Marco Focchi Conferenza tenuta a Valladolid il 23 settembre 2022 Quando la pandemia è iniziata, alla fine del 2019, tutti siamo stati presi alla sprovvista. Cominciavamo appena a uscire dalla crisi finanziaria del 2008, che ci era sembrata molto pesante, ma le crisi finanziarie sono qualcosa che in Occidente avevamo già conosciuto. Basti pensare allo choc energetico del 1974 seguito alla guerra del Kippur, quando il prezzo del petrolio fece un balzo provocando un’impennata d’inflazione che ci ha accompagnato per anni. Non che siano mancate pandemie in precedenza in Europa. La peste, per esempio, è cominciata verso la metà del XIV secolo tornando in modo ricorrente, e l’influenza che in Italia chiamiamo spagnola, anche se in realtà non si era originata in Spagna, fu senz’altro devastante. Sono però esperienze che appartengono alla generazione dei nostri avi e dei nostri nonni. Per la nostra generazione la pandemia è stato infatti un colpo che ha lacerato il velo di invulnerabilità, il senso di sicurezza in cui avevamo vissuto fino a quel momento. Nella retorica di alcuni politici era sembrata la catastrofe più simile a una guerra. Non avevamo ancora conosciuto il conflitto in Ucraina, che era tuttavia già cominciato da sei anni, ma che evidentemente non aveva ancora bucato lo schermo. Bucare lo schermo significa imporsi all’attenzione, far presa sul pubblico, e direi che la pandemia, imponendosi imperiosamente alla nostra attenzione, ha provocato la caduta di tutti gli scenari in cui vivevamo, ha bruscamente interrotto i rituali nei cui sicuri binari le nostre vite procedevano tranquille. La città vuote
I teatri delle nostre città sono allora andati completamente a pezzi. Milano, il cui scenario è come quello di tutte le grandi città europee, traffico, folle nelle strade, locali luminosi, ristoranti pieni, è diventata una specie di deserto silenzioso. In molti modi, insomma, la pandemia ci ha mostrato la nostra vita dietro le quinte, perché ha trasformato le nostre città che, sotto il suo cupo velo, non erano più il caos di rumori e di luci a cui eravamo abituati. Questo naturalmente ha avuto effetti anche sui pazienti, effetti che, credo, tutti abbiamo potuto constatare. Per alcuni pazienti angosciati le angosce si sono accresciute a dismisura. Per altri, che hanno trovato nel confinamento una giustificazione reale all’auto-segregazione in cui vivevano, si è invece presentato un effetto di sollievo, di relativo benessere. È un effetto che conosciamo, di cui già Freud aveva parlato a suo tempo: durante una guerra i sintomi nevrotici si attenuano, diceva, perché il soggetto deve investire le proprie energie pulsionali nell’affrontare le difficoltà reali, sottraendole così ai conflitti psichici che abitualmente alimentano la nevrosi. Il primo effetto di caduta dell’illusione teatrale è stato dunque quello che ha investito gli scenari delle nostre città. Prendiamo così le città vuote come metafora del vuoto della politica, dell’assenza di mezzi in cui la politica si è trovata nel primo momento in cui ha dovuto affrontare un fenomeno per cui non erano mai state elaborate risposte, come ci siamo resi conto quando è emerso per esempio il fatto che il piano anti-pandemico del 2017 era una semplice copia del piano del 2006. La scienza nell’incertezza Il secondo effetto è quello che ha investito la scienza. Abitualmente la scienza svolge il proprio lavoro dietro le quinte e presenta i propri risultati ben confezionati sulla scena pubblica. L’urgenza della situazione ha spostato tutto il lavoro di confronto, di verifica, di contrastato dibattito e di eventuale dialettizzazione delle prospettive tra gli studiosi – un lavoro che si svolge normalmente dietro le quinte – e lo ha portato a scena aperta mostrandolo sugli schermi dei nostri televisori. Sappiamo l’effetto che questo ha prodotto sul pubblico: vedere la scienza, che è il paradigma della