Conferenza tenuta via Zoom per la Sezione Clinica dell'Istituto freudiano, sede di Milano, il 15 maggio 2021. Marco Focchi L’asse centrale per Freud ne L’interpretazione dei sogni, l’idea che permette di pensare il sogno come interpretabile, è che il sogno sia una raffigurazione del desiderio come appagato. La premessa è che la funzione del sogno sia di custodire il sonno, e perché sia possibile dormire è necessario sospendere tutti gli stimoli che sollecitano una risposta dell’organismo. Così si fa buio perché la luce non richiami l’occhio alle sue funzioni, e si cerca di creare silenzio perché i suoni non riattivino la nostra attenzione. Questo riguarda gli stimoli esterni. Ma il nostro organismo è esso stesso una fonte ininterrotta di stimoli: sensazioni corporee, indolenzimenti, fame o sete, eccitazione sessuale. Anche il pensiero può essere qualcosa che tiene svegli. Credo sia esperienza abbastanza comune che quando abbiamo un compito importante, qualche decisione fondamentale o qualche prova critica per il giorno seguente, finché i pensieri su come affrontare quel che ci aspetta affollano la nostra mente si fatica a prendere sonno. Tutto ciò che è rimasto in sospeso, da dipanare, da risolvere, diventa una sollecitazione che impedisce di prendere tranquillamente sonno. Anche i nostri desideri sono fattori di questo genere. I pensieri girano attivamente intorno ai desideri, ed è il motivo per cui il sogno, se vuole davvero farsi custode del sonno, deve esercitare la funzione ipnotica di metterli fra parentesi, e l’unico modo di farlo è rappresentarli come fossero appagati. Il sogno mantiene il sonno perché sospende l’attivazione esercitata in noi dai nostri desideri. Normalmente infatti, per appagarsi, il desiderio spinge all’azione e alla elaborazione cogitativa, e finché questa dura, finché c’è spinta all’azione, sicuramente non c’è sonno.
Il sogno tuttavia può solo raffigurare i nostri desideri come appagati, non può appagarli realmente. Se aspiriamo a una notte d’amore con Nicole Kidman o Brad Pitt, il sogno può allestire lo scenario, ma non può portarci nella loro camera da letto. La macchina teatrale onirica ci fa entrare così in un gioco di illusioni, in un intrattenimento che ci accompagna fino al giorno successivo, quando siamo pronti per tornare al lavoro con i nostri desideri inappagati intatti. Si potrebbe dire però che non sempre i sogni sono questa straordinaria festa del pensiero. A volte i pazienti raccontano immagini un po’ grigie, che popolano sogni di banale quotidianità, o riferiscono montaggi onirici stravaganti e bislacchi. Succede perché il sogno evidentemente non si priva di mezzi per nascondere ciò che si apparta nei recessi più segreti dei nostri desideri, recessi così segreti da essere coperti anche ai nostri occhi, e avere quindi bisogno di esprimersi in modo mascherato. C’è però in effetti un punto in cui i sogni si allontanano dalla regola generale individuata da Freud, un punto che per altro Freud stesso aveva ben riconosciuto: è quando i sogni invece di farci continuare a dormire, ci svegliano o, peggio, quando si trasformano in incubi e ci riempiono d’angoscia. Sono i casi in cui affiora la pulsione, in cui la veste illusoria delle rappresentazioni si lacera ed emerge nuda e prepotente l’esigenza di appagamento. In questi casi la pulsione ha una tale forza da strappare il velo del sogno, è in grado di bucare la rappresentazione. Emerge allora il reale brutale della pulsione, che non si lascia incantare dalle belle immagini e vuole soddisfacimento reale, vuole qualcosa da mettere sotto i denti, e se non lo trova morde noi con tutta la sua forza. La pulsione, la volontà di godimento, è su un altro piano rispetto al desiderio. Mentre il desiderio aleggia tra le rappresentazioni, la pulsione va dritta al segno, non si lascia dirottare, vuole quel che vuole. Per la pulsione possiamo riferirci, più che alle volute del senso, alla scrittura considerata quella combinazione di segni che costituisce un reticolo di differenze. La scrittura in fondo è già presente in Freud quando definisce il sogno come un rebus, dove alcune lettere si mescolano ad alcune