Introduzione al dibattito tenutosi presso l'Istituto freudiano sede di Milano il 29 marzo 2022 Marco Focchi L’immagine tradizionale della psicoanalisi divulgata dai media è quello di una pratica un po’ esoterica, che si occupa di simbolismi misteriosi e che il cinema ha a lungo sfruttato traendone spunti di drammatizzazione. Ora, come ricordava Eric Laurent nella Grande Conversazione che ha avuto luogo via zoom settimana scorsa, nel momento in cui la pandemia ci ha obbligato a spostare il nostro lavoro on line, ci troviamo di fronte a una diversa forma di drammatizzazione, diversa da quella della poltrona e del divano che è sempre stata la scenografia classica del dispositivo freudiano. Nel dibattito sul virtuale e sulle possibilità di una psicoanalisi nel virtuale che ci ha accompagnato in questi due anni, le posizioni espresse hanno a volte messo in risalto le limitazioni che si incontrano nel virtuale rispetto all’incontro in presenza, ma altre volte sono state fatte notare anche le cose che il virtuale rende possibili, e che non avrebbero spazio nell’incontro reale.
Si tratta quindi di differenze, non di incompatibilità nel setting, ed è interessante l’idea di affinarsi a una diversa scenografia che usa mezzi prima non disponibili semplicemente perché non erano ancora entrati nel nostro orizzonte. Con questo accento messo sull’incontro virtuale appare allora più che legittima la domanda che dà il titolo dell’incontro di questa sera: La psicoanalisi si occupa di qualcosa di reale? Questo significa anche: la psicoanalisi era partita come cura delle parole, la famosa talking cure di Anna O., dobbiamo dire allora che nella psicoanalisi si tratta solo di parole o c’è una posta in gioco diversa? Ce lo domandiamo non perché le parole siano poca cosa, o siano semplicemente aliti di vento. Chi ha conosciuto l’esperienza della psicoanalisi ha sperimentato anche la forza dirompente delle parole, la loro capacità di ferire e lenire. Ce lo domandiamo piuttosto perché constatiamo un dinamismo psichico che sfugge alla presa delle parole, e che nella psicoanalisi entra pienamente in gioco. Lo sottolinea anche Lacan con particolare chiarezza nello scritto fino ad ora inedito pubblicato nel volume Lacan redivivus, dove afferma: Non pensiamo di ridurre minimamente il campo psicoanalitico a quel che a suo tempo abbiamo chiamato “l’istanza della lettera”. Diamo al contrario una teoria della pulsione, inscritta da tempo in quel che diciamo dell’Es, che pone la dinamica dell’inconscio ben altrove che nel solo effetto di senso” (p.54). Credo che il nostro dibattito di questa sera possa guidarci a delineare i contorni di questo altrove dove dimora una spinta meno coreografica di quella presentata nella psicoanalisi hollywoodiana, un altrove in cui si tessono però i drammi e la realtà delle nostre vite, dove scorre sotto traccia condizionando le nostre scelte quotidiane, non determinabile dal calcolo e che non si può prendere di mira frontalmente, un po’ come la morte, che non si può guardare in faccia. Il reale della scienza è afferrabile, è circoscrivibile dal numero. Il numero lo individua e opera su di esso. Il reale sfuggente del dinamismo inconscio richiede invece altri mezzi, e sono i mezzi che la psicoanalisi ha saputo darsi. Ci sono senz’altro ancora correnti psicoanalitiche che vedono l’azione psicoanalitica nell’automatismo di un insight, quel momento di bagliore del senso che illumina un lato sconosciuto della vita. Noi però sappiamo che accanto a questo è necessario un lavoro, quel che Freud chiamava Durcharbeitung, che è un tornare e ritornare sul materiale proprio perché ha di mira la ripetizione e le forze che la muovono. È con le parvenze che nella psicoanalisi tocchiamo il reale, non con il numero, e questo suggerisce anche l’importanza della questione nell’apparato finzionale o della drammaturgia nel senso di cui dicevamo sopra.
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