Marco Focchi Ampliamento del discorso tenuto su piattaforma zoom il 22 settembre 2020 per il Centro Heta di Ancona Ha preso sempre più spazio, nei nostri discorsi clinici, il riferimento al reale. Parliamo di un inconscio reale, del reale del godimento, del reale del trauma, ma spesso sembra che quel che intendiamo con questo termine ci scivoli dalle dita, e che per quanto sia diventato ormai caratterizzante del nostro lessico, non sempre ne abbiamo un’idea precisa. Sull’argomento ritorna Jacques-Alain Miller nella parte finale del suo insegnamento. “Che cos’è, in fin dei conti, il reale?”, si domanda a un certo punto nel corso L’uno-da-solo (pag.19). Direi che nel suo insieme il corso potrebbe andare sotto l’insegna di questa domanda. L’uno-da-solo, tenuto nel 2010-2011, è l’ultimo corso che, fino ad ora, abbiamo di Miller, a parte gli interventi a Torino e a Parigi del 2017, ed è il corso dove Miller fa il punto sulle questioni alle quali ha lavorato fin dalle prime battute della sua esegesi di Lacan, quando Lacan era ancora vivo, fin dai suoi primi interventi pubblicati su Delenda, il bollettino diretto al tempo da Eric Laurent, che scandiva le tappe dello scioglimento dell’École freudienne e che prendeva posizione nella rovente politica della psicoanalisi di quegli anni.
È interessante valorizzare questa datazione, perché forse oggi abbiamo perso la misura di come la lettura di Lacan in quegli anni fosse incentrata quasi esclusivamente sull’inconscio strutturato come linguaggio. Parlare di “lettura" che se ne faceva è già un modo generoso di esprimersi, perché in realtà non si facevano letture di Lacan: si estraevano piuttosto frasi dal suo testo che venivano presentate come aforismi. L’architettura dell’insegnamento di Lacan che oggi conosciamo, e alla quale ci riferiamo oggi nei nostri lavori, non esisteva minimamente in quegli anni. Gli allievi diretti, anche i più geniali, sapevano solo trarre interminabili elaborazioni a partire da uno spunto, da un aforisma isolato, da una suggestione. La ricostruzione architettonica dell’insegnamento di Lacan, la periodizzazione, la struttura interna e soprattutto la forza della sua clinica, erano interamente velati dalla potenza ipnotica della sua figura. Per me è sempre rimasto come una sorta di enigma il fatto che la persona a lui più vicina, che addirittura faceva parte della sua famiglia, potesse non essere catturato dal vortice della personalità di Lacan, e potesse mantenere la distanza necessaria a penetrarne l’opera nelle sue diverse pieghe e a chiarirla nelle sue più sofisticate articolazioni. Ha quindi per noi un valore particolare che il punto di leva da cui Miller è partito per entrare nei complessi meandri dell’insegnamento di Lacan si ponga nettamente come contrappeso rispetto al punto in cui si bilanciava l’opinione corrente di allora su Lacan, visto in genere come l’autore della grande rivoluzione in cui si era rimessa in movimento la psicoanalisi facendo passare il testo di Freud attraverso il filtro dello strutturalismo e attraverso la formulazione delle leggi del linguaggio. Queste leggi hanno permesso di reinterpretare quelli che adesso possiamo leggere come i testi linguistici di Freud, L’interpretazione dei sogni, Il motto di spirito, La psicopatologie della vita quotidiana. Miller riprende, nelle prime lezioni del corso L’uno-da-solo, quella che era stata la sua prima chiara lettura di Lacan, la sua prima periodizzazione, quando aveva diviso le fasi dell’insegnamento di Lacan attraverso la sequenza di immaginario, simbolico e reale. Tanti anni fa quando avevo letto per la prima volta questa sua griglia interpretativa – seguendo la quale Lacan inizia con l’idea di una causalità incentrata sull’immaginario, per poi passare a una valorizzazione del simbolico negli anni ’50, e poi concludere mettendo l’accento sul reale – allora