sicurezza razionale, dibattersi fra mille incertezze, assistere allo spettacolo di rispettabili scienziati che litigano come politici in tempo di elezioni, ascoltare una schermaglia di verità scadute a opinioni, ha provocato l’appannarsi, lo sbiadirsi, il vacillare dell’autorità della scienza su cui si fonda gran parte della sicurezza delle nostre società tecnologiche. Se neppure la scienza può salvarci – ci si domandava – cosa può farlo? In entrambi i casi, per la politica e per la scienza, la pandemia ha messo a nudo l’illusione scenica che sostiene la città come luogo della nostra vita, mostrandone le strade vuote, le luci spente, presentando le nostre ville lumière senza illuminazione, e ha fatto cadere l’illusione che sostiene la neutralità della scienza, lasciando trapelare, dietro il prodotto finito che ci viene di solito fornito, la pleonexia degli scienziati, la reciproca voglia di sopraffazione nel momento in cui il verdetto su come stanno le cose “oggettivamente" – con quante virgolette dobbiamo delimitare questo “oggettivamente”? – non è ancora pronunciato. La psicoanalisi La pandemia ha in qualche modo smontato il macchinario scenico anche per la psicoanalisi. Dobbiamo infatti ammettere che anche per noi c’è una sorta di teatralizzazione del nostro lavoro: è quella inventata da Freud, che prevede divano e poltrona, con posizione del paziente di spalle in modo che gli sguardi non s’incontrino. Freud diceva, molto pragmaticamente, che per lui questa posizione dipendeva da un semplice fatto: non avrebbe sopportato di essere guardato dai pazienti per molte ore al giorno. In questo pragmatismo c’è però qualcosa di più, qualcosa di sostanziale. Riguarda un aspetto che nell’allestimento scenico della psicoanalisi è sottratto allo sguardo non solo per la contingenza della posizione, ma in modo essenziale, e che rimane tale anche quando si adottano incontri vis-à-vis. Lo scenario psicanalitico, come i due precedenti, implica un aspetto invisibile. Come la città nascosta dietro la sua luce, o la scienza che si cela dietro i suoi prodigiosi risultati, anche nella teatralizzazione della psicoanalisi c’è un aspetto sottratto allo sguardo. Non si tratta però di qualcosa di nascosto, perché è piuttosto l’implicazione di un invisibile in quanto tale. Per definire la psicoanalisi, in diversi momenti in cui si rischiava di non sapere più quali fossero i suoi confini, gli psicoanalisti dovettero fare un importante sforzo di riflessione, per esempio negli anni Venti, quando si trattò di delimitare con chiarezza il confine tra suggestione e traslazione, e in questa stessa prospettiva i post-freudiani, negli anni Cinquanta, si impegnarono in un grande dibattito per definire cosa è psicoanalisi e cosa no. Il risultato lo conosciamo: sono gli standard, legati al numero di sedute, alla loro durata, e a volte sono legati anche consigli sull’arredamento della stanza o addirittura sull’abbigliamento dello psicoanalista. Da questa prospettiva, estremamente riduttiva, la psicoanalisi viene definita dai suoi rituali, dal suo apparato scenico, da quel che poi è stato ripreso in numerosi film fissandosi alla fine come sua immagine popolare. Online Il dibattito degli anni Cinquanta ha quindi definito la psicoanalisi attraverso gli aspetti empirici, attraverso il suo lato esteriore, attraverso quel che si vede. Quel che non si vede, invece, è l’inconscio, è ciò che Freud ha potuto indicare come il rovescio della coscienza, ciò che non si manifesta nel fenomeno, ciò che non appare alla luce, phos, il termine greco da cui deriva fenomeno, phanein, portare alla luce. Bisogna dire infatti che l’inconscio non è un fenomeno, perché è ciò che di per sé è invisibile, che per sua natura è evasivo, che sostanzialmente si sottrae. È ciò che è strutturato come un linguaggio, aggiunge Lacan, ma non è certo una stringa verbale che possiamo pronunciare, che possiamo sillabare, che