immagini, per dar luogo a una frase. Freud si riferisce poi anche alla scrittura geroglifica e alla decifrazione che ne ha fatto Champollion. Ma in un senso più proprio parliamo di scrittura nel senso in cui Lacan mette in gioco la lettera, il segno come qualcosa di diverso dall’articolazione significante che produce il senso. Se il sogno per Freud è infatti essenzialmente interpretabile e se ne riesce sempre a decifrare un senso, è per l’appunto perché considera il sogno come custode del sonno. Può svolgere questa funzione finché offre una produzione di senso, per quanto enigmatico, un senso che addormenta il desiderio. È interessante invece vedere dove il sogno fallisce, dove il sogno diventa sogno di angoscia e incubo, dove si lacera il velo semantico. Il rebus, il gioco di rappresentazioni, la concatenazione dei significanti che formano il sogno producono infatti senso, mentre la pulsione affiora con cifre asemantiche, lettere di una scrittura che non possiamo definire enigmatica, perché sono solo le sigle di un’intimazione inderogabile, come la scritta che appare sul muro nel festino di Baldassarre Il sogno d’angoscia, l’incubo, svegliano perché non concedono il rimando del senso, esprimono un’esigenza nell’immediato. Svegliano perché impongono l’azione, poiché la pulsione è il propulsore dell’azione. Quando Lacan, nei suoi primi scritti, riconsidera il sogno di Irma che apre L’interpretazione dei sogni, considera superficiale la lettura data dallo stesso Freud in termini di rivalità tra colleghi e di rivalsa nei confronti della sua paziente. Il punto radicale dell’interpretazione per Lacan sta nelle lettere che compongono la formula Trimetilammina, cioè una sequenza di lettere senza senso. In queste lettere, in questa scrittura primaria, che non è il solco lasciato dalla parola, che precede la parola, troviamo i segni che la pulsione deposita sul corpo, e i tracciati delle zone erogene, troviamo il punto ombelicale del sogno che si inabissa nell’insensato del corpo che vuole godere, e che non si lascia incantare dalle fiabe. Prendere la questione del sogno da questo lato ci porta a tutta un’altra dimensione della clinica, in cui riconosciamo più specificatamente la clinica di Lacan. Non per nulla Lacan ha centrato la sua attenzione non tanto sul sogno che custodisce il sonno ma sul sogno che sveglia, che fa sentire il battito inesorabile della pulsione. Diventa quindi interessante per noi a questo punto cambiare marcia ed entrare nel merito della peculiarità della clinica di Lacan, che implica la differenza tra la dimensione del desiderio e quella del godimento, che abbiamo cercato di fare apparire attraverso le considerazioni sul sogno. Affrontiamo questa differenza a partire dal sogno, ma essa tocca diversi aspetti della pratica concreta lacaniana, non ultimo il differente modo di considerare la posizione femminile. In un certo senso possiamo dire che la clinica di Lacan è nettamente orientata dal modo in cui Lacan ha pensato ed elaborato la questione del godimento femminile. Un primo punto interessante è definire il rapporto che la clinica di Lacan ha con la clinica freudiana, perché tutta una parte dell’insegnamento di Lacan è rivolta a ripristinare le acquisizioni venute dalla scoperta di Freud dell’inconscio che la psicoanalisi post-freudiana è andata perdendo o indebolendo. Il primo aspetto, centrale nella clinica freudiana, a cui si tratta di restituire importanza, è il fantasma. Per Freud il fantasma costituisce la realtà psichica con una forza equivalente a quella che appartiene alla realtà fattuale. Al tempo della teoria della seduzione Freud credeva a una seduzione reale, a un fatto avvenuto nella vita del soggetto che avrebbe avuto un impatto traumatico e condizionante per il seguito della sua storia. Man mano Freud però si rende conto che i racconti di seduzione rivestono piuttosto un aspetto fantasmatico, anche se non per questo le conseguenze nella vita del soggetto sono meno reali o meno pregnanti. Il fantasma è il primo concetto in cui si vede che attraverso la parvenza si tocca il reale. È il fantasma, quindi, il terreno in cui si gioca la partita analitica, non la