questa sequenza mi era sembrata un po' semplificativa o preconcetta. Devo dire invece che ora, disponendo della mappa che lo stesso Miller ci ha disegnato in questi anni dell’insegnamento di Lacan, mi sembra invece assolutamente pertinente e appropriata, e mi pare rispecchi la realtà del pensiero in movimento di Lacan. Il fatto che Miller ricentri la sua lettura di Lacan spostandola dall’inconscio strutturato come un linguaggio al reale modifica anche tutti i pesi dei concetti all'interno del pensiero di Lacan nel suo insieme. È chiaro che se ci riferiamo alla struttura del linguaggio, l’accento maggiore va sulla linguistica, su De Saussure e su Jakobson, su Lévi-Strauss. È un aspetto che nelle lezioni del corso L’uno-da-solo Miller richiama ampiamente e che riferisce alla retorica. Questo riguarda tutta la parte dell’insegnamento di Lacan che gira intorno alla Cosa che parla. Se Lacan mette in gioco una retorica, è perché si tratta di muovere qualcosa attraverso le parole. In questo i maestri antichi di retorica erano campioni: le parole erano utilizzate per muovere le passioni. In questo senso perché non dovremmo ammettere che c’è un lato di retorica nella psicoanalisi? Non si tratta, nell’esperienza psicoanalitica di spiegare, di Erklären, come ci si esprime nella psicologia dell’Io, ma di toccare, di muovere, di commuovere e, perché non dirlo?, anche di turbare. Il modo in cui porgiamo un’interpretazione non è mai indifferente. La scelta della parola è essenziale, e sappiamo che alcune parole toccano e altre no. A volte siamo sorpresi noi stessi dell’effetto di una frase, di un termine che colpisce un bersaglio ancora non avvistato. È un lato dell’esperienza psicoanalitica, messo in luce da Lacan, non superato nelle fasi successive, e questo è da tenere presente. In fondo possiamo considerare che la fase iniziale di una analisi si sporge maggiormente dal lato della retorica. Vediamo che le parole fanno effetto. Dal momento in cui ci rendiamo conto che si è instaurata la traslazione, vediamo anche che le parole muovono le cose, e con una rapidità a volte sorprendente. La potenza d’agitazione della parola non è qualcosa da lasciare da parte. Nella distinzione proposta da Miller tra inconscio di traslazione e inconscio reale, è chiaro che all’inizio dell’esperienza analitica abbiamo a che fare più con l’inconscio di traslazione, e non partiamo subito toccando i punti di fondo. Bisogna lasciare tempo perché le parole si scarnifichino dal senso per arrivare all’inconscio reale, e non è, in ogni caso, un obiettivo che ci si possa prefiggere per tutte le cure. Man mano tuttavia che si alleggerisce l’esperienza analitica dalla linguistica e dalla retorica vediamo apparire in Lacan i riferimenti alla logica, alla matematica, alla topologia, dove si fa strada la forza della pulsione. Vediamolo in un esempio storico, che credo ci chiarirà la questione. Dal lato della retorica abbiamo, riferito da Tucidide, quello splendido gioiello che è il discorso di Pericle tenuto durante la guerra del Peloponneso in commemorazione ai caduti di Atene, toccante elogio della democrazia ateniese che ancora oggi non ha perso nulla del suo fascino, del suo potere di incantamento. Se però leggiamo più avanti in Tucidide troviamo un altro discorso, meno permeato dallo charme di Pericle, più diretto e senz’altro più brutale. Sono gli ambasciatori di Pericle che parlano ai Meli per convincerli a consegnarsi ad Atene. Non vi conviene resistere – dicono – perché siamo i più forti. I nostri amici spartani ci proteggeranno – rispondono i Meli. Vedremo – ribattono gli ateniesi. Infatti, Sparta non interviene e i Meli vengono tutti passati a fil di spada dagli ateniesi, che inviano nell’isola la loro flotta e il loro esercito. Qui il linguaggio non è più quello ricco e avvolgente della persuasione, della retorica elegante