Presentazione della tavola rotonda tenutasi a Milano, presso la sede dell'Istituto freudiano, il 2 marzo 2018 Marco Focchi Vorrei questa sera iniziare con una citazione che si formula come domanda: “Perché gli uomini temono la propria libertà e si rifugiano nella schiavitù? Perché ascoltano quanti li sviliscono, li ingannano, li riempiono di idee false, piuttosto che coloro che aspirano a renderli indipendenti?” È una domanda molto attuale, soprattutto in questo momento di campagna elettorale, così povera di contenuti e così gravata di promesse irrealizzabili, da paese dei balocchi. In realtà si tratta una domanda antica, formulata da Spinoza, che risale quindi ad almeno trecento anni fa. Questo mostra come ci siano problemi nella natura umana che ritroviamo immutati nelle epoche, e che allora come ora restano irrisolti. Un risposta a questa domanda potrebbe essere: “Per lo stesso motivo per cui gli uomini preferiscono spesso i rimedi del dottor Dulcamara, di cui la psichiatria fa oggi generosa offerta, piuttosto che non chinarsi sui propri problemi e farne la traversata, che non rimboccarsi le maniche e affrontare le proprie contraddizioni, in altre parole accettando qualsiasi soluzione breve pur di non entrare nella complessità della propria vita inconscia. Si preferisce così delegare al Leviatano del potere il compito di amministrare il godimento anziché farsi carico delle proprie responsabilità. I nostri colleghi spagnoli hanno lanciato qualche anno fa l’espressione “politica del sintomo”, che indica perfettamente il nodo indissolubile che esiste tra la clinica e la dimensione comunitaria che le fa da sfondo.
Non c’è in effetti nessun trattamento terapeutico possibile del sintomo se non lo si inquadra nella dimensione sociale a cui risponde. L’ho visto molto bene durante gli anni in cui ho fatto consulenza in una scuola elementare. Quando un bambino presentava comportamenti indecifrabili o manifestazioni non immediatamente leggibili, convocavo i genitori e appariva chiaro a cosa le condotte sintomatiche del bambino rispondevano. Lo si vede quindi nella dimensione famigliare ma, più ampiamente, lo si vede nella dimensione sociale, quella che implica scelte politiche. Perché in un determinato momento c’è un’epidemia di sintomi legati ai disturbi alimentari, in un altro di attacchi di panico, in un altro ancora di problemi relazionali? Potremmo dire che sono sintomi di moda, ma è una risposta che non dice nulla. In realtà i sintomi rispondono alla particolare configurazione sociale in cui si manifestano. Perché, per esempio, gli accessi di psicosi omicida si esprimono negli Stati Uniti con sparatorie nelle scuole, l’ultima delle quali è stata in Florida, mentre da noi in Italia si manifestano con stragi in famiglia, come recentemente è avvenuto a Latina? Abbiamo messo quest’anno il ciclo d’incontri dei nostri venerdì di Zadig sotto il segno della desegregazione. “Per una politica desegregativa” è il titolo che abbiamo dato. Ci rendiamo conto in effetti di vivere in una società in cui si sta realizzando una profezia di Lacan, quella in cui afferma che l’evaporazione del padre e il depotenziamento della società patriarcale avrebbero portato come contraccolpo alla segregazione. Vediamo infatti come la caduta dell’universalismo paterno, che si esprime oggi nella globalizzazione, abbia il contraccolpo dell’innalzamento di muri, della chiusura difensiva in comunità identitarie, della tendenza a farsi rappresentare dal sintomo. Della globalizzazione abbiamo parlato la volta scorsa tematizzando lo spazio globale. Oggi abbiamo sul tappeto il problema dello spazio privato. È un argomento che si può declinare in molti modi: la famiglia, la sessualità, le amicizie. Vediamo come ancora sia attuale quel che si diceva nel ’68, quel che allora era uno slogan: il privato è politico. Oggi è vero, però non nel senso in cui lo si diceva allora, intendendo che la politica dovesse entrare nel privato, incidere sui comportamenti intimi, sulle relazioni, sulla sessualità per far nascere l’”uomo nuovo”. Si tratta piuttosto del senso contrario: ci troviamo oggi infatti nella necessità di proteggere quel che chiamiamo la nostra privacy. dall’invasività delle grandi multinazionali, che utilizzano i big data per condizionare i nostri comportamenti Una politica desegregativa, in questo senso, è una politica antintegralista, che non solo recupera gli spazi inviolabili del privato, ma che lo protegge dalle derive ideologiche che vogliono assorbirlo e modellarlo. È una politica, per esempio, che promulgando le unioni civili non senta il bisogno di rifiutare la possibilità dell’adozione del figlio del partner − la stepchild adoption come la si è chiamata sui giornali − che non senta insomma il bisogno di “normalizzare” la famiglia riducendola allo schema papà-mamma-bambino,. Non è infatti la famiglia normale, standard, la garanzia della salute mentale o della buona socializzazione. Quale famiglia è più normale, più istituzionale, più aderente ai modelli costituiti di quella del presidente Schreber, che ha prodotto una nidiata di figli suicidi e psicotici? Desegregazione in questo caso vuol dire aprire le gabbie create dalle politiche che tentano di decidere al posto nostro come deve essere la nostra sessualità, la nostra vita, e anche il nostro modo di morire, se pensiamo al dibattito sul testamento biologico, e la psicoanalisi deve avere un ruolo importante nell’accompagnare questi processi, se quel che Lacan ha chiamato il desiderio dell’analista non si riduce a essere la spinta motrice del piccolo enclave edipico.
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