realtà. Questo aspetto era stato man mano perso di vista dalla psicoanalisi anglosassone, sia nella versione della psicoanalisi dell’io, sia in quella della relazione d’oggetto. Vediamo in particolare nel seminario IV questa potente sterzata rispetto all’andamento della psicoanalisi a lui contemporanea. In particolare con la critica alla psicoanalisi della relazione d’oggetto Lacan fa emergere la nozione di mancanza d’oggetto come fondamentale, come vera bussola per la conduzione della cura. Staccandosi dal realismo dell’oggetto per mettere al centro dell’esperienza psicoanalitica la nozione della sua mancanza, Lacan produce anche un concetto, quello del fallo, che è propriamente lacaniano. Naturalmente anche Freud parla di fallo, ma per lui il fallo è l’immagine del pene. Per Lacan, il fallo è il significante stesso della mancanza, declinata nel Seminario IV in molti modi, e che ha il proprio punto focale nella castrazione. Vediamo quindi apparire in Lacan un particolare movimento, molto chiaro in questa fase, ma che si ritrova man mano nello sviluppo del suo successivo insegnamento: al tempo stesso in cui si rivolge a Freud per ritrovare l’ispirazione che la psicoanalisi successiva ha perduto, Lacan produce una precisazione, segna una differenza, fa emergere qualcosa che nel testo freudiano non ere delineato. Man mano, cioè, che reinscrive la psicoanalisi nel solco aperto da Freud, Lacan fa emergere caratteristiche e peculiarità che possiamo scorgere solo attraverso la sua ottica, fa ogni volta l’aggiunta di un suo ingrediente specifico che permette di mettere meglio a fuoco la clinica freudiana. Il fallo è dunque, in questo senso, un legame di continuità con la clinica freudiana ma anche al tempo stesso una innovazione. La continuità si vede dal lato di quel che possiamo considerare la priorità e l’unicità del fallo. La ripartizione sessuale, diversamente da quanto volevano Jones e la scuola inglese, non passa per due diversi significanti: È solo in relazione al fallo che si determinano la posizione maschile e quella femminile, e in questo Lacan prende il seguito di Freud. Questo almeno se consideriamo la questione dal lato delle parvenze: sia la parata maschile, sia la mascherata femminile, sono infatti due diversi modi di misurarsi con la parvenza fallica. Lacan però non si è limitato a questo. Nelle formule della sessuazione, negli anni Settanta, si delineano due diverse modalità di godimento. Una, maschile, definita e circoscritta del fallo, un’altra, femminile, non ristretta in questo confinamento fallico, che esprime una diversa e illimitata potenza. Se consideriamo infatti le posizioni sessuali attraverso la connotazione fallica la donna è dal lato del non avere, è quella che soffre per la privazione, che resta nel Penisneid. Se prendiamo invece la questione dal lato positivo, dal lato del godimento, la posizione femminile non è affatto privativa. La vediamo sia nelle figure mitiche classiche come Gezabele o Circe, sia nelle sue figurazioni letterarie moderne, come in Emma Becker, Virginie Despentes, Nelly Arcan. Direi che una grande innovazione dell’insegnamento dell’ultimo Lacan consiste proprio nel delineare la posizione femminile in modo positivo a partire dalla determinazione del godimento, considerando due posizioni di godimento irrelate che caratterizzano il maschile e il femminile. Questo ha precise conseguenze anche nella clinica. È solo infatti a partire dalla determinazione di un godimento nella posizione non-tutto, cioè un godimento esente dalla limitazione fallica, che possiamo parlare di un reale senza legge, vale a dire di un reale che non risponde alle sollecitazioni interpretative. Un carattere peculiare della clinica di Lacan è consistito infatti nel rinnovare lo statuto dell’interpretazione slegandolo dal riferimento a dei codici, siano questi il codice edipico freudiano, il codice degli oggetti di Melanie Klein o il codice metapsicologico della psicologia dell’Io. Lacan ha purificato l’operazione interpretativa slegandola da qualunque chiave di lettura preliminare, non ancorandola a nessun referente predeterminato, semplicemente facendo ruotare il gioco dei