di Pericle, è quello brutale della forza: cedete perché non avete i mezzi per resistere. Dov’è la forza quando parliamo di Lacan, o quando si parla della psicoanalisi in genere? Sappiamo che la forza è la forza della pulsione, che non parla il linguaggio di Pericle ma quello dei suoi ambasciatori. La pulsione non si lascia convincere dalle belle parole, non si lascia invaghire dal senso. La pulsione vuole soddisfazione. Nel sogno, che raffigura il desiderio come soddisfatto, la cosa più andare avanti per un po’, ma sappiamo che se la forza della pulsione si fa sentire oltre un certo limite, allora il sogno non basta più per garantire il sonno. La forza della pulsione sveglia, e Lacan lo illustra in modo molto convincente nel Seminario XI. Quando passa allora dai mezzi del simbolico alla fase successiva Lacan reintroduce la pulsione, che in Funzione e campo aveva squalificato per valorizzare piuttosto la potenza del linguaggio. Vediamo allora che anche i riferimenti di Lacan si spostano. Non abbiamo più De Saussure e Jakobson ma la matematica. Miller mette ben in luce questo passaggio con un riferimento ad Alain, lo scrittore. Quando Alain parla della matematica presenta l’oggetto matematico come qualcosa di duro, che dà come solo accesso l’esatta conoscenza e l’uso corretto che ne risulta. Non c’è aspirazione, preghiera, speranza che possano fare breccia, perché tutto questo – che in fondo costituisce la panoplia della retorica – ha su di esso ancor meno efficacia che nel lavoro sulle cose stesse: una pietra può infatti essere spezzata da un colpo disperato, mentre l’oggetto matematico è insensibile alla disperazione. L’oggetto matematico offre un altro tipo di resistenza che la parola, toccando le emozioni, non penetra. Quando riqualifica la pulsione, quando le dà un posto tra i concetti fondamentali della psicoanalisi, Lacan comincia a cercare riferimenti diversi rispetto alla linguistica, passando dalla linguistica alla matematica. Muovere il senso va bene infatti nelle fasi iniziali dell’analisi, quando occorre mettere in movimento la traslazione, ma quando, procedendo con l’analisi, incontriamo sul piano clinico la resistenza della pulsione, i movimenti di senso non sono più sufficienti, ed è la matematica che Lacan comincia a prendere come riferimento. Che cos’è allora il reale? È sempre difficile, e lo è ancora per noi, affrontare questa domanda senza scivolare nelle concezioni correnti del reale, senza pensarlo attraverso quelle qualità empiriche, come la durezza, il carattere sostanziale, l’impenetrabilità che definiscono le cose di cui siamo circondati, o senza ricorrere alla biologia, dove il reale sarebbe quel che non è semplicemente psichico, e che si può, per esempio, aggredire farmacologicamente. In fondo la psichiatria ha fama di essere una scienza più concreta della nostra proprio perché interviene sulla realtà biologica del corpo, sul nostro chimismo interno, perché il farmaco è qualcosa di tangibile, di solido, che possiamo quantificare e inghiottire, e ne sentiamo fisicamente i contraccolpi, oltre a tutti i correlati secondari, gli effetti collaterali. Chi, pensando all’oggetto orale, all’oggetto anale, non ha pensato alla materialità del cibo o dell’escremento? È più difficile avere avere questo senso di concretezza con lo sguardo e con la voce, ma ci sono tuttavia cose che si vedono e che si sentono. Lo dice d’altra parte lo stesso Miller: per Freud il reale è la biologia (pag 19). Ma aggiunge: volendo restare sulla stessa lunghezza d’onda – e la stessa lunghezza d’onda è quella della domanda: “Cos’è il reale?”, domanda con la quale si può incorrere facilmente in mille trappole, poiché scivola facilmente verso l’ontologia, che invita ad apporre degli attributi a un essere – con quali predicati possiamo circoscrivere quell’essere che è il reale? Ma, per l’appunto, volendo