una volta decifrato possiamo esibire come un trofeo, presentare, o indicare ostensivamente. L’inconscio è essenzialmente invisibile, per questo, una volta smontato l’apparato scenico, il divano, la poltrona, la scrivania, le sedie, non abbiamo in realtà mostrato nulla di quel che c’è dietro le quinte. Quando la pandemia ci ha costretti alla distanza fisica, e abbiamo dovuto proseguire il nostro lavoro analitico attraverso gli schermi del computer, alcuni di noi si sono adattati subito, altri hanno manifestato resistenze, altri ancora hanno fatto più fatica. Per i pazienti vale lo stesso: alcuni hanno proseguito on line senza difficoltà, altri non sono riusciti ad adeguarsi non posso neppure dire a una diversa ritualità, perché in fondo quella è rimasta, ma a una diversa scenografia, e hanno preferito aspettare che l’emergenza si attenuasse per tornare alle modalità abituali. Ci sono però alcuni pazienti che dopo essere passati alla nuova modalità online hanno preferito restarci. In alcuni casi ha giocato certo la comodità, il risparmio di tempo nei viaggi, ma in altri casi è stato piuttosto l’appropriazione della nuova forma di drammatizzazione. Nel dibattito che si è svolto tra noi, alcuni oppositori dell’online hanno lamentato la mancanza del corpo, o della compresenza dei corpi. Altri hanno segnalato la difficoltà di mettere in gioco la presenza dell’analista. Sono argomenti che vanno soppesati. Il tema del corpo è diventato centrale nei nostri dibattiti a partire dal Congresso di Buenos Aires del 2016 con il titolo: Il corpo parlante. Non dobbiamo però cadere nell’equivoco di pensare il corpo semplicemente attraverso la sua presenza empirica. Il corpo è una superficie d’inscrizione del linguaggio che ne delinea le zone erogene. Nella nostra pratica, per esempio, non prevediamo esercizi di manipolazione del corpo, come nella psicoterapia della Gestalt. Il corpo è quindi presente per noi nelle linee del linguaggio che ne definiscono la mappa di zone erogene. In questo senso non è qualcosa di cui la drammatizzazione via schermo ci privi. Per quanto riguarda la presenza dello psicoanalista direi che va piuttosto considerata nel senso del Dasein, che noi traduciamo con l’oggetto a. Bisogna dire allora che gli oggetti pulsionali, lo sguardo, la voce, il rifiuto o la divorazione, passano attraverso lo schermo nello stesso modo in cui passano tra divano e poltrona. Quando Miller ha ratificato la pratica on line chiamandola psicoterapia virtuale, ha sostenuto di preferire la modalità per telefono per non sentirsi aggravato dall’aspetto immaginario dello schermo. Penso si tratti di una preferenza soggettiva. Per quanto riguarda me, sento che l’immagine dello schermo sostiene l’oggetto sguardo e trasmette anche l’espressività corporea. Alcuni pazienti si sentono però più a loro agio con il telefono, e non ho alcuna obiezione su questo. La psicoanalisi in divenire Insomma, la psicoanalisi cambia, come fa notare anche Miller nella conferenza del 2014 per presentare il congresso di Buenos Aires. È cambiata dal tempo in cui Freud la praticava da solo, ed è cambiata nelle variazioni che possiamo leggere in Lacan. “Cambia di fatto – dice Miller – malgrado i nostri sforzi di aggrapparci a parole e a schemi antichi. C’è uno sforzo continuo per restare quanto più vicino possibile all’esperienza, per dirla senza schiantarsi contro il muro del linguaggio”. Possiamo esprimere questa idea anche in un altro modo: c’è uno sforzo continuo che dobbiamo fare per dar vita alle sorgenti della pratica psicoanalitica al di là dei modi della sua teatralizzazione, e andare alle sorgenti è riferirsi all’invisibile, a quel che ama nascondersi, come direbbe Eraclito, ma più specificamente, nel nostro caso, a quel che non ha bisogno di nascondersi per non essere visto. La pandemia, per la politica e per la scienza, è stata ciò che, facendo cadere i veli, andando dietro