significanti intorno alla mancanza. E poiché la mancanza, come abbiamo visto, è sostanzialmente la mancanza fallica, tutto il carosello del significante gira intorno al significato fallico. Per questo è stato necessario, con l’ultimo insegnamento di Lacan, andare al di là del fallo, esplorare una modalità di godimento non soggetta al vincolo fallico, modalità estrema certo, senza limiti, ma che approda a una considerazione positiva del godimento in quanto tale. Entrare nel continente nero del godimento femminile è il passo necessario per capire la clinica di Lacan, perché ogni interpretazione è un’operazione sul significante e si riconduce in ultima istanza al significato fallico. Il godimento in quanto tale invece, come emerge dal quadro che ce ne dà la sessualità femminile, è qualcosa su cui non fa presa l’interpretazione, è il nodo dell’interpretabile. Per questo la clinica dell’ultimo Lacan non è più una clinica dell’interpretazione, non è più una clinica che insegue il senso, ovvero le infinite variazioni del significato fallico. La clinica freudiana ha come risorsa esclusiva l’interpretazione. Quando il paziente non risponde all’interpretazione si parla di resistenza e, prendendo lo spunto da Wilhelm Reich, la psicologia dell’Io costruisce una propria modalità di sequenziare la cura suddividendola in interpretazione delle resistenze come fase preliminare rispetto all’interpretazione del materiale. Lacan tuttavia non considera che la resistenza sia qualcosa di interpretabile. Essa è piuttosto un indice del reale, ovvero di ciò che è radicalmente separato dal senso. Occorre quindi una modalità operativa diversa dall’interpretazione, la quale può solo inseguire il senso. Per dare un’idea di questa diversa operazione Miller ha ripreso l’espressione che Lacan usa nella lezione dell’11 gennaio 1977 del seminario L'insu que sait de l'une-bévue s'aile à mourre, l’espressione è: “déranger la défense”, ovvero disturbare la difesa. Perché la difesa? Quale difesa? Si tratta della difesa contro l’infinito del godimento, che si configura per altro verso come pulsione di morte. Il desiderio in fondo è sempre limitato dalla difesa, e quando se ne disfa si esprime allora come volontà, come pura volontà di godimento, che nel suo estremo è una corsa verso la morte. Ne abbiamo l’immagine esemplare in Thelma e Louise, o nella sua radicalizzazione letteraria, in Baise-moi di Virginie Despentes, o ancora lo vediamo in Nanà di Zola, dove l’epilogo di un desiderio senza briglie lasciato alla propria corsa sfrenata entra in un risucchio di annientamento, di dilapidazione di patrimoni, di beni, di oggetti di un lusso iperbolico. Il vertice e la follia di una brama avida e incontenibile di piaceri porta Nanà dal palcoscenico più in vista e più brillante di Parigi, alla devastazione, al disfacimento, all’autodistruzione. La volontà di godimento lanciata in una corsa esorbitante, smisurata, segue la rotta della pulsione di morte, in una acquisizione straripante in cui il soggetto, consumando tutto, consuma se stesso fino alla propria rovina. Cosa significa questo in rapporto all’idea di disturbare la difesa? In fondo la difesa, in questa luce, sembra avere piuttosto un valore positivo, innalzando una barriera contro questa corsa verso la distruzione. In Freud la nozione di difesa si interpone tra l’Io e la pulsione, proteggendo l’Io da un sovraccarico d’eccitazione che finisce per risultare doloroso. In questo senso la difesa segna un punto d’arresto in questa corsa a briglia sciolta del godimento verso il disastro e la rovina. In questa prospettiva tuttavia vediamo già come, diversamente dall’interpretazione che lavora sul senso, la difesa operi sulla pulsione, la contienga. Se la difesa ha questa funzione di salvaguardia, perché dobbiamo allora intervenire disturbandola, aggirandola, spiazzandola? Il fatto è che il godimento senza limiti proiettato verso la pulsione di morte, può essere considerato anche in altre direzioni. La pulsione di morte si declina nella ripetizione, e la ripetizione, è il movimento che ritorna verso un punto di scaturigine. La ripetizione punta al segno che marca l’esperienza