restare sulla stessa lunghezza d’onda senza scivolare nell’ontologia, la risposta che dà Miller è che per Lacan il reale è la topologia. Sembra di poter dire: ah ecco! Lo sapevo! Ma è quel che viene in mente quando le cose complesse sono dette con chiarezza e semplicità. Perché in realtà da nessuna parte Lacan dice che il reale è topologia. Dice qualcosa che ci va vicino, dice che la struttura è il reale. La topologia tuttavia, indica un rapporto con lo spazio, e Miller lo mette ben in risalto: “Non si tratta più di materia, ma di pura relazione spaziale che, rispetto allo spazio comune, deve essere segnato con la negazione, un non-spazio, se posso indicare in questo modo che non si tratta di qualcosa di sensibile”. Spazio non sensibile, cosa vuol dire? Noi siamo nello spazio, ci muoviamo nello spazio, traversiamo lo spazio delle stanze in cui viviamo. Qui Miller ha certamente sullo sfondo della mente un riferimento a Kant, che utilizza a lungo in questo corso. Kant, che rivoluziona completamente la filosofia, ha però anche dei temi molto classici. Uno di questi è che alla conoscenza si accede per due vie: quella sensibile e quella intellegibile, suddivisione più che tradizionale che risale alla divisione platonica tra il mondo sensibile e il mondo intellegibile. Quello sensibile si coglie con i sensi. Quello intellegibile si coglie con il nous. Se qualcosa non è sensibile, allora è intellegibile. Ma per Kant spazio e tempo sono forme a priori della sensibilità e costituiscono il capitolo dell’estetica trascendentale. Ora Lacan, a partire dalla topologia, rivendica una nuova estetica trascendentale, vale a dire considera che le intuizioni pure dello spazio o del tempo si strutturano in modo diverso, se consideriamo lo spazio attraverso la topologia che Kant non doveva conoscere. Eulero, a cui dobbiamo la prima apparizione della topologia, era nato una ventina di anni prima di Kant, ma se anche Kant ne ha conosciuto il lavoro non ne ha fatto un suo riferimento per quanto riguarda la riflessione sullo spazio. Se prendiamo questo filo, che il reale è la topologia, abbiamo quindi una smaterializzazione del reale, che si riduce a un fascio di relazioni spaziali. Lacan chiamava la topologia una geometria duttile, elastica, che sembrerebbe contrastare con l’idea dell’oggetto duro che ci dà Alain. In realtà non è così, poiché ci sono in uno spazio topologico direzioni dove non si può proprio andare, non perché siano vietati, ma perché è impossibile. Possiamo girare finché vogliamo su un nastro di Moebius, non arriveremo mai dall’altra parte, semplicemente perché in una superficie unilatera non c’è un’altra parte. Per quanto elastica sia quindi una figura topologica, possiamo stiracchiarla quanto vogliamo, ma la struttura non cambia. L’esempio spesso proposto dai topologi, che evidentemente li diverte, è che un toro è equivalente a una tazzina di caffè, per via del buco. Se vogliamo trasformare uno spazio topologico dobbiamo violarlo , praticare un taglio, destrutturarlo e ricostituirlo in altro modo. Dalle figure topologiche che usa nel seminario su L’identificazione, man mano Lacan passa poi, nel suo ultimo insegnamento, alle strutture del nodo borromeo. È la parte che si sviluppa come clinica borromea, in contrapposizione alla clinica della metafora, della metonimia, che è una clinica del senso. Sento a volte dire che la clinica borromea è difficile da rendere concretamente, che non ci sono casi in cui sia esemplificata. Se si dice così è perché si parte da un’idea applicativa, e se si parte da un’idea applicativa si è mal posizionati anche rispetto alla clinica della metafora e della metonimia. Non dobbiamo pensare a delle strutture che esistono fuori dal mondo fenomenico e che poi noi applichiamo al materiale che la clinica oggi ci offre. Dobbiamo semmai far emergere le linee di forza