appare immutabile è la risposta psicologica al senso di un meccanismo schiacciante, che si presenta come superiore alle nostre forze, che nulla può mutare, e dovremmo domandarci se l’astensionismo elettorale, oltre alla rabbia e al senso di rifiuto generati dalla cattiva politica, non abbia anche questo sfondo depressivo. Se vogliamo parlare di desiderio, tema del presente Convegno, credo dobbiamo assumere questa prospettiva: siamo tutti presi in un meccanismo più grande di noi, siamo catturati in una gigantesca macchina sociale dove molti funzionamenti vanno in automatico, senza bisogno di particolari interventi: si spedisce una lettera e arriva, si paga il bollo dell’auto ed è possibile circolare, si inserisce una tessera nei tornelli del metro e si può entrare. C’è un automaton sociale ma, come insegna Lacan, l’automaton non è tutta la storia, c’è una tyche, l’incontro, il momento in cui le cose non sono preliminarmente determinate e occorre mettersi in gioco, nel bene o nel male. Possiamo pensare la struttura sociale come una grande macchina, e non credo dobbiamo necessariamente vedere questa idea nella prospettiva dell’alienazione, della macchina che espropria l’umano, del computer o del robot che s’impossessa delle nostre vite come nei film di fantascienza. Ci sono due modi di rapportarsi con la macchina: uno è di farsene asservire, l’altro è di servirsene. Il primo modo è quello che vediamo per esempio con Charlot in Tempi Moderni, dove l’uomo diventa parte costituente della macchina stessa, nella catena di montaggio fordista. Il secondo è soggettivare la macchina quando ce ne serviamo. Per esempio se prendo la metro, o se guardo la televisione, o se navigo in internet, o ancora se vado a un concerto e fruisco del grandioso meccanismo orchestrale che si mette in moto a favore della mia posizione di ascoltatore. Non ci si pensa, ma un concerto è una grande macchina che richiede oltre all’orchestra, la biglietteria, la maschera che ci accompagna al posto, gli uomini delle pulizie la mattina dopo l’esecuzione. È necessaria una grande orologeria ben sincronizzata perché io possa godere delle note di Beethoven, di Bach, di Rossini. C’è un termine che sintetizza questi aspetti nel vocabolario filosofico contemporaneo. Nelle analisi contemporanee del potere si parla oggi infatti in un dialetto foucaultiano, che rifiuta di occuparsi di categorie generali come lo Stato, la Sovranità o la Legge, e il termine chiave utilizzato è quello di dispositivo. Questo indica un insieme di pratiche e di meccanismi di tipo burocratico, giuridico, linguistico, finalizzati a produrre effetti immediati, a realizzare una gestione efficace. Dove declina l’autorità sorge in modo imperativo la linea mirata all’efficacia. Il dispositivo foucaultiano, tutto sommato, è ancora una macchina, ma è una macchina che produce effetti di controllo. Il problema diventa allora: come essere soggetti del dispositivo e non semplicemente esserne un ingranaggio? Credo che la funzione del desiderio dell’analista entri in gioco in questo. Come nella conduzione della cura lo psicoanalista si implica nel materiale del caso, non è un mero osservatore esterno, e il desiderio dell’analista è quel che mette in movimento il materiale chiamando in gioco il desiderio del soggetto, così da un punto di vista sociale si tratta di non soggiacere a pratiche che tendono sempre più a diventare protocollari, anonime. Quanto più il funzionamento algoritmico tende a creare una parvenza di personalizzazione, per esempio negli acquisti su Amazon, tanto più si tende a sottrarci la potenza attiva della scelta dicendoci: “Ci sono molteplici possibilità e le scelte le abbiamo già fatte noi per te”. Qual è quindi la soggettività dell’epoca? È una soggettività che tende sempre più ad elidersi, a sparire, ad annullarsi nell’oceano del predefinito. Diamo uno sguardo, al di là del dispositivo, al funzionamento del potere classico. Sappiamo che ha bisogno di visibilità, di insegne, di stendardi, di grandi opere che impongano la maestà del Sovrano. Anche il potere contemporaneo ha bisogno di apparire: è una visibilità che passa attraverso la televisione, attraverso i talk show, attraverso i selfies su Facebook, dove un politico espone la propria linea direttamente sul “suo” popolo senza nessun contraddittorio. C’è poi il potere nascosto, i cosiddetti poteri forti, che invece hanno bisogno di stare dietro le quinte. Sono quelli ai quali la visibilità nuoce perché mostrerebbe chiaramente gli interessi a cui sono legati. Ma c’è anche un potere – di cui ha parlato Sini – che è essenzialmente invisibile, non perché è nascosto ma perché dipende da quel che tutti noi facciamo e che porta conseguenze non calcolate. È qualcosa che sta tra l’eterogenesi dei fini vichiana e il pratico-inerte sartiano. In senso analitico potremmo dire che il potere invisibile ha qualche affinità con la pulsione di morte, che riporta verso il caos l’ordine dei nostri progetti, ma che così facendo permette di rimodellarli, di rilanciarli, di ricrearli. Se veniamo a quella che può essere la prospettiva della psicoanalisi in tutto questo, se consideriamo debba avere una funzione politica, non credo debba essere quella di consigliere del Principe. In primo luogo perché dietro a questa posizione sta sempre in agguato il disastro platonico di Siracusa. In secondo luogo perché il Principe moderno non ha più bisogno di filosofi, e quindi meno ancora di psicoanalisti. Quel che cerca sono piuttosto tecnici, esperti, operatori settoriali per l’una o l’altra questione. O ha bisogno di spin doctor, curatori di immagine, ma non di ispiratori di una politica come ai tempi di Guicciardini e di Machiavelli. Cosa fanno allora i filosofi quando il Re o il Papa non li ascoltano più? Si rivolgono al pubblico. È la via degli illuministi, che informano ed educano. Questa via è bruciata se abbiamo in mente un pubblico universale, in primo luogo perché questo pubblico non esiste, in secondo luogo perché è già sotto la pressa dell’informazione mediatica, sempre più chiuso in bolle impermeabili, rafforzate dalla tecnologia. La via della psicoanalisi non è l’informazione, anche se non è da escluderne l’utilità in momenti particolari e rivolta a un pubblico mirato. La via della psicoanalisi è la formazione, da intendere nel senso specifico in cui il soggetto passa attraverso l’esperienza delle sue formazioni inconsce. Senza escludere però la formazione in senso allargato: l’educazione, quel che Platone chiamava paideia, che è il presupposto, il fondamento, la colonna portante l’edificio delle leggi. Si tratta in essa di tutto della premessa non scritta delle leggi – gli agrapha nomina – di ciò che è lasciato al margine dell’interpretazione nel dibattito e che è sottratto al regno del calcolabile, e che determina il costume, le abitudini, il modo di vita comune, ciò che è accettato e ciò che invece non lo è. Si forma attraverso l’educazione la base dell’etica sociale, da cui quella della psicoanalisi si distingue, ma con la quale è tuttavia connessa e, dal punto di vista psicoanalitico, non c’è politica senza etica.
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