originaria di godimento nel suo carattere traumatico. Lo scorcio sull’origine ci apre allora una direzione del godimento illimitato completamente diversa da quella della corsa a rotta di collo verso la morte, ci orienta verso lo sfondamento infinito di cui il fantasma costituisce uno schermo. Sappiamo che per Lacan il fantasma non è interpretabile, e si delinea qui un campo di operazioni diverse. Prendiamo la definizione del fantasma come finestra sul reale (Proposition du 9 octobre, p.22 - L’angoscia 19/12/1962). C’è un aspetto immaginario del fantasma, che è la messa in scena. Non c’è nessuna possibilità di raggiungere il godimento senza questo passaggio attraverso il fantasma. È l’inscenazione perversa che il nevrotico si limita a fantasticare e che il perverso mette in atto con un’inscenazione complicata, con precisi oggetti, con rituali determinati. Il versante immaginario del fantasma è però ancora un modo di far passare il godimento per la filiera della logica fallica. La formula lacaniana del fantasma è infatti più attinente alla posizione maschile, dove il soggetto si annulla di fronte a un oggetto in cui s’incarna il feticcio. Nel femminile, più che l’oggetto a che fa da fermo, da punto d’arresto allo svanimento soggettivo, abbiamo piuttosto S di A barrato, la mancanza che buca lo schermo immaginario, e dietro lo schermo immaginario c’è l’avvitamento, la mise en abyme in cui l’oggetto di godimento, abitualmente proiettato sull’Altro, si rivela essere il soggetto stesso. Così, per esempio, il coito genitoriale a cui l’Uomo dei lupi assiste è quello che dà luogo alla sua stessa nascita, e il godimento sconosciuto che sconcerta l’Uomo dei topi non è altro che il proprio, dietro il velo del capitano crudele. Il fantasma ha dunque una funzione difensiva, che fissa una scenario, congela un’immagine che fa da argine al carattere traumatico del godimento. Disturbare la difesa, spiazzarla, vuol dire allora scuotere la fissazione fantasmatica, far affiorare il godimento che avvolge come fosse la confezione elegante di un pacchetto regalo, toccare il punto traumatico, perché solo reincrociando l’impatto traumatico si può operare uno spostamento di godimento. Spiazzare la difesa vuol dire allora spogliare il fantasma della propria fissazione immaginaria, far affiorare il puro segno insensato che posiziona il soggetto rispetto al proprio godimento. La corsa mortale della distruzione si rovescia allora nello sprofondamento abissale, nell’origine, perché gli scenari dell’angoscia sono solo quinte sull’infinito abisso temporale da cui affiora il soggetto. La distruzione si rovescia in creazione, in possiblità, in potenzialità, in spinta. Il fantasma si prosciuga allora in un puro indice di scrittura, segno di godimento, punto di ripartenza, lo sconcerto diventa sorpresa. La clinica di Lacan porta a questi punti di estrema radicalità, e al tempo stesso di grande delicatezza. Non è più in gioco infatti un’interpretazione che può non venire al momento giusto e non andare a segno. Qui si tratta dei cardini di fondo dell’esistenza soggettiva, si tratta dei punti d’ancoraggio della vita, del senso, della morte. Da qui si può scivolare verso il fondo oscuro della pulsione di morte o verso l’abisso di un nuovo inizio. Toccare il reale significa mettere in gioco quel che non si può immaginare e che, proprio per questo, la scienza ha come progetto di mettere sotto controllo. Dalla metafisica greca alla meccanica quantistica il progetto del pensiero occidentale è il dominio del reale, ma più si tenta di governarlo più scappa di mano, come dimostrano la catastrofe climatica o la pandemia. Nella psicoanalisi l’obiettivo non è di dominare il reale. Ne Il trionfo della religione Lacan dice semplicemente che, senza bisogno di drammatizzare, al reale bisogna abituarsi. (Vedi anche Ecrits p.521, “On s'habitue au réel. La vérité on la refoule”). Si tratta di esporre il soggetto alla sorpresa del reale spiazzando la difesa. Questo consente di potersi abituare al reale e anche, direi, di farne qualcosa, come quando il granello di sabbia nell’ostrica diventa perla.
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