strutturali dal materiale stesso. Se non entriamo in questo ordine di idee in psicoanalisi non ci serve né la clinica del senso né la clinica borromea, perché è possibile delirare con la matematica nello stesso modo in cui è possibile con la metafora e la metonimia. Per questo abbiamo esempi famosi: sappiamo cos’è successo a Pierre Soury, uno dei consiglieri matematici Lacan e dei topologisti più raffinati della sua epoca. Questa premessa è necessaria per entrare nel merito di quel che costituisce l’asse centrale delle prime lezioni del corso, che articolano la critica all’ontologia e la promozione dell’Uno. Vediamo qual’è il punto: il problema è il sintomo. Quando ci spostiamo dalle coordinate del primo insegnamento di Lacan, fondato sulle leggi del linguaggio che sono metafora e metonimia, dove il sintomo è una metafora il cui il significato è rimosso – formula cristallina – cosa diventa il sintomo? Entriamo nell’ambito più complesso che mette in gioco la pulsione. È a questo punto che la pulsione ritrova pieno titolo il suo diritto di cittadinanza tra i concetti clinici. La pulsione non cerca senso, cerca soddisfacimento. La pulsione si esprime, come dice Lacan in Kant con Sade, come volontà di godimento. Non è più il senso ma il godimento a essere in questione. Tenerne conto sul piano clinico significa che non possiamo più considerare che l’operazione analitica si limiti a interpretazione che ci rivela un senso nascosto, a fissare in una metafora il senso che la metonimia sottrae nel gioco sempre sfuggente del desiderio. Quel che è in questione ora, dice Miller, non può essere colto dal significante retorico, ma unicamente tramite il significante matematico e grazie a quel che Lacan chiama la logica, che bisogna capire nella sua specificità. La logica è un certo uso del significante matematico applicato al linguaggio stesso, e non al mondo, alla natura, agli astri (pag 93). Questo è un passaggio cruciale perché distingue le procedure della scienza dalla procedura della psicoanalisi attraverso un diverso uso del significante matematico. Cos’è il significante matematico? Il significante retorico è quello che produce un moto dell’animo, è quello che articolando S1 e S2 in un certo modo dà luogo a un senso che ci agita sollevando in noi indignazione, compassione, rivolta, ovvero tutte le reazioni di simpatia o antipatia, di attrazione o repulsione. È quindi un significante che descrive, individua e discrimina ciò che dobbiamo amare o odiare. Con il significante matematico non c’è nulla di tutto questo. Anche il significante matematico si trova in articolazione, ma è un’articolazione sorretta dal puro nulla dell’inferenza. È semplicemente: A –> B, A implica B. L’implicazione è univoca, lineare, a differenza del significante retorico che produce un’aura, che crea un campo di equivoci, di allusioni, di molteplici strade possibili. Domandiamoci a questo punto: perché occorre il significante matematico per operare sulla pulsione? Risposta: perché la pulsione è univoca, vuole solo il soddisfacimento, vuole tornare a quell’evento di godimento che in un momento si è dato e ritratto, e che si è contrassegnato in una marca univoca, un segno, una tacca che non si offre a nessuna risonanza di senso. È qui che Miller comincia a far entrare in gioco le differenze tra l’essere e l’esistenza. L’essere infatti è il luogo degli equivoci, l’essere si dice in molto modi. Per esemplificarlo Miller va prendere un testo di Franz Brentano intitolato La diversità delle accezioni dell’essere in Aristotele. L’essere è aperto alle più svariate possibilità, si possono dire cose che non esistono, si può parlare del cerchio quadrato, del cavallo con le ali. Miller si riferisce ad Alexius Meinong, filosofo austriaco morto nei primi anni ’20, che costruisce una vera e propria ontologia degli oggetti immaginari. Tutto ciò che