le parvenze e mostrando le macchine teatrali, ha bloccato il loro funzionamento. Lo ha inceppato perché ha fatto vedere che dietro la parvenza il Re è nudo. Lo è, per la politica, fin dai suoi testi inaugurali, fin dalla Repubblica di Platone, che si fonda sulla nobile menzogna di far credere ai governanti di essere figli della terra, e non del desiderio. Lo è per la scienza che sin da Galileo deve escludere le qualità dette secondarie, profumi, odori, colori, per creare quell’oggettività dominabile dal linguaggio matematico, per far credere, anche qui, a un’oggettività che non è figlia del desiderio, e quando il litigioso desiderio degli scienziati viene allo scoperto, tutto salta per aria. Il desiderio Nella psicoanalisi ci siamo trovati in una situazione diversa, perché per noi le parvenze non sono il velo che copre macchinari nascosti o desideri inesprimibili. Le parvenze, nella nostra pratica non sono fatte per nascondere il desiderio, ma per sostenerlo. Per questo far vacillare la parvenza non implica per noi uno smascheramento, la rivelazione dell’innocente che può dire che il Re è nudo. Lo psicoanalista occupa il posto della parvenza dell’oggetto a non perché dietro di lui di nasconda l’autentico oggetto a cui lui farebbe velo. L’oggetto a stesso è una parvenza, e il desiderio si sostiene appoggiandosi a una parvenza. Ma questa parvenza non nasconde nulla. È come per i ricordi di copertura. Li chiamiamo così ma in realtà non coprono niente, sono semplicemente schemi di relazione. Se, come spiega Lacan, i fantasmi non sono da interpretare, ma sono piuttosto ciò che consente l’interpretazione, è perché dietro al fantasma non c’è niente, la scenario fantasmatico non nasconde qualcos’altro prestandosi a un gioco di sostituzioni. Non c’è qualcosa dietro le quinte del fantasma, perché dietro il fantasma c’è solo l’abisso infinito dell’origine, ovvero il desiderio. Diversamente dalla politica e dalla scienza, che sono pratiche fondate sull’occultamento dei desideri, la psicoanalisi è una pratica intessuta sulla dialettica del desiderio. Proprio perché il desiderio frequenta l’invisibile – o l’inaudibile, o l’insaziabile, o l’ineliminabile – si appoggia a un oggetto-esca, un oggetto di traslazione, che è l’agalma del sileno socratico, o il cinto di Venere, o l’anello che Turpino trova in bocca alla fanciulla amata da Carlo Magno, o il glamour, nel senso dell’antica parola scozzese, che avvolge l’amato rendendolo più alto, più forte, più bello, e che Freud chiamava sopravvalutazione sessuale. Gli oggetti di traslazione sono vettori che portano il desiderio verso quella macchina oscena di godimento che è la pulsione. Ma poiché la pulsione è pulsione di morte, è qui che incontriamo la chiave di tutti i misteri. Il segreto di tutti i segreti è infatti quello che l’essere parlante conosce dal primo giorno in cui comincia a parlare: il segreto di essere mortale. Così la pandemia, che ha scosso le nostre vite perché ci ha rivelato che con tutta la nostra scienza, che ci rassicura sulla padronanza sulle cose, con tutta la nostra politica, che ci tranquillizza che tutto sia sotto controllo, con tutta la nostra medicina, che a ogni nostra caduta tira fuori un farmaco o un rimedio per farci riprendere a camminare, con tutte queste potenze a nostra disposizione la pandemia ci rivela che il padrone in ultima istanza, è quello assoluto, quello che tiene in mano le cesoie di Atropo. Ma è una verità che non è fatta per sorprenderci, per prendere alla sprovvista noi che nell’esperienza della psicoanalisi vediamo scorrere tra le nostre dita la trama e l’ordito di desiderio, di sesso, di morte delle tante vite che ogni giorno si raccontano a noi, e che le storie passino tra divano e poltrona, attraverso lo schermo del computer, o per telefono, francamente non cambia di una virgola la sostanza delle cose.
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