può essere detto, tutto ciò che fa parte di un discorso, se non necessariamente esiste, come la montagna d’oro, ha tuttavia una consistenza e una sussistenza, quindi possiamo pensarlo, e per negargli l’essere dovremmo prima attribuirglielo. Nell’essere si può far entrare tutto: sia quel che esiste sia quel che non esiste. Per questo l’essere è associato – dice Miller – alla parvenza. Per sapere invece se qualcosa esiste oppure no bisogna far ricorso alla logica. “La parola – afferma – consente di mettere in scena enti che vengono meno alla prova logica e si rivelano essere soltanto parvenze. L’equivocità dell’essere vuole dire innanzitutto che l’essere è fatto solo di ombre e di riflessi” (pag. 99). Su questa base Miller costruisce la ripartizione che fa da spartiacque nel suo corso: l’essere è di parvenza, l’esistenza concerne il reale. L’esistenza mette in gioco il reale perché deve passare la prova della logica. Naturalmente in psicoanalisi non è che si tratti di mettere alla prova l’esistenza degli oggetti del mondo. L’esistenza in questione è l’esistenza del godimento. Abbiamo che se per un verso il rapporto sessuale non esiste, per altro verso il godimento invece esiste, e questo mostra che per Miller, e per Lacan, il godimento non ha niente a che vedere con il rapporto sessuale. Il godimento dell’Altro, formula che Lacan ha esplorato per presto abbandonarla, in effetti non esiste. Quel che esiste è il godimento dell’Uno. Cos’è il godimento dell’Uno? È quel che Lacan, per esempio nelle conferenze milanesi, chiama la juissance qu’il ne faut pas, vale a dire il godimento autoerotico. È la dimensione che Lacan mette in gioco quando parla del corpo che, –dice – se jouit, utilizzando il riflessivo: il corpo “si gode”. Miller commenta questa espressione dicendo che non si tratta del corpo che gode, che sarebbe piuttosto il corpo del porno ma, per l’appunto, del corpo che si gode, e questo indica – come ha detto Lacan – che non c’è rapporto sessuale, indica cioè il primato dell’autoerotismo. Conosciamo il lamento che spesso alcune donne innalzano relativamente ai loro partner durante il rapporto sessuale: tu non fai l’amore con me, ti masturbi nel mio corpo. Ed è vero: per godere occorre in effetti passare per il fantasma che si interpone tra i corpi degli amanti. Lo scenario fantasmatico assume poi a volte dimensioni abbastanza complesse, che implicano una certa messa in scena, con peculiari apparati di abbigliamento, di catene, du fruste, di priapi. Il fatto è che anche nel femminile occorre passare per il fantasma per ottenere il godimento. Solo che per il femminile questo aspetto viene in secondo piano rispetto alla dimensione erotomane, rispetto cioè al bisogno di essere amata, il bisogno di sentirsi l’unica. Sappiamo poi che ci sono donne che apparentemente non sentono il bisogno di essere uniche, e che sono a loro volta amanti seriali. Il fatto è che nella contemporaneità sempre più spesso ci sono donne che si avvicinano alla sessualità dal lato maschile. A questo punto, per riprendere il filo del discorso di Miller, è importante sottolineare una altro aspetto, che riguarda il rapporto con la scrittura. Nella contrapposizione tra “non c’è rapporto sessuale” e “c’è invece godimento”, non dobbiamo dimenticarci di completare la formula di Lacan, ovvero: non c’è rapporto sessuale che si possa scrivere. Per converso il godimento va invece insieme alla scrittura, si scrive sul corpo. Qui si apre un orizzonte davvero interessante per noi. Qual è il punto intorno a cui gira l’esperienza di analisi? La risposta di Lacan è: l’inesistenza del rapporto sessuale, tanto che nella Lettera agli italiani, Lacan lo pone come obiettivo di un’analisi: al termine dell’esperienza d’analisi l’analizzante deve poter dimostrare l’inesistenza del rapporto sessuale, e si tratta di vedere come ciascuno se la cava con questo punto. Poiché infatti nella lettera Lacan mette la passe al centro della progettata scuola italiana, che avrebbe dovuto reggersi sul Tripode dei suoi tre allievi, la passe deve essere considerata una sorta di prova: è analista chi ha fatto prova dell’inesistenza del rapporto sessuale. Lacan conclude la lettera con una frase sibillina: tutto girerà intorno a degli scritti che devono uscire. Quali sono questi scritti? Evidentemente quelli dei candidati che si presentano alle prove della passe. Al termine dell’esperienza i candidati presentano uno scritto in cui rendono conto di quest’esperienza stessa, che deve configurarsi come una dimostrazione dell’inesistenza del rapporto sessuale. Non è quel che succede attualmente in tutte le Scuole dell’AMP? Si viene nominati AE e si produce una testimonianza che viene presentata all’assemblea dei colleghi e pubblicata poi nelle diverse riviste in tutte le lingue. Di cosa si tratta in questi scritti? Di produrre una dimostrazione scritta di quel che non si può scrivere. Viene da chiedersi come funziona, perché sembra uno strano labirinto. Bisogna dire allora che sullo sfondo quel che Lacan ha in mente c’è il teorema di Gödel, che è propriamente una dimostrazione di impossibilità. Si tratta di dimostrare che esiste nel sistema una proposizione vera che non è dimostrabile, ovvero di produrre una scrittura su quel che è impossibile scrivere. Cosa seguiamo in un’analisi per arrivare a questo? Seguiamo la traccia dei fantasmi, i sintomi, i segni della ripetizione, tutte le marche di scrittura che il godimento lascia sul corpo, su quel corpo che, riprendendo l’espressione di Lacan, si gode. Come si arriva a far saltare fuori in un’analisi l’inesistenza del rapporto sessuale? Seguendo i segni del godimento, entrando nei suoi ghirigori fantomatici, entrando negli sviluppi del sintomo che non è quello da cui guarire, quello da sopprimere, è quello piuttosto che si costituisce come segno di godimento. Mettendosi sulla pista dei tracciati della ripetizione, si reitera l’Uno ostinato in cui si sigla l’esistenza del godimento, attraverso cui – per riprendere ancora un’altra espressione di Lacan –possiamo delineare i bordi del buco. E qui parliamo precisamente del buco, non della mancanza. La mancanza è relativa all’essere – Lacan ne parla come di manque-à-être. Si tratta, in questa espressione, di quella mancanza che non si può colmare. Quando Lacan pensa il termine nell’analisi, fino agli anni ’60 considera si tratti di condurre il soggetto a una mancanza che non è quella in cui l’oggetto del desiderio si sottrae nella sua metonimia. È la mancanza in quanto tale, è la mancanza che è andata al suo posto. Se però la mancanza ha un posto è perché è ordinabile, appartiene a un ordine, è perché la nozione di ordine è con essa congruente. Ebbene, rispetto al buco non si può invece applicare nessuna nozione di ordine. Il buco non va riportato al suo posto, perché non c’è un suo posto. Il buco va contornato, va delineato, e la scrittura del bordo del buco è quel che l’analisi persegue decifrando i segni del godimento, i segni di una scrittura affine ai geroglifici del sogno in Freud. L’ombelico del sogno, sappiamo, si apre su un reale che se le rappresentazioni del sogno non riescono più a coprire, e per questo provoca il risveglio. Ebbene, l’esperienza di analisi è questa esperienza di risveglio che presenta l’inesistenza del rapporto sessuale rispetto a cui il soggetto è messo alla prova dalle sue invenzioni singolari. La passe è una di queste, ma evidentemente non è la sola, perché l’inesistenza del rapporto sessuale è un altro modo per Lacan per dire una parola che pronunciava solo con riluttanza, la parola libertà. A noi piace dire, in questo senso, che la psicoanalisi è una pratica di liberazione.
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